“La trovatura – scrive Andrea Camilleri – è un tesoro che un povero contadino rinviene casualmente nel terreno che sta zappando, tesoro che gli cambia per sempre l’esistenza facendolo diventare favolosamente ricco. Di solito la trovatura consiste in alcuni contenitori di terracotta (giare o quartare) stracolmi di monete d’oro, nascosti anticamente sottoterra dai briganti o da qualche proprietario terriero minacciato nelle sue ricchezze e da allora mai più potuti recuperare”.
(Andrea Camilleri, “Il cielo rubato”)
Sono questi “i cunti” che un tempo si facevano davanti al fuoco, nelle notti di inverno. I racconti pieni di personaggi come “u turcu” (il custode del tesoro), la verga fatata, “lu libbru di lu Cincucentu” (un leggendario libro di magia nera, che la tradizione attribuisce al re Salomone), i “pircanti”, gnomi o folletti che fossero, affidati com’erano ad una fantasia che li dipingeva ogni volta in modo diverso, ma sempre come fedeli custodi della “truvatura” (o “trovatura” che dir si voglia)… E poi lo stupore un po’ imbambolato dei volti che ascoltavano quei cunti, il brivido, la paura…ma quella buona, quella che ci fa sentire a casa, protetti, sicuri, al calduccio. Potere delle fiabe, dove nessuna ipotesi rinuncia mai ad esistere.
Le “truvature” sono legate alle “leggende plutoniche”, che compaiono soprattutto nel Sud della nostra penisola (ma non solo!) e sono così chiamate in omaggio al dio ctonio Plutone, divinità del sottosuolo. Tuttavia come tutte le leggende, sempre in bilico tra fantasia e realtà, anche queste hanno spesso un fondamento storico. D’altronde non c’è da stupirsi: in un Paese, come il nostro, in cui si sono avvicendate dominazioni di ogni tipo (greche, bizantine, arabe, normanne ecc.), come non ipotizzare che una fuga improvvisa o il rischio di un’invasione non abbia indotto il proprietario di un tesoro a nasconderlo in fretta e furia, affidandolo alla terra?
“Là dove sono ruderi di antichità greche o avanzi della dominazione araba, o resti d’un vecchio edificio qualunque, – scrive l’etnoantropologo Giuseppe Pitrè – si è certi di trovare siffatti tesori, nascostivi dai padroni che li possedettero e che non poterono trafugarli in altra terra o portarli all’altro mondo”.
Secondo la leggenda, le “truvature” sarebbero di due tipi: quelle “libere” consisterebbero nei tesori scoperti per caso; per quelle “legate”, invece, sarebbe necessario possedere “la chiamata”, ossia la formula magica per entrarne in possesso. E qui entra in gioco la “spignatura”, lo “smagamento”, il disincanto; insomma, il rituale magico indispensabile per neutralizzare il sortilegio che protegge il tesoro, “legandolo”. Le “spignature”, oltre che misteriose, sono spesso molto cruente, in quanto prevedono il sacrificio di una o più persone, come accade, per esempio, per il tesoro sepolto sotto il monte Calvario, nei pressi di Caltabellotta, o per quello della cava di S. Lena, a Chiaromonte, dove sarebbe addirittura nascosto un intero gregge di pecore d’oro. A Borgetto (Palermo), nelle grotte di Ddisisa, per “sbancare” il tesoro, “ci vogliono tre uomini che si chiamino Santi Turrisi, nati in tre città capitali del Regno; e poi bisogna pigliare una giumenta bianca, ucciderla e toglierle le interiora. E queste interiora bisognerà mangiarle a frittella: e bisognerà infine uccidere i tre Santi Turrisi” (Giuseppe Pitré, “Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani”, Palermo I875, voI. 4, pp. 87-88). Buon ultimo, anche chi riuscisse a portare a termine questo rituale, non troverebbe più la via d’uscita. Questo perché:
“Lu Scavu voli sangu
Sangu si cci havi a dari
‘Ntra un bottu la jimenta
Tutta s’havi a sbinari
Lu còiru arsu a li mura
Li zoccoli a la via
Lu campanaru frittu
Si mancia in cumpagnia.
Trema tutta la grutta
Scruscinu li catini
E li russi diavuli
Spuntanu senza fini.
Lu Scavu voli sangu
Sangu si cci havi a dari
Li tri Santi Turrisi
‘Ntra un bottu hannu a cascari.”
(Salvatore Salomone-Marino, “Leggende popolari siciliane”)
Spesso ad essere ucciso era proprio l’uomo a cui il tesoro veniva affidato e con il quale veniva poi seppellito, il che rispondeva ad una doppia esigenza: da un lato, invocare il diavolo a tutela del tesoro, mediante un rito propiziatorio; dall’altro, garantire al tesoro un guardiano, il cui spirito sarebbe rimasto incatenato ad esso per l’eternità, introducendosi nel corpo del malcapitato passante e rendendolo “spirdatu” (spiritato). A volte, invece, il diavolo veniva sostituito da un drago oppure da un mago: a distinguere queste tre diverse tipologie di “affidamento”, a parte “la chiamata” per “smagare” il tesoro, interveniva il fatto che mentre il diavolo ne sarebbe diventato il legittimo proprietario “per lascito”, gli altri due lo avrebbero ottenuto o per la forza fisica (il drago), o in virtù dell’“arte” (il mago).
Questa almeno è l’opinione espressa da Raffaele Lombardi Satriani ( in “Tradizioni plutoniche”, in “Credenze Popolari Calabresi”)-
Ma non tutti gli studiosi concordano. Giovanni Pansa, ad esempio, ritiene che le leggende relative ai tesori affidati alla custodia di serpenti o di dragoni risalgano a quelle degli Argonauti, mentre quelle in cui i tesori sarebbero stati affidati al diavolo sarebbero comparse solo nella letteratura del Medioevo, rinfocolate dall’incubo delle invasioni e della pirateria saracena (Giovanni Pansa, “Miti, leggende e superstizioni d’Abruzzo”).
Cocchiara, invece, ritiene che la fonte delle “truvature” vada cercata non “nel mito, ma in un rito, adombrato nelle stesse leggende plutoniche, quando esse ci narrano le pratiche dell’incantamento del tesoro”. Ciò che si rileva esaminandole, infatti, è che “nel disincantare un tesoro o nell’incantarlo compare, insistentemente, l’uccisione di un essere umano: uomo, donna o bambino. Ora, presso le popolazioni primitive noi troviamo l’uso di uccidere un essere umano proprio sul punto dove deve sorgere una capanna o una casa. L’uccisione ha lo scopo di dar forza e stabilità alla costruzione” (Giuseppe Cocchiara, “Genesi di leggende”).
Si tratterebbe, in sostanza, di uno dei tanti “sacrifici di fondazione” riscontrabili nelle società del passato, ossia i sacrifici compiuti in occasione della costruzione di una qualche opera (città, fortezza, ponte, edificio ecc.) e durante i quali il corpo della vittima (o una sua parte) veniva sepolto nelle fondamenta. Il significato di questo rito, incredibilmente diffuso nel folklore di tutto il mondo, resta a tutt’oggi non del tutto chiarito: secondo alcuni, la “vivisepoltura” avrebbe come scopo quello di garantire alla costruzione uno spirito guardiano, una sorta di “genius loci”; per altri si tratterebbe di un rito propiziatorio rivolto agli dei protettori del sito, o, ancora, di una cerimonia volta ad evitare il castigo della divinità per aver violato un luogo a lei sacro.
Il fatto, poi, che lo “smagamento” sia caratterizzato da un altro sacrificio, potrebbe essere spiegato come una pratica magica di carattere imitativo: se è vero, come sosteneva Cicerone, che “Pares cum paribus facile congregantur” (ossia “i simili frequentano facilmente i loro simili”), si potrebbe ipotizzare che un tesoro “incantato” mediante un sacrificio umano potrebbe essere “smagato” solo seguendo lo stesso procedimento.
Sopra ogni cosa, però, rimane il fatto che “la truvatura, ossia il tesoro nascosto, è pel villico la costante aspirazione, il desiderio intenso, il sogno di tutte le notti, il pensiero che non lo lascia un minuto mentre nel campo avvolge le zolle e raccoglie i prodotti”. (Salomone Marino, “Op. cit”).
Maddalena Vaiani
*****
Immagine: René Magritte, “La voce del sangue”,1948