Esercizio di irrobustimento del corpo
Nonna ci picchia spesso, con le sue mani ossute, con una scopa o uno strofinaccio bagnato. Ci tira per le orecchie, ci agguanta per i capelli.
Altre persone ci danno anche dei ceffoni e dei calci, non sappiamo nemmeno perché.
I colpi fanno male e ci fanno piangere.
Le cadute, le sbucciature, i tagli, il lavoro, il freddo e il caldo sono ugualmente causa di sofferenza.
Decidiamo di irrobustire il nostro corpo per poter sopportare il dolore senza piangere.
Cominciamo con il darci l’un l’altro dei ceffoni, poi dei pugni. Vedendo il nostro volto tumefatto Nonna domanda:
– Chi vi ha fatto questo?
– Noi, Nonna.
– Vi siete picchiati? Perché?
– Per niente, Nonna. Non vi arrabbiate, è solo un esercizio.
– Un esercizio? Siete completamente suonati! Bah, se la cosa vi diverte…
Siamo nudi. Ci colpiamo l’un l’altro con una cintura. Diciamo a ogni colpo:
– Non fa male.
Colpiamo più forte, sempre più forte.
Passiamo le mani sopra una fiamma. Ci incidiamo una coscia, il braccio, il petto con un coltello e versiamo dell’alcol sulle ferite. Ogni volta diciamo:
– Non fa male.
Nel giro di poco tempo non sentiamo effettivamente più nulla. È qualcun altro che ha male, è qualcun altro che si brucia, che si taglia, che soffre.
Non piangiamo più.
Quando Nonna è arrabbiata e grida, noi le diciamo:
– Smettetela di gridare, Nonna, picchiate invece!
Quando ci picchia, le diciamo:
– Ancora, nonna, ancora! Guardate, porgiamo l’altra guancia, com’è scritto nella Bibbia. Colpite anche l’altra guancia, Nonna.
Lei risponde:
– Andate al diavolo, voi, la vostra Bibbia e le vostre guance.
Esercizio di accattonaggio
Indossiamo abiti sporchi e laceri, ci togliamo le scarpe, ci sporchiamo la faccia e le mani. Andiamo in strada. Ci fermiamo, aspettiamo.
Quando un ufficiale straniero passa davanti a noi, alziamo il braccio destro per salutare e tendiamo la mano sinistra. Nella maggior parte dei casi l’ufficiale passa senza fermarsi, senza vederci, senza guardarci.
Finalmente un ufficiale si ferma. Dice qualcosa in una lingua che non capiamo. Ci fa delle domande. Non rispondiamo; restiamo immobili, un braccio alzato, l’altro teso in avanti. Allora fruga nelle tasche, posa una moneta e un pezzetto di cioccolato sul nostro palmo lercio e se ne va scotendo la testa.
Continuiamo ad aspettare.
Una donna passa. Tendiamo la mano. Lei dice:
– Poveri bambini. Non ho niente da darvi.
Ci accarezza i capelli.
Diciamo:
– Grazie.
Un’altra donna ci dà due mele, un’altra dei biscotti.
Una donna passa. Tendiamo la mano, lei ferma e dice:
– Non vi vergognate a chiedere l’elemosina? Venite da me, ci sono dei lavoretti facili per voi. Tagliare la legna, per esempio, o lucidare la terrazza. Siete abbastanza grandi e forti. Dopo, se lavorate bene, vi darò della minestra e del pane.
Rispondiamo:
– Non abbiamo voglia di lavorare per lei, signora. Non abbiamo voglia di mangiare la sua minestra né il suo pane. Non abbiamo fame.
Lei domanda:
– E allora perché chiedete l’elemosina?
– Per sapere che effetto fa e per osservare la reazione della gente.
Andandosene grida:
– Piccole sporche canaglie! Screanzati, fare queste cose!
Rientrando, gettiamo nell’erba alta che costeggia la strada le mele, i biscotti, il cioccolato e anche le monete.
La carezza sui capelli è impossibile gettarla.
Esercizio di cecità e sordità
Uno di noi fa il cieco, l’altro fa il sordo. Per allenarsi, all’inizio, il cieco si lega un fazzoletto nero di Nonna davanti agli occhi, il sordo si tappa le orecchie con dell’erba. Il fazzoletto puzza come Nonna.
Ci diamo la mano, andiamo a passeggio durante gli allarmi, quando la gente si chiude nelle cantine e le strade sono deserte.
Il sordo descrive quello che vede:
– La strada è lunga e dritta. È fiancheggiata da case basse, a un solo piano. Sono di colore bianco, grigio, rosa, giallo e blu. Alla fine della strada si vede un parco con degli alberi e una fontana. Il cielo è azzurro, con qualche nuvola bianca. Si vedono degli aerei. Cinque bombardieri. Volano bassi.
Il cieco parla lentamente, perché il sordo possa leggere sulle sue labbra.
– Sento gli aerei. Producono un rumore irregolare e profondo. Il loro motore fatica. Sono carichi di bombe. Ora sono passati. Sento di nuovo gli uccelli. Per il resto tutto è silenzioso.
Il sorde legge sulle labbra del cieco e risponde:
– Sì, la strada è vuota.
Il cieco dice:
– Non per molto. Sento dei passi che si avvicinano nella strada laterale, a sinistra.
Il sordo dice:
– Hai ragione. Ecco un uomo.
Il cieco domanda:
– Com’è?
Il sordo risponde:
– Come tutti gli altri. Povero, vecchio.
Il cieco dice:
– Lo so. Riconosco il passo dei vecchi. Sento anche che è a piedi nudi, quindi è povero.
Il sordo dice:
– È calvo. Ha una vecchia giacca dell’esercito. Ha dei pantaloni troppo corti. I suoi piedi sono sporchi.
– I suoi occhi?
– Non li vedo. Guarda per terra.
– La bocca?
– Labbra troppo incavate. Non deve avere più denti.
– Le mani?
– In tasca. Le tasche sono enormi e piene di qualcosa. Di patate, o di noci, che fanno delle piccole gobbe. Alza la testa e ci guarda. Ma non riesco a distinguere il colore dei suoi occhi.
– Non vedi nient’altro?
– Delle rughe, profonde come cicatrici, sul suo volto.
Il cieco dice:
Sento le sirene. È la fine dell’allarme. Rientriamo.
Dopo un po’ col tempo, non abbiamo più bisogno di un fazzoletto per gli occhi né di erba per le orecchie. Chi fa il cieco vota semplicemente lo sguardo verso l’interno, il sordo chiude le orecchie a tutti i rumori.
Agota Kristof, da “Il grande quaderno”, 1986 (primo romanzo de “La trilogia della città”, di cui fanno parte: “La prova”, del 1988 e “La terza menzogna”, del 1991)
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Nell’immagine: Bartolomé Esteban Murillo, “Bambini che giocano a dadi”, 1670-1675 circa