Una volta, molto tempo fa, un re un giorno convocò un derviscio a corte e gli disse: “La Via derviscia, attraverso un’ininterrotta catena di maestri che risale fino ai primissimi giorni dell’uomo sulla terra, ha sempre fornito la luce che ha costituito il principio dinamico dei valori, di cui la mia funzione, in quanto monarca, non è che un pallido riflesso“.
“È vero“, rispose il derviscio.
“Ora“, proseguì il re, “dato che sono abbastanza illuminato per conoscere i fatti che ho appena enunciato, e dato inoltre che sono desideroso e impaziente di conoscere le verità che tu, nella tua superiore saggezza, puoi rendermi accessibile, insegnami!“.
“È un ordine o una richiesta?“, chiese il derviscio.
“Chiamalo come ti pare“, disse il re, “perché se funzionerà in quanto ordine, imparerò; se sarà efficace in quanto richiesta, imparerò“.
E aspettò che il derviscio si decidesse a parlare.
Passarono parecchi minuti. Finalmente, uscendo dalla sua contemplazione, il derviscio alzò la testa e disse: “Dovete aspettare il ‘momento di trasmissione’“.
Il re era perplesso: in fin dei conti, visto che voleva imparare, non aveva il diritto di ricevere l’insegnamento, che si trattasse di gesti o di parole? Ma il derviscio se ne andò.
Da quel momento, il derviscio si recò a corte tutti i giorni. Gli affari di stato venivano sbrigati regolarmente, il reame alternava momenti di gioia a momenti di prove, i consiglieri elargivano i loro consigli, la ruota del cielo girava…
“Il derviscio viene qui tutti i giorni“, pensava il re ogni volta che vedeva quella figura avvolta nel mantello a toppe, “eppure non fa mai allusione alla nostra conversazione a proposito dell’insegnamento. È vero che partecipa a quasi tutte le attività di corte; parla, ride, mangia e dormirà anche. Aspetta forse qualche segno?“. Ma, per quanto si sforzasse, il monarca non riusciva a sondare le profondità di quel mistero.
Alla fine, quando la giusta onda dell’invisibile si infranse sulla riva del possibile, a corte si intavolò una conversazione durante la quale qualcuno osservò: “Daud di Sahil è il più grande cantante del mondo“.
Il re, che generalmente era indifferente a quel genere di affermazioni, avvertì un forte desiderio di ascoltare quel cantante. “Che lo si faccia venire qui!“, ordinò.
Il maestro delle cerimonie venne subito mandato a casa di Daud, il quale, come re dei cantanti, rispose semplicemente: “II vostro re non conosce affatto le esigenze del canto. Se vuoi vedermi solo per contemplare il mio volto, verrò, ma se vuoi sentirmi cantare, dovrà aspettare, come tutti, che io sia dell’umore giusto per eseguire il mio canto. È la capacità di sapere quando cantare e quando non cantare, che ha fatto di me ciò che sono. Qualunque asino che conoscesse questo segreto sarebbe un grande cantante“.
Quando queste parole furono riferite al re, questi cominciò a dibattersi tra l’ira e il desiderio, ed esclamò: “Non c’è nessuno, qui, che possa costringere quell’uomo a cantare per me? Perché, se egli canta solo quando ne ha voglia, io, da parte mia, voglio sentirlo ora che ne ho voglia“.
Fu allora che il derviscio si fece avanti. “Pavone del nostro tempo“, disse al re, “venite con me a trovare questo cantante“.
I cortigiani si dettero di gomito. Alcuni pensavano che il derviscio avesse elaborato un piano strategico e ora contava sulla certezza di poter far cantare l’Usignolo di Sahil. Se fosse riuscito, il re l’avrebbe sicuramente ricompensato. In ogni caso, si guardavano bene dall’esprimere questo giudizio ad alta voce, temendo di essere chiamati in causa.
Il re si alzò in silenzio e ordinò che gli fosse portato un abito logoro. Dopo averlo indossato, seguì il derviscio per la strada.
Il re travestito e la sua guida arrivarono presto davanti alla casa del cantante. Quando bussarono alla porta, Daud rispose, irritato: “Oggi non canto! Andatevene e lasciatemi in pace!“.
Allora il derviscio si sedette a terra e cominciò a cantare. Intonò l’aria preferita di Daud e la cantò dall’inizio alla fine senza fermarsi. Il re, che non era un grande intenditore, si sentì profondamente commosso da quel canto: la soave voce del derviscio attirava tutta la sua attenzione e non si era accorto che il saggio aveva cantato in modo deliberatamente stonato allo scopo di risvegliare nel cuore del re dei cantanti il desiderio di correggerlo.
“Ti prego, ti prego, canta ancora“, supplicò il re, “perché non ho mai sentito una melodia così dolce …“.
Fu in quel preciso momento che Daud cominciò a cantare. Fin dalle prime note il derviscio e il re rimasero impietriti, rapiti dalle note che sgorgavano perfette dalla gola dell’Usignolo di Sahil.
Quando Daud ebbe terminato, il re gli fece consegnare un sontuoso regalo e disse al derviscio: “Uomo di saggezza! Ammiro l’abilità con la quale hai incitato l’Usignolo a cantare e vorrei che tu diventassi consigliere di corte“.
Il derviscio rispose semplicemente: “Maestà, potete udire il canto che desiderate sentire solo se c’è un cantante, se siete presente anche voi e se c’è qualcuno che funga da canale per consentire al canto di sgorgare. Ciò che vale per i grandi cantanti e i re, vale anche per i dervisci e i loro allievi: il momento, il luogo, le persone e le tecniche“.
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(Pablo Picasso, “Il vecchio chitarrista cieco”, 1903)