Riflessioni

I “cantadoris” sardi

02.06.2020

Carissima Teresina,

mi è stata consegnata solo pochi giorni fa la lettera che mi avevi inviato a Ustica e che conteneva la fotografia di Franco. Ho così potuto vedere finalmente il tuo bimbetto e te ne faccio tutte le congratulazioni. (…) Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Grazietta.
Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea (era la nipote di Gramsci: n.d.r.), da bambinetta, parlasse liberamente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino
piú lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza.
Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro. Delio e Giuliano sono stati male in questi ultimi tempi: hanno avuto la febbre spagnola; mi scrivono che ora si sono rimessi e stanno bene. Vedi, per esempio, Delio: ha cominciato col parlare la lingua della madre, come era naturale e necessario, ma rapidamente è andato apprendendo anche l’italiano e cantava ancora delle canzoncine in francese, senza perciò confondersi o confondere le parole dell’una
e dell’altra lingua. Io volevo insegnargli anche a cantare: «Lassa sa figu, puzone» (lascia il fico, uccello: n.d.r.) ma specialmente le zie si sono opposte energicamente[…].
Abbraccio Paolo affettuosamente; tanti baci a te e ai tuoi bambini

Nino

Antonio Gramsci, Lettera n° 23 del 26 marzo 1927, in “Lettere dal carcere“.

Quando ti capita mandami qualcheduna delle canzoni sarde che cantano per le strade i discendenti di Pirisi Pirione di Bolotana e, se fanno, per qualche festa, le gare poetiche, scrivimi quali temi vengono cantati. […] Sai che queste cose mi hanno sempre interessato molto; perciò scrivimele e non pensare che sono sciocchezze senza cabu né coa.

Antonio Gramsci, Lettera 51 del 3 ottobre 1927, in “Lettere dal carcere“.

Ma chi era Pirisi Pirione di Bolotana ?

Si chiamava, in realtà, Giovanni Filippo Pirisi Pirino ed era un “cantadori”, un “poeta improvvisatore“.  Enrico Costa, nel suo romanzo “La bella di Cabras” (1887), lo definisce “Il zoppo poeta di Borutta, Pirisi Pirino, che compone e canta, stampa e vende per tutta l’isola le sue ingegnose poesie”. Insomma Pirisi Pirino era uno di quelli che avevano dato vita alla “poesia estemporanea sarda“, di cui lo stesso Gramsci sarebbe stato un grande estimatore. O forse – chissà! – quella poesia Pirisi Pirino l’aveva proprio inventata; almeno, così si vantava lui: “in Sardigna so un istruttore / ca su primu in Sardigna apo giradu”. Pirino, però, era nato nel 1835, mentre le “cantadas“, con tutto il loro complesso corredo metrico di “mutos” e di “mutetus longus”, provengono da una tradizione orale che  sicuramente fluiva  “de s’antigoriu“, da tempi molto più lontani.

La prima testimonianza che ne abbiamo risale al 1638 ed è un passo della prefazione al poema “Urania Sulcitana” di Salvatore Vidal (nato Giovanni Andrea Contini), un monaco francescano autore di diverse opere in latino, sardo, toscano e castigliano, il quale attesta l’esistenza di un tipo di canto sardo caratterizzato  da un ritornello (“enninno“) e chiamato “tasi”. Anzi, secondo Vidal, i sardi avrebbero appreso la loro arte addirittura dal poeta latino Ennio, conservandone poi la memoria attraverso i secoli. E non era il solo a pensarla così:  nel Settecento, il gesuita Matteo Madao si dichiarerà convinto che “l’arte che li Sardi adoprano nel comporre i loro versi e le loro canzoni e nell’accompagnare queste ora col canto, ora col ballo, e ora col suono di musici strumenti pastorali” riproducesse  inalterata “la prisca usanza de’ Greci e de’ Romani” (Matteo Madao, “Armonie dei Sardi“). Sarà infatti proprio questa convinzione a spingere Madao,  primo fra tutti, a fornire diversi esempi di “mutos” e di “mutetus”, nonché a studiarne le caratteristiche metriche.

Nel tempo, questa antica tradizione orale si è poi nutrita di colori e di suoni  “inter sas popolasciones chi han coladu e colan sa vida a s’aria abberta“, ossia “tra queste popolazioni che hanno coltivato e coltivano la loro vita all’aria aperta” (Paolo Pillonca, “Peppe Sozu”, 2003), per poi conservarsi per secoli “nei balli tondi, nelle serenate, nelle vendemmie, nelle tosature e nelle solitudini dei campi” (Michelangelo Pira, “Il meglio della grande poesia in lingua sarda“). Il pastore, infatti, “vivendo a stretto contatto con la natura e solamente con i suoi suoni, pur essendo analfabeta, aveva dentro di sé l’immediatezza del verso e la giusta misura della metrica che poi toglieva fuori verseggiando in diverse occasioni: facendo il formaggio, a cavallo, tosando e marchiando le pecore e in tutte quelle occasioni che capitavano solo in campagna” (Paolo Pillonca, ibid.). Se così non fosse, sarebbe molto difficile spiegare la presenza di poesia orale in tempi, luoghi e tradizioni lontanissimi tra di loro, dall’antichità greca ai bardi celtici, dalla Toscana al Libano, dai Paesi baschi al Messico, da Cuba all’Argentina. E naturalmente senza un ritmo che la sostenga e che l’accarezzi, una cultura orale è condannata a spegnersi: “la parola parlata, per durare nel tempo, si ancorava ai metri e alle rime delle ottave e delle quartine e al canto“. (Michelangelo Pira , “La rivolta dell’oggetto, antropologia della Sardegna“) Di. solito, infatti, i poeti si incontravano nei cuiles (ovili), o nei magasinus, oppure nei tzilleris (nelle cantine), mitragliando raffiche di versi che si incrociavano, si sovrapponevano, si confondevano, intrecciandosi in ghirlande sonore.

E’ forse in queste riunioni improvvisate che prende forma il sistema metrico che caratterizza questo tipo di poesia: l’ottava sarda, sei versi a rime alternate iniziali (“sonette“) e due (“sa serrada”) a rima baciata finali. Questo sistema metrico compare nel 1582, ne “Sa vita et sa morte et passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu“, un poema in volgare dell’arcivescovo di Sassari Antonio Canu, successivamente rielaborato dall’ecclesiastico sassarese Gerolamo Araolla. Nel Settecento, sarà poi la volta di Gian Pietro Cubeddu, più conosciuto col nome di Luca, autore di composizioni poetiche molto vicine  ai toni barocchi dell’Arcadia: poesia colta, insomma, molto lontana dall’ariosa spontaneità delle “cantadas“.  Pobabilmente, però, il vero e proprio decollo di questo sistema metrico è rappresentato dall’”Innu de su patriotu sardu  a sos feudatarios”, ossia dalla cosiddetta “marsigliese sarda”, composta da Francesco Ignazio Mannu nel 1795, in occasione dei moti rivoluzionari contro l’autorità sabauda (i cosiddetti “vespri sardi”: 1793-1796), dichiarato, nel 2018, inno ufficiale della Sardegna e di cui questa è la prima ottava:

Procurade e moderare,
Barones, sa tirannia,
Chi si no, pro vida mia,
Torrades a pe’ in terra!
Declarada est già sa gherra
Contra de sa prepotenzia,
E cominzat sa passienzia
ln su pobulu a mancare

(Cercate di moderare, / baroni, la vostra tirannia: / altrimenti, per la vita mia,/ ornatevene nella vostra terra! / Dichiarata è ormai questa guerra / contro la prepotenza / e comincia la pazienza / a mancare nel popolo).

In compenso, la nascita ufficiale delle competizioni tra “cantadoris” ha una data precisa, almeno per quanto riguarda la poesia logudorese (mentre per quella campidanese non è possibile stabilire alcun passaggio del genere): la data è il 15 settembre del 1896, quando nella casa del poeta di Ozieri Antonio Cubeddu, si svolge la prima gara poetica, come lui stesso racconta:

Si de ischire disizosu sese      
cussa data pretzisa, justa e rara, 
pinna e tinteri, letore, prepara, 
a tacuinu signala, si crese:     
de s’otighentos su norantasese 
po initziativa mia rara         
amos fatu sa prima bella gara 
de Cabidanni su bindighi ‘e mese 
in Uthieri, sa mia dimora,  
in ocajone ‘e sa festa nodida  
‘e su Remediu, po Nostra Segnora. 
Sa poetica gara at tentu vida 
e dae tale tempus est ancora
po onzi festa sarda preferida.”

(Se vuoi conoscere / questa data con precisione /prepara, o lettore, penna ed inchiostro / segna sul taccuino, se credi: / nel 1896 / per mia personale iniziativa / abbiamo fatto questa prima bella gara / il 15 del mese di settembre / a Ozieri, nella mia casa, / in occasione della famosa festa / di Nostra Signora del Rimedio. / La gara poetica ha avuto vita / e da quel tempo esiste ancora / per ogni festa sarda preferita).

E c’è da dire che  Cubeddu aveva pensato proprio a tutto: tiu Antonio, infatti, conosceva bene le difficoltà  di questi poeti improvvisati, che erano tutti pastori o contadini e che dovevano ogni giorno procurare il pane per sé e per le proprie famiglie e sapeva che prima o poi queste competizioni poetiche  avrebbero corso il rischio di scomparire, visto che i “cantadoris” non ce l’avrebbero fatta a trascurare il lavoro per darsi alla poesia. Ebbe quindi la buona idea di istituire una ricompensa per tutti i partecipanti, facendone così, in un certo senso, dei poeti professionisti. Solitamente  le gare si svolgevano (e si svolgono tuttora) in occasione delle festività religiose e ad organizzarle era un apposito comitato che provvedeva ad andare in giro per il paese a raccogliere i fondi necessari. A scegliere il vincitore era poi una giuria  composta in genere dai notabili del paese (l’avvocato, il medico, il maestro ecc.), alla quale spettava anche il compito di assegnare ai poeti “sos temos“, i temi da mettere in versi.

Quanto poi all’analisi metrica dei “mutetus longus” che compongono le“cantadas”, c’è da dire che si tratta di una questione tanto complessa da essere riservata esclusivamente agli addetti ai lavori. La  struttura metrica di un “mutetu” è infatti molto variabile: in genere è composto da due sottosezioni, la “sterrina”, formata  da un numero di versi che oscilla dagli otto ai dieci, seguita dal distico, cioè dai due versi, che costituiscono la “cubertantza”.

Sterrina:
Ses istraciau e sucidu
Bivendi a sa spensierada
No arreposas in nisciunu logu
Sempiri brillu de a mengianu
Una giorronada in su sartu
Sciu ca no fais prus
Fatzat soli o siat proendi
No portas butinus in peis
Cubertantza:
Seis in duus a manu pigada 
Andendi in fatu a un ogu lucidu”
(Sei straccione e sudicio / E vivi alla spensierata / Non hai un letto in cui dormire / Brillo dalla mattina. / Una giornata di lavoro in campagna / So che non fai più / Sia in tempo di sole o di pioggia / Non hai scarpe ai piedi / Siete in due, presi per mano, / che andate dietro a una lucciola).

La “sterrina” è per lo più un racconto breve ed è assolutamente libero, non solo in quanto scelto in maniera autonoma da ogni “cantadori“, ma anche perché non necessariamente legato alle argomentazioni sulle quali verte la gara poetica. Anzi, può risultare perfino molto lontano nel tempo e nello spazio e può trarre ispirazione da vicende storiche, dalla tradizione sacra, dal mito, oppure da eventi di pura fantasia. La “cubertantza“, invece, non solo deve essere sempre riferita al tema centrale della “cantada“, ma per di più compare spesso in forma criptica, non facilmente decifrabile, approssimativamente assimilabile a quella dell’aforisma, perché lo scopo è quello di accendere la curiosità e l’interesse del pubblico. Di particolare importanza è la prima che è affidata al fundadori“, ossia al poeta che dà l’avvio alla competizione e che serve a delineare una sorta di traccia metaforica alla quale gli altri dovranno uniformarsi. A complicare ulteriormente le cose, interviene il fatto che questa alternanza di “sterrina” e “cubertantza“, che potremmo grossolanamente  indicare come la “struttura base” del “mutetu”, può risultare ampliata secondo uno schema che prevede la ripetizione di gruppi di versi (la “torrada”). Non solo: alcuni versi possono essere rimodulati cambiando le rime interne (“arretroga“): per esempio, il verso “a tempus miu in fainas mannas” può essere modificato in a tempus miu in mannas fainas” e poi in “mannas fainas a tempus miu” ecc.

C’è da dire, inoltre, che non tutte le “cantadas” sono allo stesso livello: “is spassius”, “i divertimenti“, che si svolgono tra dilettanti, sono, per così dire, informali e non hanno la struttura serrata del “mutetu” o del “mutetu longu”, ma sono puri e semplici “versus“,  accompagnati dal suono della chitarra e cantati in occasione di banchetti, matrimoni, compleanni ecc. Analoghe sono le “cantadas” di secondo livello, che però si svolgono alla presenza di un pubblico. Sono veri e propri professionisti, invece, i “cantadoris” di primo livello, che si sfidano su di un palco all’aperto, ognuno affiancato dai propri accompagnatori, il “basciu” e la “contra“, in una sorta di duello poetico che si articola in due tempi: il primo, caratterizzato da “mutetus longus” e scandito dal coro gutturale di basciu” e “contra“; il secondo, affidato al canto dei “versus”, accompagnati dalla chitarra.  Quando tutti i “cantadoris” hanno terminato il loro “mutetu“, comincia un nuovo “giru“.

Per quanto riguarda gli argomenti, sono ancora una volta gli organizzatori a consegnare al “capogara” alcuni biglietti: ogni “cantadori“, estraendone uno a sorte, troverà l’argomento che sarà tenuto a difendere. E, ad aprire ed a chiudere la “singolar tenzone” è spesso proprio lui, il “capogara”, quasi sempre il poeta più anziano. Ovviamente, tra un tema e l’altro, i poeti hanno bisogno di pause per riprendere fiato, per cui sarà “su tenore” ad intrattenere il pubblico con “a boghe ‘e note o a boghe ‘e ballu“. Terminati i temi, arrivano “sas duinas“, nelle quali i poeti si alternano cantando ottave libere, non necessariamente legate ai temi trattati e neppure connesse tra di loro. A “sas duinas” seguono “sas batorinas“, quartine di endecasillabi, seguite da un sonetto che chiude la gara con il ringraziamento agli organizzatori e con l’invocazione del Santo al quale è dedicata la festa. Naturalmente, sono di prassi anche il saluto e il commiato dal pubblico, perché in fondo il vero e proprio giudice è lui; l’ultima parola spetta sempre e comunque a “sa zente“:  unico vincolo, quello di non trascurare mai la propria lingua, il sardo.

“O sardu, si ses sardu e si ses bonu,

Semper sa limba tua apas presente:

No sias che isciau ubbidiente

Faeddende sa limba ‘e su padronu.

Sa nassione chi peldet su donu

De sa limba iscumparit lentamente,

Massimu si che l’essit dae mente

In iscritura che in arrejonu.

Sa limba ‘e babbos e de jajos nostros

No l’usades pius nemmancu in domo

Prite pobera e ruza la creides.

Si a iscola no che la jughides

Po la difunder menzus, dae como

Sezis dissardizende a fizos bostros.

(“Sardo, se sei sardo e sei buono / abbi sempre presente la tua lingua / non essere come uno schiavo ubbidiente / che parla la lingua del suo padrone. / La nazione che perde il dono / della sua lingua, scompare lentamente / soprattutto se le esce dalla mente / scrivendo o discorrendo. / La lingua dei padri e dei nostri nonni / non la usate più nemmeno in casa / dal momento che la ritenete povera e rozza. / Se non la portate a scuola / per diffonderla meglio / starete de-sardizzando i vostri figli“).

 

Maddalena Vaiani

Remondu Piras, “No sias isciau”, 1977

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