Anna M.
“Fanciulla, ti conobbi in luogo di sventura…
tra pene, croci e triboli, le tue virtù ammirai…
che se il mio cuor potesse ridirti i sensi miei…
tutte le ambasce e affanni nel tuo cuor verserei.
O sì! Fanciulla amabile, tu che virtù possiedi
ricorda un’infelice che supplice ti chiede…
una preghiera e amor…!!
Son priva de’ miei cari, afflitta, desolata…
senza una voce amica che renda consolato
questo angosciato cuor…!!
Tu dunque puoi lenire, le pene del mio cuore
mercé le tue preghiere, possa otter vigore
per sopportar tranquilla quello che Dio vorrà!!
Addio, rara fanciulla, sii certa che il mio cuore
memore si farà per un tanto favore…!!
Eppoi più tardi un premio,
in Ciel ci attenderà…!!!
Questi poveri versi dedico in segno
di stima e d’affetto alla buona
Annita, la sua affezionatissima amica Lucia.”
Lucia M., Poesia non datata, ma forse scritta tra il 18 febbraio 1888 e il 7 dicembre del 1889 e conservata all’interno della nosografia dell’autrice
(Lucia, che era stata ricoverata nell’Ospedale Psichiatrico San Niccolò di Siena il 18/02/1882 con la diagnosi di frenosi ipocondriaca, aveva 30 anni ed era nata a Montepulciano. I primi sintomi di isteria erano comparsi circa sei anni prima ed erano gradatamente aumentati: la donna aveva creduto di poterli curare assumendo l’acqua Leroy, che però altro non era che un purgante spacciato come panacea di tutti i mali e che le aveva provocato gastralgia e nevralgia, spingendola a farsi continue iniezioni di morfina per combattere il dolore. Quanto ad Annita, la donna alla quale è dedicata la poesia, era anch’essa ospite del manicomio nel quale era stata ricoverata con una diagnosi di frenosi isterica. Di otto anni più giovane di Lucia, appare a quest’ultima come una “fanciulla amabile“, unico conforto in questo comune “luogo di sventura”.)
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Poldino il poeta
“Eccellenza:
Mi chiamo Piero e son figlio (legittimo) di Ferdinando di Lorena, e per conseguenza, nipote di Umberto di Savoia, di lei sovrano. E pare che la qualità di principe del sangue non basti a mettere al coperto dalle persecuzioni. Quante ne ho passate dal giorno della mia nascita ad oggi! […] Mi basti dire che sono più di 6 mesi che mi trovo rinchiuso nel Manicomio di questa città, ove mi si tiene non per curarmi come alienato (non lo sono o lo sono il meno degli altri viventi tutti), ma per torturarmi fisicamente e moralmente, a nome non so di chi. Mi giova sperare che il re d’Italia non sappia nulla, altrimenti si sarebbe affrettato a mostrare che con suo padre non è morto il galantuomismo […].”
E. M., Lettera datata 4 novembre 1884 e rivolta al Prefetto della Provincia di Siena
(E. M. è un tipografo senese di trent’anni, arrestato a Lugano, riportato in Italia e trasferito presso l’Ospedale Psichiatrico San Niccolò di Siena, dove rimarrà dal 1884 al 1913. Negli appunti del medico, che diagnostica una monomania intellettuale, si legge che egli era convinto “di essere un personaggio di grande importanza, e precisamente Pietro Leopoldo di Lorena“, che “vorrebbe andare a Vienna o a Berlino dove sono i suoi parenti e che è sicuro che presentandosi a corte sarebbe subito riconosciuto per Pietro Leopoldo Arciduca d’Austria e Governatore di Trento.” Della sua vita passata, si conosce pochissimo: “Le sue occupazioni hanno variato assai, avendo condotta una vita nomade e disastrata. – Recita la cartella informativa. – Ha dimorato lungo tempo all’estero. È la prima volta che va soggetto a turbamento delle facoltà mentali. Fu sempre nervoso, ma del resto godette buona salute fisica.” Durante la sua permanenza, scrive una serie di lettere: al direttore di un giornale locale, al Ministro dell’Interno Giolitti, al prefetto di Bologna e perfino al re.
Nella lettera indirizzata a Giolitti e datata 30 dicembre 1906 scrive:
“Eccellenza, il sottoscritto, che non è matto né criminale, si trova, da ben 23 anni, rinchiuso (e martirizzato!) in questo luogo, a contatto con criminali e con matti. Non potendone più (è ridotto tisico, decrepito, quasi cieco, ecc. ecc.), invoca l’intromissione della E. V. per uscire al più presto.
Attendo con trepidazione, perché sono proprio ridotto in estremis…
Devotissimo Obbligatissimo E.M. (poeta ecc.)”
Molte, soprattutto, le poesie: ben 67, firmate talvolta con vari pseudonimi e appellativi, come “Poldino” o “preteso mattoide”. Le poesie, a partire dal 1885, furono pubblicate sulla Cronaca del Manicomio di Siena, nella quale figurava una sezione, intitolata “Varietà”, in cui trovavano posto non soltanto le notizie relative alla vita che si svolgeva all’interno del manicomio, ma anche una rubrica che ospitava i componimenti dei ricoverati.
Così il direttore della rivista, Paolo Funaioli, giustificava la scelta di queste pubblicazioni: “Continueremo anche nei numeri successivi ad adornare la nostra Cronaca della rubrica “Pazzi di genio” riportando scritti e poesie dei ricoverati, sia perché si confermi il concetto che certi uomini sotto l’influenza della pazzia sanno sollevare la loro immaginazione in più elevati orizzonti ed esprimere idee che si direbbero un prodotto di ingegni superiori, sia per solleticare il loro amor proprio ed indurli al lavoro intellettuale, il quale, oltre ad essere uno dei migliori diversivi della mente malata, spesso, per mezzo della scrittura, svela certe intime manifestazioni della psiche che servono utilmente al medico per regolare la cura di questi infelici.”
Queste alcune poesie di Poldino:
“La più simpatica
arte che esista,
è l’arte nobile
dell’alienista.
Oltre ogni credere
degna è d’encomio,
se tu la eserciti
nel manicomio.
Pochi gl’incomodi,
molto il salario;
uno spettacolo
mai sempre vario.
Passi la visita
senza scocciarti:
se ha’ caro il ridere
puoi satollarti:
Ché tra le vittime
della follia
c’è più d’un comico,
in fede mia.
Chi fa da principe,
chi da riccone,
chi dice d’essere
Papa Leone.
Uno è San Prospero,
un altro è Dio,
del re de’ Mongoli
c’è un pseudo-zio.
Tutti si stimano
gran personaggi,
prodi, illustrissimi,
nobili e saggi.”
“[…]
Con fogli sudici
e grossolani,
le tasche t’empiono,
t’empion le mani.
[…]
«Questa la pubblichi:
è un’epopea,
degna di mettersi
coll’Odissea.»
E via di seguito
su questo metro,
mentre ti tirano
e innanzi e indietro.
[…]
Com’è da credersi,
tra tante rose
mancar non possono
le spine ascose.
Un capo scarico
ti pela un baffo:
qualche frenetico
ti dà uno schiaffo;
O con sardonico
maligno riso,
in barba all’etica
ti sputa in viso…
Ma son bazzecole,
son eccezioni;
i pazzi in genere
son capi buoni.”
***
“Lo ha detto uno scienziato (non mi sovvien chi sia):
«l’istruzione invadente, propaga la follia.»
La frase è dura e triste, ma veritiera affatto:
sì; più che l’uomo studia, e più diventa matto.
[…]
Guardate là quell’uomo, solo a metà spogliato!
delle vesti finissime e sul letto adagiato
Egli ha – come vedete – tuttor dipinta in volto
l’agitazion tremenda che poco fa lo ha colto.
Osservatelo bene: è un povero demente:
lo veglia una Sorella, affettuosamente
e rende grazie a Dio che a lui serrò le ciglia
con un dolce torpore che al sonno rassomiglia:
Quell’uomo tra’ sapienti del secolo, è un gigante,
è un’enciclopedia completa ed ambulante.
Egli studiò di tutto: lettere scienze ed arti
professioni e mestieri; senza i dovuti scarti
tutta quella robaccia gli fece indigestione;
nel conquistar lo scibile, perdette la ragione.
[…]
Ne’ tempi andati usavansi per curar la follia,
battiture, digiuni ed anche la magia;
ma oggi è un’altra cosa, vi son degli ospedali
che curan la demenza con pratiche speciali:
de’ luoghi tanto adatti, ove una creatura
non s’accorge nemmanco d’esser sotto una cura.
Ciò sembra un paradosso, ma pure è verità:
i manicomi in oggi son piccole città;
e le città del resto, son manicomi in grande,
da dove alla campagna, il vaneggiar s’espande.
Per esserne convinti date uno sguardo a Siena,
che pur secondo Fazio, di bei costumi è piena!
[…]
L’avete mai veduto, questo stabilimento?
Se ci andate una volta, ne sortite contento.
Descriverne i locali saria fatica vana:
per scriverne ex professo la mia penna è profana:
se mi limito dunque a dirne due parole,
chi non le vuol le salti; le legga sol chi vuole.
Esso non è stragrande: anco in Italia stessa
ce ne son de’ più grandi; ma quello che interessa,
di sapere e vedere, è ciò che in quei locali
si curan con amore le malattie mentali.
Là, secondo i dettami della scienza moderna,
si lotta contro l’opra della mente superna;
e spesso con successo; chè molti son sortiti
di là, perfettamente e per sempre, guariti.
Vorrei che ciò seguisse a tutte le persone
che restan, fino ad oggi nella mesta magione;
ed anco alle altre tutte, di qual parte si sia
sicchè, gradatamente, sparisse la follia;
ma temo viceversa, che il mondo tutto intero
diventi un manicomio vasto quanto… il pensiero:
e, se Dio non ammazza il Poeta e il Lettore,
vedrem se era fondato, o no, questo timore.”
Dopo un lungo periodo di calma, durante il quale si impegna nella composizione delle sue poesie, E.M. comincia a credere che uno dei ricoverati sia suo fratello, per cui i medici, per precauzione, lo spostano nel quartiere Conolly,, dove lui, “per avere la grazia di ritornare quanto prima al Quartiere Centrale, compone di tanto in tanto qualche poesia, di cui gli dà il tema il Medico Soprintendente.” La seguente poesia si riferisce proprio a questo episodio:
Il contentino
“Per francar le istanze mie
le do dieci poesie:
E se ciò le par pochino
le ci aggiungo il contentino.
Ora via, non faccia il cane;
non ricorra a scuse strane!
Si ravveda; io non desìo
che veder l’Angelo mio.
Dica a Carlo il Caporale,
di rimettermi al Centrale.
Son due anni e mezzo e più,
che mi macero quaggiù.
Ben ch’io soffra ingiuste pene,
le desidero ogni bene;
Oro a monti e vita lieta:
Devotissimo
il Poeta”
Nei mesi successivi, il suo interessamento per l’altro paziente diventa una vera e propria ossessione. E.M. – annotano i medici –
persiste nel suo “delirio di grandezza e di persecuzione, cambia nome e qualità anche agli individui dello stabilimento, dicendoli finti personaggi della commedia”. E ancora: “di mente è andato peggiorando, il delirio è andato sempre più estendendosi e nel suo linguaggio abbondano frasi oscene e plateali; scrive molto ma gli argomenti son poco variati e si occupano a preferenza di sconcezze e di trivialità. […] Raramente le sue poesie sono state pubblicabili perché rivolte tutte ad uno stesso tenore di sudicerie e di oscenità”.
Nel 1891, il caso di E. M. viene presentato durante le lezioni della Clinica Psichiatrica dell’Università di Siena come una forma di “monomania fastosa con delirio di persecuzione”; a questa si aggiunge un delirio di grandezza, che inizialmente è circoscritto, ma in seguito “si è sensibilmente allargato per essersi sovrapposto uno speciale delirio erotico originato da pervertimento dell’istinto sessuale.” Eppure “una breve e superficiale osservazione potrebbe condurci a non rilevare alcunché di anormale e se il malato, come spesso fanno i monomaniaci, cerca di dissimulare il suo delirio, saremmo inclinati ad escludere l’alienazione mentale. Il M. infatti ha fisionomia intelligente ed espressiva, sguardo animato, portamento composto e dignitoso, si mostra con persone nuove ben educato, rispettoso, docile, di modi cortesi e civili, e sebbene non sappia rassegnarsi a star chiuso nel manicomio, apparisce abbastanza tranquillo e spesso gioviale e sorridente.” Anzi, dimostra – si legge di seguito – “realmente una memoria invidiabile ed un ingegno non comune, che gli hanno permesso di imparare quasi da sé diverse lingue e di arricchirsi di una non comune erudizione.” Segue una dettagliata descrizione dei deliri erotici a cui va soggetto il paziente, accompagnati da esplosioni di collera e da crescente agitazione, tanto da suggerire ai medici continui trasferimenti di reparto o addirittura l’isolamento in una cella.
Qualche anno dopo, sarà Poldino a raccontare tutto questo nella seguente poesia:
Sonetto drammatico
“Alla lezione di Clinica Psichiatrica
Dialogo tra il Professore, il Soggetto e gli Studenti
– Questo, o Signori, è un giovane demente,
che da settant’anni è qui: la sua follia
consiste nel negar recisamente.
Tizio, siete voi pazzo? – Oh… no perdia!
– Udiste? … E l’è, però, cosa evidente
ch’è matto: perché scrive in poesia;
parla più lingue; canta egregiamente…
e dà tant’altri segni di pazzia.
Poi… prove certe… : ha il naso volto in su;
capelli ed occhi neri; aria modesta…
incanutisce già… – Per Belzebù!
– La prova poi la più schiacciante è questa:
Sputate per tre volte! – Spuh! Spuh! Spuh!
– Vedeste!? – È matto! È matto, nella testa!!!”
Nel 1896, una nota osserva che “la sua vena poetica non è più facile e brillante come in passato. […] E’ sempre il solito malato stravagante e pretenzioso, che si dà un’aria di superiorità in qualunque cosa faccia e che si crede abile a tutto. […] si occupa qualche poco nel leggere dei libri, prende parte alle rappresentazioni del Carnevale, scrive poesie e consuma tempo e carta in cose futili e inutili.”
Effettivamente, a partire dal 1900 il suo estro poetico sembra isterilirsi e il paziente comincia a dedicarsi a tutt’altro: si mette a scrivere una Guida di Siena, che lui chiama Guida delle guide e che viene pubblicata, per suo esplicito desiderio, sulla Cronaca del Manicomio. Le sue condizioni psichiche, però, peggiorano nuovamente: inviato al quartiere Conolly, viene privato del necessario per scrivere. Nel 1906 torna a dedicarsi alla sua guida e quattro anni dopo viene impegnato in una serie di piccole mansioni nell’Ufficio di Segreteria dell’ospedale.
Nel frattempo, però, i medici hanno cominciato a notare un progressivo decadimento delle sue facoltà intellettuali e lui stesso lamenta un peggioramento delle sue condizioni fisiche, tanto da indurlo a chiedere le dimissioni, come avviene in questa lettera del 30 novembre 1910: scrive:
“Illustrissimo Signor Direttore, domenica al cinema feci, non volendo, una costatazione spaventevole per me: io non ci vedo quasi più. I padroni de’ padroni de’ suoi invidiosi ed efferati padroni, non contenti di avermi, per ben 27 anni, sequestrato, calunniato, angustiato, sfruttato, martoriato, affamato, ecc., mi stanno adesso accecando […].”
E ancora, in una lettera del 2 agosto 1911:
“Egregio sig. Direttore, ci sono in questo luogo 3 o 4 persone che hanno perduta la testa, e che tentano farla perdere anco a lei, nuovo e anco ingenuo, ma io che riconosco in lei un fondo di galantuomismo, non voglio che ella si perda e le do un consiglio salutare: mi dimetta a piè libero, come ha dimessi tanti individui meno di me in grado di disimpegnarsi nelle strette della vita moderna.”
Altra lettera, datata il 3 settembre 1912:
“Illustrissimo Signor Direttore, stanotte ho sognato ch’Ella mi aveva dimesso a piè libero, e ch’io viveva, fuori, agiatissimamente col frutto del mio lavoro letterario. Mi sembrava persino di aver ritrovato il famoso Libretto Cassa Risparmio (colle diciassettemila lire), lasciatomi da mio padre… tutto un bel sogno insomma, che Ella, con un semplice tratto di penna, può far diventare bellissima realtà! Per la millesima volta… mi dimetta, Egregio Signore! […] Io, fuori, col lavoro letterario che posso fare (qui non ne faccio più, davvero!) e anco solo con quello già fatto (malgrado il furto e la dispersione dei manoscritti, io ho tutto in mente: 3000 poesie, 5 commedie ecc. ecc.) ci faccio tre volte il signorone.
Fuori di qui il fango è fango ma l’oro vero lo pagano per oro (qui sottosotto accade viceversa!). […] Mi dimetta, e se fuori morirò di fame mi affretterò a tornare qui. […] Forse è meglio aggiustarsi tra noi tre (lei, il primario ed io). Se mi dimettete entro il mese corrente perdono tutto e tutti, altrimenti niente perdono! Alea iacta est! Con verace ossequio…”
Nell’ultima lettera conservata, datata 14 dicembre 1912, scrive:
“Illustrissimo Signor Direttore, ho sognato ch’ero morto all’improvviso… spero che il sogno non s’avveri, almeno nel Manicomio […] Pel resto… spero che la giustizia avrà il suo corso e in caso contrario che qualcuno mi vendicherà. Sono più innocente e più martire di 100 mila Gesù Cristi presi insieme. Non ho altri difetti che quelli d’esser plebeo (figlio d’un facchino) e d’essere stato educato alla spartana.
Sono socialista moderato, non antimilitarista… e ateo! Che la religione – sino a che il popolo non sia veramente evoluto – possa essere ancora utile a qualche cosa (come ausiliaria del Codice Penale) non lo nego; ma chi, come me, è nato onesto e buono, può farne a meno. […]”
Nel gennaio del 1913, per assecondare la sue richieste pressanti e in mancanza di un parente a cui poterlo affidare, viene trasferito al Pio Ricovero di Mendicità. Lui stesso aveva ripetutamente chiesto questo trasferimento, perfino in poesia, com’era suo costume e come dimostrano i versi a margine di una lettera del 10 marzo 1911:
Lasciatemi andare in Commenda
“Qui tutti mangian senza lavorare:
io debbo lavorar senza mangiare.
Non so perché Giolitti lascia fare;
ma la tragedia non potea durare.
Signori miei, movetevi a pietà:
fate ch’io vada alla Mendicità!”
I dati ed i documenti contenuti in questo articolo sono liberamente tratti da “Carte da legare. Archivi della psichiatria in Italia” – “Storie di vita” – cartedalegare.cultura.gov.it
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Foto in evidenza: ActaProgetti, “Le misure di contenzione: storie di sofferenza”
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