più spiagge e più notti d’imbarco, di quelle di sbarco,
toccano Italia meno vite, di quante salirono a bordo.
A sparigliare il conto la sventura, e noi, parte di essa.
Eppure Italia è una parola aperta, piena d’aria.”
Erri De Luca, “Nota di geografia”, da Sola andata. Righe che vanno troppo spesso a capo”
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Relitto di un barcone dipinto daElia Li Gioi
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Migranti
“Mare nostro che non sei nei cieli e abbracci i confini dell’isola e del mondo, sia benedetto il tuo sale, sia benedetto il tuo fondale, accogli le gremite imbarcazioni senza una strada sopra le tue onde i pescatori usciti nella notte, le loro reti tra le tue creature, che tornano al mattino con la pesca dei naufraghi salvati.
Mare nostro che non sei nei cieli, all’alba sei colore del frumento al tramonto dell’uva e di vendemmia. ti abbiamo seminato di annegati più di qualunque età delle tempeste.
Mare Nostro che non sei nei cieli, tu sei più giusto della terraferma pure quando sollevi onde a muraglia poi le abbassi a tappeto. Custodisci le vite, le visite cadute come foglie sul viale, fai da autunno per loro, da carezza, abbraccio, bacio in fronte, madre, padre prima di partire.”
Erri De Luca, “Migranti”
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Relitto di un barcone dipinto daElia Li Gioi
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Per i pesci del Mediterraneo
“Prendete e mangiatene tutti.
Questi sono i corpi planati
a braccia aperte sul fondale.
In terra sono stati crocifissi,
ora sono del mare e di voi pesci.
Prendete e mangiatene tutti,
che non avanzi niente,
nessuna delle corde vocali
che hanno gridato al vento.
Fate questo in memoria di noi
che rimaniamo a riva.
Lasciatevi afferrare dalle reti
per essere venduti sul banco del mercato,
dove i sopravvissuti furono venduti.
Sarete sulle nostre tavole imbandite.
Di voi sazi di loro, mangeremo tutto.
Conservate una spina per le nostre gole,
toglietela dalla corona dei perduti.
Erri De Luca – 09 marzo 2023
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Volti
“Chi ha steso braccia al largo
battendo le pinne dei piedi
gli occhi assorti nel buio del respiro,
chi si è immerso nel fondo di pupilla
di una cernia intanata
dimenticando l’aria, chi ha legato
all’albero una tela e ha combinato
la rotta e la deriva, chi ha remato
in piedi a legni lunghi: questi sanno
che le acque hanno volti.
E sopra i volti affiorano
burrasche, bonacce, correnti
e il salto dei pesci che sognano il volo.”
Erri De Luca, da “Opera sull’acqua”, 2013
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Profezia
“Era nel mondo un figlio
e un giorno andò in Calabria
era estate, ed erano
vuote le casupole,
nuove, a pandizucchero,
da fiabe di fate color
delle feci. Vuote.
Come porcili senza porci, nel centro di orti senza insalata, di campi senza terra, di greti senza acqua. Coltivate dalla luna, le campagne. Le spighe cresciute per bocche di scheletri. Il vento dallo Jonio
scuoteva paglia nera
come nei sogni profetici:
e la luna color delle feci
coltivava terreni
che mai l’estate amò.
Ed era nei tempi del figlio
che questo amore poteva
cominciare, e non cominciò.
Il figlio aveva degli occhi
di paglia bruciata, occhi
senza paura, e vide tutto
ciò che era male: nulla
sapeva dell’agricoltura,
delle riforme, della lotta
sindacale, degli Enti Benefattori,
lui. Ma aveva quegli occhi.
La tragica luna del pieno
sole, era là, a coltivare
quei cinquemila, quei ventimila
ettari sparsi di case di fate
del tempo della televisione,
porcili a pandizucchero, per
dignità imitata dal mondo padrone.
Ma non si può vivere là! Ah, per quanto ancora, l’operaio di Milano lotterà; con tanta grandezza per il suo salario? Gli occhi bruciati del figlio, nella luna, tra gli ettari tragici, vedono ciò che non sa il lontano fratello
settentrionale. Era il tempo
quando una nuova cristianità
riduceva a penombra il mondo
del capitale: una storia finiva
in un crepuscolo in cui accadevano
i fatti, nel finire e nel nascere,
noti ed ignoti. Ma il figlio
tremava d’ira nel giorno
della sua storia: nel tempo
quando il contadino calabrese
sapeva tutto, dei concimi chimici,
della lotta sindacale, degli scherzi
degli Enti Benefattori, della
Demagogia dello Stato
e del Partito Comunista…
e così aveva abbandonato
le sue casupole nuove
come porcili senza porci,
su radure color delle feci,
sotto montagnole rotonde
in vista dello Jonio profetico.
Tre millenni svanirono
non tre secoli, non tre anni, e si sentiva di nuovo nell’aria malarica 1’attesa dei coloni greci. Ah, per quanto ancora, operaio di Milano, lotterai solo per il salario? Non lo vedi come questi qui ti venerano?
Quasi come un padrone.
Ti porterebbero su
dalla loro antica regione,
frutti e animali, i loro
feticci oscuri, a deporli
con 1’orgoglio del rito
nelle tue stanzette novecento,
tra frigorifero e televisione,
attratti dalla tua divinità,
Tu, delle Commissioni Interne,
tu della CGIL, Divinità alleata,
nel meraviglioso sole del Nord.
Nella loro Terra di razze
diverse, la luna coltiva
una campagna che tu
gli hai procurata inutilmente.
Nella loro Terra di Bestie
Famigliari, la luna
è maestra d’anime che tu
hai modernizzato inutilmente. Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forse dall’Africa e tu ascolta ciò che per grazia il figlio sa. (Se egli non sorride
è perché la speranza
per lui non fu luce ma razionalità.
E la luce del sentimento
dell’Africa, che d’improvviso
spazza le Calabrie, sia un segno
senza significato, valevole
per i tempi futuri!) Ecco:
tu smetterai di lottare
per il salario e armerai
la mano dei Calabresi.
Alì dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini, e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua. Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camice americane.
Subito i Calabresi diranno,
come malandrini a malandrini :
“Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e formaggio !”
Da Crotone o Palmi saliranno
a Napoli, e da lì a Barcellona,
a Salonicco e a Marsiglia,
nelle Città della Malavita.
Anime e angeli, topi e pidocchi,
col germe della Storia Antica,
voleranno davanti alle willaye.
Essi sempre umili
essi sempre deboli
essi sempre timidi
essi sempre infimi
essi sempre colpevoli
essi sempre sudditi
essi sempre piccoli,
essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare, essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,
essi che si costruirono
leggi fuori dalla legge,
essi che si adattarono
a un mondo sotto il mondo
essi che credettero
in un Dio servo di Dio,
essi che cantarono
ai massacri dei re,
essi che ballarono
alle guerre borghesi,
essi che pregarono
alle lotte operaie…
…deponendo l’onestà
delle religioni contadine,
dimenticando l’onore
della malavita,
tradendo il candore
dei popoli barbari,
dietro ai loro Alì
dagli Occhi Azzurri usciranno da sotto la terra per rapinare saliranno dal fondo del mare per uccidere, scenderanno dall’alto del cielo per espropriare —e per insegnare ai compagni operai la gioia della vita
per insegnare ai borghesi
la gioia della libertà –
per insegnare ai cristiani
la gioia della morte
distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno come zingari
su verso l’Ovest e il Nord
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento…”
Pier Paolo Pasolini, “Profezia” (A Jean-Paul Sartre, che mi ha raccontato la storia di Alì dagli Occhi Azzurri)
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La canzone dell’emigrante
“Luna, mi hai incantato
e cammino in terra straniera;
la casa è rimasta orfana,
il crepuscolo è diventato insopportabile
e le montagne piangenti.
Manda, cielo, un uccello,
affinché porti alla madre pazienza.
Manda, cielo, un uccello,
una rondinella,
che vada a costruire il nido
sul prugno del giardino
accanto al balconcino.
Manda, cielo, un uccello,
affinché porti alla madre pazienza.
Affinché porti alla madre pazienza,
legata a un fazzoletto,
la dote alla mia sorellina
e alla mia ragazza vicina di casa
un dolce bacio sulle labbra.”
Mikis Theodorakis, “La canzone dell’emigrante”
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Rose, io lavo le rose
“Rose, io lavo le rose
pulisco le scale, osservo ragnatele
fino a che il ricamo catturi
una mosca
Ombre, io curo le ombre
porto il the a chi dorme per strada
aiuto le donne a portare la spesa
assisto i gatti nella neve d’inverno
Interstizi, io mi occupo di angoli
di spazi lasciati mezzi vuoti e mezzi pieni
senza sguardi, senza speranza
come la mente di certi migranti
che inseguono un nome, un paese, un soggiorno
e rimangono lì, nello spazio sospeso
tra un pensiero, una parola,
un abbraccio che tarda.
Rose, io lavo le rose
pulisco le anime, osservo pensieri
fino a che la vita rilasci
Fortuna”
Lino di Gianni, “Rose, io lavo le rose”
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Foto di Nino Fezza cinereporter
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Viaggiare
“Mi tramuto in un sacco.
Un vecchio straccio
mi porta fuori all’alba.
Ci trasciniamo, curvi.
Ecco qui, dice, la cravatta blu,
un uomo l’ha scalata mentre gli stava al collo.
Ora lassù singhiozza
perché non sa come calarsi giù.
Ma io non dico niente, cosa può dire un sacco?
Ecco qui, dice, il cappotto.
Il suo nome è Achab, i suoi sono i nostri stracci.
È in cerca del sarto che lo ha fatto.
Vuole strappare via tutti i suoi fili neri.
Ma io non dico niente, cosa può dire un sacco?
Ecco qui, dice, un paio di stivali,
mentre andavano a fondo, mentre andavano sotto
la loro vita videro in un lampo,
dovunque andremo, si aggrapperanno a noi.
Ma io non dico niente, cosa può dire
un sacco rigonfio di stoppa fino al collo?”
Charles Simić, “Viaggiare”, da “Hotel insonnia”
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Rifugiati
“Curvi sotto pesi che a volte
si vedono a volte no,
si trascinano tra fango o sabbie del deserto,
ingobbiti, affamati,
uomini silenziosi in giacche pesanti,
vestiti per le quattro stagioni,
donne vecchie con visi accartocciati,
stringono in mano – un bimbo, la lampada
di famiglia, l’ultima forma di pane?
Potrebbe essere la Bosnia oggi,
la Polonia nel settembre del ’39, la Francia
otto mesi dopo, la Germania nel ’45,
la Somalia, l’Afghanistan, l’Egitto.
C’è sempre un carro o almeno una carriola
piena di tesori (una coperta, una tazza d’argento,
un residuo sentore di casa),
un’auto a secco abbandonata in un fosso,
un cavallo (presto abbandonato), neve, molta neve,
troppa neve, troppo sole, troppa pioggia,
e sempre quell’andatura speciale,
quasi protesi verso un altro pianeta, migliore,
con generali meno ambiziosi,
meno neve, meno vento, meno cannoni
meno Storia (ma quel pianeta non
esiste, c’è solo l’andatura).
Trascinando i piedi,
si muovono lenti, molto lenti
verso la patria di nessun dove,
e la città di nessuno
sul fiume del mai.”
Adam Zagajewski, “Rifugiati”
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Compra calzini
“Compra calzini, capo costa solo 1 euro, capo calzini, compra calzini”.
Non sono il tuo capo ascoltami, guardami bene non vedi? Sono tuo fratello.
Riguardo ai calzini, lo sai vorrei avere mille piedi ma ne ho soltanto due: il mio e il tuo, fratello che in questa merda si vive su una gamba sola.”
Marco Cinque, “Compra calzini”, da “Muri e mari”
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Morirai in mare
“Morirai in mare.
La tua testa spaccata dalle onde ruggenti,
il tuo corpo ondeggia nell’acqua,
come una barca perforata.
Nel fiore della gioventù andrai,
timido dei tuoi trent’anni.
Partire presto non è una cattiva idea;
ma sicuramente lo è se muori da solo,
senza nessuna donna che ti chiama al suo abbraccio:
“Lascia che ti stringa al mio seno,
Ho un sacco di spazio. Lascia che ti lavi via la sporcizia della miseria.”
Alla prossima età Senza ancora anni
Non è male andar via presto,
Il cattivo è morire da solo
Senza una donna,
Lei ti dice: vieni da me, il mio abbraccio si allarga per te,
Lascia che ti lavi l’anima dalla sporcizia della miseria.”
Abdel Wahab Yousif, giovane poeta sudanese morto in mare mentre cercava di raggiungere il nostro Paese
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Relitto di un barcone dipinto daElia Li Gioi
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Una luce lontana
“Una luce lontana Gli uccelli tagliano l’orizzonte rincorrono il sole che di frequente tramonta voci di cannoni che soffocano il respiro… Lupi, lupi, dai vecchi percorsi fino alla sorgente noi scuotiamo la testa, in silenzio, attendiamo il tè e i miracoli, a volte l’amore. Tra le tue mani e le mie, la distanza che c’è tra la carta bianca e le penne aperte nell’oscuro tunnel. Tu giochi col fuoco, pagherai un caro prezzo se dirai al ladro: o ladro, come stai sentimentalmente? C’è una luce lontana in fondo all’oscuro tunnel leggiamo e scriviamo nel buio, dalle formiche impariamo a trovare la strada e risalire il baratro. Una candela si spegne nei pressi della porta, la riaccendiamo con un’altra candela, il buio soverchia nel grande tunnel del deserto, i sogni e le ali spezzate degli abitanti dei rifugi e dei coloni, nell’era dei crolli e dell’Aids e della falsa democrazia, del sesso animale, sono nelle strade morte. Tè, tè, per i cuori stanchi, per gli occhi beduini e le labbra ardenti. Tè per gli uccelli, per le tartarughe e le zebre, per i bambini di strada. Le notizie del mondo, nei giornali del mondo, a volte le parole sono prive di senso, o, bella primavera. E’ una verità amara l’amore sulla sabbia, io migro nel luogo e tu perdi coscienza ci incontreremo in qualche stazione, siederemo sui binari, parleremo della madre patria, terra di latte e miele, di colpi di stato militari nell’epoca pre-islamica. Si è placata la tempesta, ma il fuoco è sotto la cenere, i bambini che stanno imparando a camminare, a bere il tè, ci guardano con rabbia, ci accusano di stupidità e dittatura. Tè, tè, tè, pane e libertà, in questo momento, all’inferno tutte le altre cose. Questo è l’inizio della primavera, tra poco arriverà l’estate e l’amore, sono passati lunghi anni e noi ci siamo smarriti in queste strade deserte, non abbiamo colto fiori nei campi, non abbiamo visto il sole tramontare al di là del mare. Il venditore ambulante riempie le strade di grida, nessuno ascolta, nessuno compra, nessuno sa che cosa accadrà domani in un’ora come questa in questo lungo tunnel buio…!”
Bandar Abdul Hamid, “Una luce lontana”
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La terra è stufa di noi
“Ci respinge la terra e ci costringe nell’ultimo varco ci spogliamo dalle membra per poter passare. Ci spreme la terra. Magari fossimo il suo grano per morire e Rinascere. Magari fosse madre nostra Perché abbia pietà di noi. Magari fossimo dipinti sulle rocce, che il nostro sogno porterà, come specchi. Abbiamo visto i volti Di chi verrà assassinato Dall’ultimo di noi, in difesa dell’anima! Abbiamo pianto sulle feste dei loro bambini. Abbiamo visto i volti di chi lancerà i nostri bambini dalle finestre di questo ultimo spazio. Specchi che la nostra stella appenderà! Dove andremo dopo le ultime frontiere? Dove voleranno le rondini dopo l’ultimo cielo? E dove dormiranno gli alberi dopo l’ultimo respiro d’aria? Scriveremo i nostri nomi Con vapore scarlatto, interromperemo il canto, perché lo completi la nostra carne lacerata. Qui moriremo, qui nell’ultimo passaggio, qui o forse qui, pianterà i suoi olivi il nostro sangue.”
Mahmud Darwish, “La terra è stufa di noi”
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Orfani
“Siamo orfani di cultura quando non ci insegnano ad amarla, siamo orfani di terra se si ostinano a nascondercela siamo orfani di mare se chi ci ha preceduto non l’ha saputo preservare siamo orfani quando la nostra storia viene cancellata o manomessa e non c’è più nessuno che la tramanda siamo orfani di patria quando costretti ad andar via diventiamo migranti ma dentro restiamo orfani orfani di noi stessi.”
Fiorenza Mongelli, “Orfani”
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Note di geografia
“Le coste del Mediterraneo si dividono in due, di partenza e di arrivo, però senza pareggio: più spiagge e più notti d’imbarco, di quelle di sbarco, toccano Italia meno vite, di quante salirono a bordo. A sparigliare il conto la sventura, e noi, parte di essa. Eppure Italia è una parola aperta, piena d’aria.”
Erri De Luca, “Nota di geografia”, da “Sola andata. Righe che vanno troppo spesso a capo”
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“Nomade o marino, sempre, tra lo straniero e lo straniero, c’è – mare o deserto –
uno spazio delineato dalla vertigine alla quale l’uno e l’altro soccombono. Viaggio nel viaggio. Erranza nell’erranza. L’uomo è, innanzitutto, nell’uomo, come il nocciolo nel frutto, o il grano di sale nell’oceano. E, tuttavia, è il frutto. E, tuttavia, è il mare”
Edmond Jabès (poeta egiziano), da “Un étranger avec, sous le bras, un livre de petit format”
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Foto dal web: oggetti trovati in mare
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Nei minuti di una pubblicità
“Ho i miei figli sepolti nel mare
e un abisso alle porte:
la pelle nera e le mani allagate
strette alla fine alle alghe –
diciannovemila uomini in sei anni,
diciannovemila preghiere bianche
e nessuna azione, nessuna risposta
questa dimmi è la nostra società,
questo dimmi fa parte della crescita?
siamo state noi queste
radici nella sabbia,
le gabbie e i rifugi per l’orecchio,
un deserto sonoro –
come non seppellire
diciannovemila uomini in sei anni,
diciannovemila menzogne bianche?
in questo dimmi c’è qualche verità,
in questa dimmi che è solo cronaca?”
Christian Sinicco, da “Ballate di Sinicco”, 2022
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Gli annegati
“Gli annegati;
le scarpe di vite disperse
in quel mare così immenso
Ora rimane solo una triste ballata
Del libeccio che porta polvere
Che cosparge i visi
Di vergogna.”
Simone Cumbo
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Home
I
“Nessuno lascia la propria casa a meno che
casa sua non siano le mandibole di uno squalo
verso il confine ci corri solo
quando vedi tutta la città correre
i tuoi vicini che corrono più veloci di te
il fiato insanguinato nelle loro gole
il tuo ex-compagno di classe
che ti ha baciato fino a farti girare la testa dietro alla fabbrica di lattine
ora tiene nella mano una pistola più grande del suo corpo
lasci casa tua
quando è proprio lei a non permetterti più di starci.
nessuno lascia casa sua a meno che non sia proprio lei a scacciarlo
fuoco sotto ai piedi
sangue che ti bolle nella pancia
non avresti mai pensato di farlo
fin quando la lama non ti marchia di minacce incandescenti
il collo
e nonostante tutto continui a portare l’inno nazionale
sotto il respiro
soltanto dopo aver strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto
singhiozzando ad ogni boccone di carta
ti è risultato chiaro il fatto che non ci saresti più tornata.
dovete capire
che nessuno mette i suoi figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra
nessuno va a bruciarsi i palmi
sotto ai treni
sotto i vagoni
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di giornali a meno che le miglia percorse
non significhino più di un qualsiasi viaggio.
nessuno striscia sotto ai recinti
nessuno vuole essere picchiato
commiserato
nessuno se li sceglie i campi profughi
o le perquisizioni a nudo che ti lasciano
il corpo pieno di dolori
o il carcere,
perché il carcere è più sicuro
di una città che arde
e un secondino
nella notte
è meglio di un carico
di uomini che assomigliano a tuo padre
nessuno ce la può fare
nessuno lo può sopportare
nessuna pelle può resistere a tanto
Il
Andatevene a casa neri
rifugiati
sporchi immigrati
richiedenti asilo
che prosciugano il nostro paese
negri con le mani aperte
hanno un odore strano
selvaggio
hanno distrutto il loro paese e ora vogliono
distruggere il nostro
le parole
gli sguardi storti
come fai a scrollarteli di dosso?
forse perché il colpo è meno duro
che un arto divelto
o le parole sono più tenere
che quattordici uomini tra
le cosce
o gli insulti sono più facili
da mandare giù
che le macerie
che le ossa
che il corpo di tuo figlio
fatto a pezzi.
a casa ci voglio tornare,
ma casa mia sono le mandibole di uno squalo
casa mia è la canna di un fucile
e a nessuno verrebbe di lasciare la propria casa
a meno che non sia stata lei a inseguirti fino all’ultima sponda
a meno che casa tua non ti abbia detto
affretta il passo
lasciati i panni dietro
striscia nel deserto
sguazza negli oceani
annega
salvati
fatti fame
chiedi l’elemosina
dimentica la tua dignità
la tua sopravvivenza è più importante
Nessuno lascia casa sua se non quando essa diventa una voce sudaticcia
Che ti mormora nell’orecchio
Vattene,
scappatene da me adesso
non so cosa io sia diventata
ma so che qualsiasi altro posto
è più sicuro che qui.
Warsan Shire (poetessa britannica di origine somala)
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Haraga
Per Sandro, amico di migranti
Italia, 2009
“Sei arrivato da lontano.
Hai attraversato frontiere, distrutto documenti,
sepolto il tuo nome prima del passaggio.
Poi hai cancellato la pelle dei polpastrelli
che hanno toccato madre, amante,
e la tua terra quando era più dolce.
Nella cera bollente. Haraga: quelli che si sono bruciati.
Quel fuoco sarà sempre più forte
Ora di quello che ti pulsa in petto.
Solo impronte e storie rimaste
a tracciare i passi del tuo addio
al di là dell’ altopiano, del bassopiano
fino alla barca che fa acqua, al container asfissiante, al campo di filo spinato,
fino al tuo arrivo qui, dove
vogliono a ogni costo sapere chi eri prima
per rispedirti indietro.
Senza documenti sei tutto e niente,
tornasole per la prova di un altro paese.
Senza tregua ora, tabula rasa, nemico senza stato
di quanti hanno labbra e dita leggibili.
Xeno: straniero, estraneo, ospite,
anche se il mio paese ti dà la caccia,
benvenuto a casa mia.
I miei amici ti difenderanno in tribunale
ma poco si potrà fare
per la memoria ustionata delle dita
e il tuo cuore di frontiera.
Fino a quando il DNA non ti riporterà
alla città ferita, ai parenti morti,
questa porta rimarrà aperta.
Resta fuori, se non credi a queste parole,
oppure vieni, anche se per poco, dentro.”
Ingrid de Kok (scrittrice sudafricana), da “Other Signs”, 2011
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Foto di Nino Fezza cinereporter
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Perché mi Abbandoni?
“Ma cosa dirai al traguardo
quando ti chiederanno dov’è tuo fratello
colui partito insieme a te
ma abbandonato lungo la strada
dal tuo egoismo e cinismo.
Perché fingere di non sentire la mia voce
che chiama dal gommone in mezzo al mare
dalle terre dove l’acqua rifiuta di esistere
dagli orfanotrofi senza cibo.
No, fratello mio, ti ha ingannato
chi ti convince che non siamo uguali
che abbiamo colori e destini diversi
che conta solo chi è più forte
che sei nato per vivere e io per morire.
Ti prego di non abbandonarmi
in questo cammino insopportabile
che mi sta togliendo ogni respiro
che mi nasconde ogni ragione per vivere
perché in questo calvario ho solo te!”
Blessing Sunday Osuchukwu, da “Le voci silenziose delle anime”, 2006
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Euro-Med Human Rights Monitor
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Vi insegnammo il pane
“Vi insegnammo il pane, che voi chiamate nostro e quotidiano, vi insegnammo il chicco nella spiga, e a farne farina. Vi insegnammo il caldo del forno, la carezza all’impasto. Vi insegnammo il vino, nostre erano le pecore che tornarono ubriache, vi insegnammo gli acini al sole, a rafforzare la vite. Vi insegnammo che le stelle erano troppe, che non ci sono mani per contarle, vi lasciammo i numeri in punta di dita, il segno dell’uno la somma ed il niente, il tutto e lo zero. Contammo le stelle per navigare il mare, anche questo vi spiegammo. Vi insegnammo i porti, l’attenzione al vento, a limitare la rabbia del fiume, vi spiegammo l’acqua nei chiostri, il suono della fontana nei vostri giardini. Vi insegnammo i disegni sui muri, la forma della parola, a disegnare il pensiero, la lettera che corrisponde al suono. Vi insegnammo la musica, la corda che accarezza l’aria, l’armonia dentro la canna, la musica dentro il soffio. Vi insegnammo l’amore dentro la poesia, la meraviglia dei corpi al profumo di unguenti. Vi insegnammo il libro, la carta e la memoria, vi insegnammo Dio, perfino, il vostro Dio, bambino esule straniero ribelle, vi insegnammo. Vi insegnammo l’incontro, perché voi lo ricordaste a noi, al tempo.”
Saverio Pazzano, “Il sapere viene dall’altro lato del mare. Quel che l’immigrazione ci ha insegnato”
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Foto di Sonia Simbolo
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Blues del profugo
“Diciamo che questa città ha dieci milioni d’anime,
alcune abitano in ville, altre in tuguri:
eppure non c’è posto per noi, mia cara, non c’è posto per noi.
Una volta avevamo una terra, la credevamo bella,
cerca nell’atlante e la troverai:
non possiamo andarci adesso, mia cara, non possiamo
andarci adesso.
Nel cimitero del paese cresce un vecchio tasso,
ogni primavera fiorisce tutto:
fiorire non sanno i vecchi passaporti, mia cara, fiorire
non sanno i vecchi passaporti.
Il console ha battuto il pugno sul tavolo e ha detto:
” Se non avete un passaporto siete ufficialmente morti “:
ma noi siamo ancora vivi, mia cara, siamo ancora vivi.
Mi sono rivolto a un patronato; mi hanno fatto sedere;
mi hanno gentilmente chiesto di tornare l’anno prossimo:
ma oggi dove andremo, mia cara, oggi dove andremo?
Sono andato a una riunione; l’oratore s’è alzato e ha detto:
“Se li facciamo entrare, ci fregano il pane quotidiano”;
parlava di te e me, mia cara, parlava di te e me.
Mi è parso di sentire il rombo del tuono nel cielo;
era Hitler sull’Europa che diceva: “Devono morire”;
oh, pensava a noi, mia cara, oh sì, pensava a noi.
Ho visto un cagnolino in una giacca chiusa da uno spillo,
ho visto una porta aperta e un gatto entrare:
ma non erano ebrei tedeschi, mia cara, non erano ebrei tedeschi.
Ho passeggiato per il porto e mi sono fermato sul molo,
ho visto i pesci nuotare come se fossero liberi:
a soli tre metri da me, mia cara, a soli tre metri.
Ho attraversato un bosco, ho visto gli uccelli sugli alberi;
non conoscevano politicanti e cantavano a piacere:
non erano gli uomini, mia cara, non erano gli uomini.
Ho sognato un palazzo di mille piani,
con mille finestre e mille porte;
non una era nostra, mia cara, non una era nostra.
Stavo su una grande pianura sotto la neve;
diecimila soldati marciavano avanti e indietro:
cercavano te e me, mia cara, cercavano te e me.”
Wystan Hugh Auden, da “Quattro canzoni da cabaret per Miss Hedli Anderson”, in “Lighter poems ballate”, 1997
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Foto di Nino Fezza cinereporter
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Foto Ansa
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Haraga
Per Sandro, amico di migranti
Italia, 2009
“Sei arrivato da lontano.
Hai attraversato frontiere, distrutto documenti,
sepolto il tuo nome prima del passaggio.
Poi hai cancellato la pelle dei polpastrelli
che hanno toccato madre, amante,
e la tua terra quando era più dolce.
Nella cera bollente.
Haraga: quelli che si sono bruciati.
Quel fuoco sarà sempre più forte
Ora di quello che ti pulsa in petto.
Solo impronte e storie rimaste
a tracciare i passi del tuo addio
al di là dell’ altopiano,
del bassopiano
fino alla barca che fa acqua,
al container asfissiante,
al campo di filo spinato,
fino al tuo arrivo qui, dove
vogliono a ogni costo sapere chi eri prima
per rispedirti indietro.
Senza documenti sei tutto e niente,
tornasole per la prova di un altro paese.
Senza tregua ora, tabula rasa,
nemico senza stato
di quanti hanno labbra e dita leggibili.
Xeno: straniero, estraneo, ospite,
anche se il mio paese ti dà la caccia,
benvenuto a casa mia.
I miei amici ti difenderanno in tribunale
ma poco si potrà fare
per la memoria ustionata delle dita
e il tuo cuore di frontiera.
Fino a quando il DNA non ti riporterà
alla città ferita,
ai parenti morti,
questa porta rimarrà aperta.
Resta fuori,
se non credi a queste parole,
oppure vieni,
anche se per poco, dentro.”
Ingrid de Kok, da “Other Signs”, 2011
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Street artist Laika, in collaborazione con Amnesty International, Lampedusa
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Se avessi una barca
“Io se avessi una barca salperei
a intercettare tutti i clandestini
che passano per di qua
dandogli il necessario
a continuare il viaggio
verso l’Europa Unita (Solidale);
gli lascerei indirizzi
perché gettando l’ancora
i miei amici li accolgano,
gli insegnino le lingue
e anche un po’ di maltese …
Se andando, controllore su una barca,
pescassi clandestini
con le mani nel sacco della paura,
a fare traversate
dentro un guscio di noce scarrozzato
gli farei il barca stop e gli direi:
“tutti a bordo con me, vi do un passaggio
e niente mi dovete di pedaggio.
La bussola ce l’ho e il motore stantuffa”.
Non c’è bisogno d’altro per puntare la prua
verso baie taciturne
e farli scendere su qualche spiaggia
tra ragazzi tatuati, coi bracciali,
tra canoe colorate come icone degli angeli
e i chioschi di gelati
non è questo che vedi negli spot
con la reclame del sole e del calore
solidale a Eurolandia?
Se leggi in questa lettera
di questo desiderio di cui ho urgenza
e se per caso sai che c’è una barca
che potrebbe servirmi all’occorrenza,
manda e-mails al mio sito:
Dio sempre benedice
chi bene l’ha servito.
Perciò dammi una barca,
voglio farla salpare,
controllore di tutti i clandestini
i cui passati passano di qua.
Gli darei il necessario a continuare
la traversata euro solidale.”
Adrian Grima (poeta e docente maltese), “Se avessi una barca” – Traduzione di Mimmo Grasso
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Profughi
“In sella ai nostri anni migliori
sfidiamo il mare
scrutando rotte
di mille altri destini alla deriva
l’approdo è un azzardo
alle porte di Lampedusa
altre storie verranno a galla
impigliate nelle reti dei pescatori
l’enfasi lasciamola ad altri esodi
noi siamo solo profughi
protagonisti della cronaca
e clandestini alla storia.”
Mohamed Malih (poeta e mediatore culturale)
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Foto dal web
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Salgono sui carghi
“Salgono sui carghi
fiduciosi di arrivare vivi
uomini di pelle disperata
donne dalle mammelle riarse
il bambino giace morto nella stiva
buttiamolo a mare
oh no
dice la madre ho ancora latte
ha gli occhi di dolore asciutto
mentre si capovolge il mondo
in mezzo ai flutti
chi li reclamerà relitti e corpi?
Sono grassi gli squali
ultimamente
banchettano a cadaveri
gli dei sono distratti
hanno da barattare armi e petrolio
rimpinguare le borse
ai tiranni protetti
suggerire le bombe nelle piazze
hanno le mani lorde questi dei
unte di offerte e ceri sugli altari
sulla coscienza tutti
ignari derelitti e malfattori
grida vendetta l’ultimo bambino
violato
l’ultima donna uccisa
l’ultimo condannato alla follia
da quest’olimpo infetto.”
Cristina Bove
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Museo atlantico sottomarino di Lanzarote (Spagna)
In alcune foto compaiono i relitti di barconi che trasportavano migranti morti in mare. I relitti sono stati dipinti da Elia Li Gioi, artista ed ex sindaco di Avola e sono conservati nella cattedrale di Noto. “Ho cominciato a maggio a raccogliere i resti dei barconi distrutti da una mareggiata lungo la spiaggia di Portopalo. Ho costruito due totem, sono intervenuto con la pittura rossa a segnare il dolore. Dentro la cattedrale di Noto queste opere hanno acquisito la sacralità che meritano”.Opera di Li Gioi è anche la croce, realizzata con il legno dei barconi: “E’ la croce dei poveri Cristi. Questi pezzi raccontano il viaggio, non parlano, ma danno emozioni. (…) Si sente ancora l’odore del sudore dei disperati e del mare”.