“Quando muore un poeta
al mondo c’è meno luce,
per vedere le cose.
Quando muore un poeta
gli uccelli hanno una traiettoria in meno
tra quelle possibili,
e non se ne accorgono.
Quando muore un poeta
il male sorride
felice
di aver perso un avversario.
Quando muore un poeta
la mia vita è più piccola
la mia speranza più lieve.”
Alda Merini, “Quando muore un poeta”
“Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia“… Luis Sepulveda
Ciao, Luis.
Nessuno potrà raccontare la tua storia, perché un poeta non ha una storia chiusa dalla linea del tempo. Il poeta ha un’esistenza che si coniuga all’infinito. Esistere.
È vero, “nessuno riesce a legare un tuono e nessuno riesce ad appropriarsi dei cieli dell’altro nei momenti dell’abbandono”.
Voli via come Zengah, uccisa dalla “peste nera”, ma, al contrario di lei, ci hai insegnato a volare, ad avere il coraggio e la passione per farlo. Perché tu sei sempre stato un tuono assetato di cielo.
Grazie a te, anche i nostri sogni diventano “irrinunciabili, testardi e resistenti”. Impareremo a mantenerli, a coltivarli, a condividerli, a moltiplicarli. Umilmente. Come hai fatto tu.
E come te, riusciremo “a credere nella testardaggine dei sogni”.
“L’ultima nota del tuo addio
mi disse che non sapevo nulla
e che arrivavo
al tempo necessario
di imparare i perchè della materia.
Così, fra pietra e pietra
seppi che sommare è unire
e che sottrarre ci lascia
soli e vuoti.
Che i colori riflettono
l’ingenua volontà dell’occhio.
Che i solfeggi e i sol
raddoppiano la fame dell’orecchio
Che è la strada e la polvere
la ragione dei passi.
Che la via più breve
fra due punti
è il giro che li unisce
in un abbraccio sorpreso.
Che due più due
può essere un pezzo di Vivaldi.
Che i geni gentili
stanno nelle bottiglie di buon vino.
Una volta imparato tutto questo
tornai a disfare l’eco del tuo addio
e al suo posto palpitante scrissi
la Più Bella Storia d’Amore
ma, come dice l’adagio,
non si finisce mai
d’imparare e aver dubbi.
Così, ancora una volta
facilmente come nasce una rosa
o si morde la coda un a stella cadente,
seppi che la mia opera era scritta
perchè La Più Bella Storia d’Amore
è possibile solo
nella serena e inquietante
calligrafia dei tuoi occhi.”
Luis Sepùlveda, “La più bella storia d’amore”
“C’è un umano per strada e sta guardando l’orologio” annunciò Segretario che sbirciava fuori. “È il poeta! Non c’è tempo da perdere!” miagolò Zorba correndo a tutta velocità verso la finestra. Le campane della chiesa di San Michele iniziarono a suonare i dodici rintocchi della mezzanotte e l’umano sussultò al rumore di vetri rotti. Il gatto nero grande e grosso cadde per strada in mezzo a una pioggia di schegge, ma si rialzò senza preoccuparsi per le ferite alla testa, e saltò di nuovo dentro la finestra dalla quale era uscito. L’umano si avvicinò nel preciso istante in cui una gabbiana veniva sollevata da vari gatti fino al davanzale. Dietro i gatti, uno scimpanzè si palpeggiava la faccia cercando di tapparsi occhi, orecchi e bocca allo stesso tempo. “Prendila! Che non si ferisca coi vetri” miagolò Zorba. “Venite qua tutti e due” disse l’umano prendendola in braccio. L’umano si allontanò in fretta dalla finestra del bazar. Sotto l’impermeabile aveva un gatto nero grande, e grosso e una gabbiana dalle piume d’argento. “Canaglie! Banditi! Me la pagherete!” strillò lo scimpanzé. “Te la sei voluta. E sai cosa penserà Harry domani? Che sei stato tu a rompere il vetro” ribatté Segretario. “Accidenti, anche stavolta è riuscito a togliermi i miagolii di bocca” protestò Colonnello. “Per i denti della murena! Sul tetto! Vedremo volare la nostra Fortunata!” miagolò Sopravento. Il gatto nero grande e grosso e la gabbianella stavano ben comodi sotto l’impermeabile, al calduccio contro il corpo dell’umano che camminava con passi rapidi e sicuri. Sentivano i loro tre cuori battere con ritmi diversi, ma con la stessa intensità. “Gatto, sei ferito?” chiese l’umano vedendo delle macchie di sangue sui risvolti dell’impermeabile. “Non importa. Dove andiamo?” chiese Zorba. “Capisci l’umano?” stridette Fortunata. “Sì. Ed è una brava persona che ti aiuterà a volare” le assicurò Zorba. “Capisci la gabbiana?” chiese l’umano. “Dimmi dove stiamo andando” insisté Zorba. “Da nessuna parte, siamo arrivati” rispose l’umano. Zorba fece capolino. Erano davanti a un edificio alto. Sollevò gli occhi e riconobbe il campanile di San Michele illuminato da vari riflettori. I fasci di luce colpivano in pieno la sua struttura slanciata rivestita di lastre di rame che il tempo, la pioggia e i venti avevano coperto di una patina verde. “Le porte sono chiuse” miagolò Zorba. “Non tutte” disse l’umano. “Nelle notti di burrasca ho l’abitudine di venire qui a fumare e a riflettere in solitudine. Conosco un’entrata per noi”. Fecero un giro e si intrufolarono da una piccola porta laterale che l’umano aprì con l’aiuto di un coltello a serramanico. Poi tirò fuori di tasca una torcia e, guidati dal suo sottile fascio di luce, iniziarono a salire una scala a chiocciola che sembrava interminabile. “Ho paura” stridette Fortunata. “Ma vuoi volare, vero?” miagolò Zorba. Dal campanile di San Michele si vedeva tutta la città. La pioggia avvolgeva la torre della televisione, e al porto le gru sembravano animali in riposo. “Guarda, si vede il bazar di Harry. I nostri amici sono laggiù” miagolò Zorba. “Ho paura! Mamma!” stridette Fortunata. Zorba saltò sulla balaustra che girava attorno al campanile. In basso le auto sembravano insetti dagli occhi brillanti. L’umano prese la gabbiana tra le mani. “No! Ho paura! Zorba! Zorba!” stridette Fortunata beccando le mani dell’ umano. “Aspetta. Posala sulla balaustra” miagolò Zorba. “Non avevo intenzione di buttarla giù” disse l’umano. “Ora volerai, Fortunata. Respira. Senti la pioggia. È acqua. Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice, uno di questi si chiama acqua, un altro si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come una ricompensa dopo la pioggia. Senti la pioggia. Apri le ali” miagolò Zorba. La gabbianella spiegò le ali. I riflettori la inondavano di luce e la pioggia le copriva di perle le piume. L’umano e il gatto la videro sollevare la testa con gli occhi chiusi. “La pioggia. L’acqua. Mi piace!” stridette. “Ora volerai” miagolò Zorba. “Ti voglio bene. Sei un gatto molto buono” stridette Fortunata avvicinandosi al bordo della balaustra. Ora volerai. Il cielo sarà tutto tuo” miagolò Zorba. “Non ti dimenticherò mai. E neppure gli altri gatti” stridette lei già con metà delle zampe fuori dalla balaustra, perché come dicevano i versi di Atxaga, il suo piccolo cuore era lo stesso degli equilibristi. “Vola!” miagolò Zorba allungando una zampa e toccandola appena. Fortunata scomparve alla vista, e l’umano e il gatto temettero il peggio. Era caduta giù come un sasso. Col fiato sospeso si affacciarono alla balaustra, e allora la videro che batteva le ali sorvolando il parcheggio, e poi seguirono il suo volo in alto, molto più in alto della banderuola dorata che corona la singolare bellezza di San Michele Fortunata volava solitaria nella notte amburghese. Si allontanava battendo le ali con energia fino a sorvolare le gru del porto, gli alberi delle barche, e subito dopo tornava indietro planando, girando più volte attorno al campanile della chiesa. “Volo! Zorba! So volare!” strideva euforica dal vasto cielo grigio. L’umano accarezzò il dorso del gatto. “Bene, gatto. Ci siamo riusciti” disse sospirando. “Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante” miagolò Zorba. “Ah sì? E cosa ha capito?” chiese l’umano. “Che vola solo chi osa farlo” miagolò Zorba. “Immagino che adesso tu preferisca rimanere solo. Ti aspetto giù” lo salutò l’umano. Zorba rimase a contemplarla finché non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi gialli di gatto nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto.”
Luis Sepulveda, da “Storia di gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”
“Sono uno scrittore perché non so fare altro che raccontare storie. Ma sono anche un essere sociale, un individuo che rispetta sé stesso e intende occupare un piccolo posto nel labirinto della storia. Da questo punto di vista, sono il cronista di tutti coloro che giorno dopo giorno vengono ignorati, privati della storia ufficiale, che è sempre quella dei vincitori». Luis Sepulveda
“Ammiro chi resiste,
chi ha fatto del verbo resistere
carne, sudore, sangue,
e ha dimostrato senza grandi gesti
che è possibile vivere,
e vivere in piedi,
anche nei momenti peggiori.“
Luis Sepulveda, “Ammiro chi resiste”
“L’unica rivoluzione rimasta in sospeso è quella dell’immaginario: dobbiamo essere capaci di immaginare in quale mondo e in quale società vogliamo vivere“.
Luis Sepulveda
YUNUS
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