Agnes Heller.
Nata a Budapest nel 1929.
Morta nel lago Balaton, il 19 luglio 2019.
Sopravvissuta alla Shoah.
Filosofa.
Perseguitata politica.
“Il resto è silenzio”, come scriveva Shakespeare.
Personalmente non ho mai amato molto le biografie; mi hanno sempre dato la sensazione di ficcare il naso nei fatti altrui. “Non fate troppi pettegolezzi”, scrisse Pavese.
Mi piace immaginare che tu sia seduta qui, intenta a cercare una via d’uscita dal labirinto inestricabile di contraddizioni in cui si è cacciata l’Europa.
In questo tête-à-tête a distanza spazio-temporale, so che non rischierò, una volta tanto, di travisare il tuo pensiero, perché tu stessa ci hai consegnato una grande lezione di rispetto lasciandoci liberi di interpretarlo, ognuno a suo modo.
“Non ho mai smesso di ripetere che non sono io a poter giudicare i miei scritti, ma che ognuno può apprezzarne la parte che preferisce e questa scelta non mi riguarda minimamente“.
A me, per esempio, incanta il tuo battagliero disincanto. Quello che senza recriminazioni e inutili piagnistei prende atto della crisi dei massimi sistemi, degli “ismi“, delle grandi utopie della tua generazione. Della necessità che la filosofia riparta da noi stessi, dai nostri bisogni, non certo da quelli “alienanti” legati ad entità quantificabili come il potere, il successo, il denaro, il capitale, ma piuttosto dai bisogni più intimi e “radicali“. Quelli che non si possono pesare né misurare, perché si chiamano amore, amicizia, voglia di stare insieme, di mettersi in gioco con l’Altro. Sono bisogni “rischiosi“, ma sono anche gli unici a rendere possibile una nuova “communitas“, a restituirci il senso della “reciprocità“, a permettere ad ognuno di noi di vivere un rapporto autentico con l’Altro. Ma finché continueremo ad essere condizionati dai bisogni alienanti, l’Altro ci apparirà solo come un nemico da cui nasconderci e difenderci.
In realtà potrebbero essere i bambini a indicarci una via di scampo, insegnandoci a riscoprire il valore del gioco. Il bambino vive infatti tutt’altra forma di “alienazione“: nella sua ingenua aspettativa che i giocattoli gli rispondano proprio come se fossero persone e che interagiscano con lui, il bambino si abitua alla presenza dell’Altro e vive in lui. Così, mentre nell’infanzia l’alienazione è tutt’uno con la spontaneità e con la libertà del gioco, nell’età adulta diventa estraneazione, assoggettamento. A meno che non siamo disposti ad imparare la lezione rimettendoci in gioco, a tutto campo. Certo occorre una buona dose di coraggio, per farlo. Ciò che serve è che noi adulti diventiamo capaci di confrontarci “infantilmente” con l’Altro e pronti a misurarci con lui a viso aperto, anche a costo di mettere a rischio la nostra stessa vita.
Un’utopia? Forse. Ma non come “le grandi narrazioni” del passato. Quelle sono finite e con esse si sono dileguate (posto che mai ci siano state o abbiano avuto un senso) la protervia dogmatica e la pretesa di guardare oltre il presente. “Qui viviamo, qui moriremo“. Tutto ciò che si può fare, analizzando l’oggi, è tentare di azzardare qualche piccolo pronostico sul futuro. Niente di più. Perfino Marx, le cui previsioni basate sull’osservazione del presente si sono dimostrate esatte (“la globalizzazione, la crisi di accumulazione del capitale“), “quando parla delle forme future di società, dice delle sciocchezze”.
La filosofia, abile demolitrice di miti, serve a capire il nostro presente e va riscritta partendo da qui, dal quotidiano, da noi stessi.
E poi, anche potendo, davvero vorremmo “un mondo senza conflitti, un paradiso, un giardino dell’Eden?” Un mondo talmente giusto che diventerebbe impossibile capire ciò che è ingiusto? Talmente perfetto da risultare piatto e grigio, senza il prisma colorato delle nostre opinioni?
In un mondo del genere l’uomo dovrebbe riuscire, non si sa come, a superare i limiti umani per diventare simile a Cristo, novello messia di improbabili trasformazioni. Ma “se in tutta la storia del genere umano l’essenza umana è rimasta così com’è, perché dovrebbe improvvisamente cambiare durante la nostra particolare contingenza storica?” Perché mai dovremmo godere di un tale inaspettato privilegio? Meglio accontentarsi della tua “utopia razionale”, Agnes, un’utopia realistica quanto basta per non illuderci di poter fare a meno della modernità.
“Non penso affatto che l’esistente sia indispensabile così com’è, ma riconosco che alcune cose sono necessarie: il libero mercato, la libertà di creare istituzioni politiche e l’accumulo di conoscenza scientifica e tecnologica”.
Intendiamoci, tu non sei certo stata una rinunciataria. Tu, che sei stata espulsa dall’Università e dal partito perché seguace del “revisionismo” di Lukàcs; tu che sei stata licenziata dall’Accademia per aver protestato contro l’intervento sovietico in Cecoslovacchia (1968), non ti sei mai accontentata di posizioni comode.
Però hai creduto nella “rivoluzione del quotidiano” come alternativa e come correzione dei limiti insiti nel capitalismo e perfino nel comunismo.
“La rivoluzione della vita quotidiana è superiore ad ogni sorta di rivoluzione politica. Non solo perché non implica la violenza, ma anche perché nel lungo periodo la rivoluzione politica non modifica nulla nel comportamento umano, poiché rimane particolaristica. Dopo una rivoluzione politica, la capacità di uomini e donne di prendere le distanze dal proprio mondo e da se stessi non aumenta (anzi diminuisce)“.
Inutile ed improduttivo, dunque, aspettare “la presa del palazzo d’inverno” per cominciare a cambiare la società. Bisogna partire da noi stessi, dai nostri “bisogni radicali“, gli unici che possiamo rendere inattaccabili dal potere.
Se le fauci implacabili del mercato e del consumo sono arrivate a triturare tutto, perfino la stessa produzione culturale, tuttavia non sono ancora riuscite a divorare gli spazi privati della vita quotidiana, in cui ognuno
condivide con gli altri le proprie esperienze.
Credo di capire, allora, il motivo per cui assegni un’importante sottolineatura al problema dell’identità personale, senza la quale non può esserci una rivoluzione del quotidiano.
“L’identità personale è una cosa che ciascuno di noi può decidere di avere: può scegliere di essere un filosofo, di essere un artista, può scegliere di avere un’identità culturale o linguistica“.
Però le cose cambiano quando invece di usare il pronome “io”, usiamo il pronome “noi”, perché allora l’identità diventa un concetto che riguarda una realtà più vasta (“noi” come famiglia, “noi” come bambini, “noi” come donne ecc.). “Sono tante le identità a cui possiamo attribuire una nostra appartenenza” e sono imprescindibilmente legate alle scelte individuali o collettive di ognuno di noi.
Il problema è che la politica molto spesso se ne appropria, quasi fossero altrettanti documenti falsi da utilizzare in modi che non hanno niente a che vedere con le nostre scelte e in cui non siamo più “noi”..
“Le sfrutta, per esempio, nel cosiddetto ‘nazionalismo etnico’, per affermare l’identità come strumento e come modo per imporre o suggerire un’ideologia che viene utilizzata contro qualcun altro. Può essere utilizzata contro gli stranieri, contro coloro che si spostano da un paese all’altro e che quindi sono i cosiddetti ‘aliens’, cioè alieni a un sistema nazionale piuttosto che a un altro o anche semplicemente contro chiunque abbia un comportamento diverso da quello che quell’ideologia esprime“.
Il “nazionalismo etnico, o etnonazionalismo” è forse la più grave malattia dei nostri tempi. Tanto più pericoloso in quanto non dichiarato e ben camuffato e perciò stesso ambiguo e strisciante, nel suo essere “una forma di governo fondata sulla razza, benché ciò non sia formulato in maniera esplicita“.
Il nazionalismo etnico è figlio della società di massa, ma anche della crisi dei partiti tradizionali.
Ormai incapaci di rappresentare gli interessi di classe e quindi “diventati completamente fluidi dal punto di vista sociale“, i partiti tradizionali stanno vivendo oggi un momento terribile, perché “non riescono a capire il mondo in cui vivono” e non sono in grado di adattarsi all’avvenuta trasformazione da una società in classi a una società di massa, per cui pretendono di continuare a ricorrere ai vecchi metodi, che in passato ne avevano garantito il successo, ma che ora risultano anacronistici.
“Non puoi curare l’infarto con l’aspirina e questo è ciò che i partiti tradizionali stanno facendo ora“.
In questo vuoto politico entrano in scena uomini dotati di “un grande talento e di una forte volontà, che si impossessano di quel vuoto e agiscono per ottimizzare il loro potere e per aumentarlo“. Non si tratta più di una qualunque forma di populismo, di bonapartismo, di peronismo ecc., perché ora il quadro di riferimento è quello di ideologie finora inedite, “come appunto il nazionalismo etnico, ideologie che determinano l’esito delle elezioni” e che sono a loro volta favorite dal crescendo di violenza che infetta l’Europa.
Il fatto è che noi viviamo in una strana forma di democrazia, che tu hai paradossalmente definito “illiberale“, precisando però che non si tratta affatto di un ossimoro.
“Non chiamate questa espressione ossimoro, perché la forza di questa democrazia illiberale sta tutta nel fatto di agire, di essere creata, di reggersi in piedi dentro ad un sistema democratico”. Non è un ossimoro perché “se un governo viene eletto con la maggioranza dei voti e poi viene rieletto, è definitivamente una democrazia, anche se si basa e agisce e comanda attraverso la tirannia”.
E di questi tiranni eletti e legittimati esistono non pochi esempi: “così come Vladimir Putin in Russia, o Erdogan in Turchia.” (E certo, permettimi di aggiungere, anche da noi in Italia circola qualche aspirante tirannello!) Insomma, non è un ossimoro la democrazia illiberale, ma semmai una nuova forma di democrazia.
E questo non è certo l’unico problema che affligge l’Europa, incapace di gestire la questione dei rifugiati. Questa crisi rimanda, come più volte hai evidenziato, “ad una contraddizione storica inaugurata nel diciottesimo secolo e poi maturata nei secoli successivi“. In quel periodo della nostra storia, mentre da un lato venivano esaltati i valori dell’universalismo sulla base dell’idea che tutti gli uomini nascono liberi ed uguali, dall’altro si andava delineando l’idea di nazione. E questa contraddizione non è mai stata sanata “perché non c’è stata una vittoria netta di una tendenza sull’altra“, anche se è vero che “la principale identità degli europei resta quella nazionale“.
Richiamandosi alla tradizione ed ai valori dell’universalismo, l’Unione europea si è posta l’obiettivo di favorire la solidarietà tra le nazioni, ma il suo processo di costruzione non è stato accompagnato dall’emergere di una vera coscienza europea. “L’Europa rimane un progetto burocratico, senz’anima“.
Per questo – vien fatto di aggiungere – siamo così lontani dallo spirito del “Manifesto di Ventotene”, che recitava:
“La linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale.”
Ma torniamo a te, Agnes, torniamo a questo nostro dialogo a distanza
Per te, anche l’idea repubblicana porta in sé una contraddizione di fondo: la Costituzione francese parla di diritti dell’uomo e del cittadino come se dovessero coincidere, ma non è così. Anzi, i diritti dell’uomo e quelli del cittadino possono entrare in conflitto: è il dramma in fondo prefigurato dal mito di Antigone.
Rifugiati e migranti fanno le spese di questa contraddizione: da un lato, infatti, non sembrano in grado di “soddisfare i criteri necessari per veder riconosciuti formalmente i diritti di cittadinanza“, ma d’altro canto l’Europa non può ignorare o violare quella che in fondo è una sua invenzione: l’universalità dei diritti umani.
Per un verso l’Europa ha “inventato” i diritti dei cittadini, incoraggiando l’idea che siano proprio questi ultimi a prendere le grandi decisioni relative al loro Paese di appartenenza e quindi consegnando loro la facoltà di negare agli stranieri di entrare nel proprio Paese. Per altro verso, però, se assumiamo la prospettiva legata all’universalità dei diritti umani, quello dell’accoglienza diventa un dovere fondamentale. La contraddizione è evidente:”droits de l’homme e droits du citoyen collidono“.
L’Europa si trova, dunque, ad un bivio, senza riuscire a decidere in che direzione orientarsi. E senza sapere quale possa essere il miglior tipo di governo.
Ma per te, in realtà, la democrazia liberale, per quanto imperfetta, per quanto molto vulnerabile, resta ancora la migliore prospettiva possibile:
“Bisogna tornare alla vecchia idea di Montesquieu di separazione dei poteri e sovranità del popolo. Non si può inventare nulla di meglio”.
Sembra dunque il caso di dire che “uno spettro si aggira per l’Europa“, anche se questa volta lo spettro non è più il comunismo, ma piuttosto il sovranismo, con tutta la sua immancabile carica di razzismo…
“Ma io ormai non ho piú paura per me. Se non sono riusciti a eliminarmi nella fabbrica della morte nazista né a farmi tacere sotto l’impero sovietico, non ci riusciranno neanche i sovranisti. Ma ho paura per il mondo, per adulti e giovani di oggi e di domani“.
Resta comunque imprescindibile il fatto che se vogliamo salvare la nostra dignità di uomini e di donne, non possiamo permettere che le logiche del mercato globale affondino le loro grinfie nella nostra vita, continuando a devastare ignobilmente il pianeta, distruggendo la ricchezza e la varietà delle specificità culturali, aumentando il baratro già esistente tra poveri e ricchi. Non possiamo permettere che il tarlo del capitalismo ci corroda portandoci all’autodistruzione.
E dobbiamo ricordare che
“Le rivoluzioni vincono soltanto quando la voglia di libertà contagia anche il potere”.
Maddalena Vaiani