Riflessioni

“Pipeline immigration”

14.07.2020

 

L'”immigrazione a rubinetto aperto”, ovvero quella italiana in America.  Qualcosa come trenta milioni di persone che lasciarono l’Italia in flussi inarrestabili.
Erano intere famiglie quelle che si imbarcavano nei cosiddetti “viaggi della speranza”.
Erano paesi interi che si svuotavano. E in molti quelli che non riuscirono mai ad arrivare.
Il vero e proprio esodo si verificò nei primi anni del ‘900, ma le partenze erano cominciate già dopo l’unità d’Italia (1861), complice il processo di “piemontesizzazione“, che riducendo il Sud ad un’appendice coloniale del Nord, aveva significato omologazione, sfruttamento, leva obbligatoria, nonché un terribile aggravio fiscale (come dimostra, a titolo di esempio, la famigerata tassa sul macinato, introdotta da Quintino Sella nel ’69). Perché la prima causa dell’emigrazione non fu il “sogno americano“, ma la miseria italiana.
Fu una sorta di diaspora, durante la quale gli emigranti si dispersero a raggiera un po’ ovunque, in forme più o meno massicce a seconda delle destinazioni (America, Australia, Europa, Cina, perfino Africa).
Per i più fortunati, i viaggi della fuga o “della speranza” avevano la forma dei “prepaids“, i biglietti “prepagati” da parenti ed amici già emigrati oltre oceano. Ma i più erano costretti a disfarsi di tutto ciò che possedevano, raggirati e taglieggiati da trafficanti senza scrupoli, i “padroni” (un po’ come a dire gli attuali scafisti), che reclutavano manodopera da impiegare nelle campagne o nelle miniere.
Se la “spartenza”  (come la definisce Tommaso Bordonero) era uno strappo, il viaggio era una vera e propria discesa agli inferi: “Se Dante avesse conosciuto ciò ch’erano le terze classi de’ transatlantici nel 1885 – scrive Edmondo De Amicis nel romanzo “Sull’oceano” –  per certo ne avrebbe descritta una e l’avrebbe allogata nell’inferno e vi avrebbe inchiodato i peccatori de’ più neri peccati”. Ammassati come bestie, l’aria resa irrespirabile dal fumo che usciva dalle macchine, le condizioni igieniche spaventose, un sacco di paglia e un orinatoio per i bisogni più elementari. Merci umane che, in queste “navi di Lazzaro” (secondo la definizione di Augusta Molinari) erano perfette per integrare gli incassi delle compagnie di navigazione.
E finalmente l’arrivo a Ellis Island (nella baia di New York),  unica porta d’ingresso all’America (almeno fino al ’54).
Finalmente? Qui, nella cosiddetta “isola delle lacrime“,  cominciavano le ispezioni mediche, che per molti si concludevano con una marchiatura sui vestiti: una “P” (per malattia polmonare), una “X” (per insanità mentale), un “CT” (che stava per tracoma). Seguiva un periodo di quarantena (che non di rado durava anni) e poi il rimpatrio.
Non erano però gli unici controlli da passare: c’erano i test psico-attitudinali per verificare il quoziente intellettivo degli immigrati, nella convinzione (introdotta dallo psicologo americano  Henry Herbert Goddard) che  la debolezza mentale fosse “una condizione della mente o del cervello che si trasmette con la stessa regolarità con cui vengono ereditati il colore degli occhi o dei capelli”. Infatti fu proprio “grazie” a Goddard, che qualificava i “morons” (i ritardati mentali) come incapaci di inserirsi nel tessuto sociale, che gli immigrati giudicati psicolabili venivano sterilizzati o lobotomizzati, per evitare qualunque rischio di contaminazione del sangue americano.
Last but not least,  venivano le verifiche legali: chi non era in regola veniva internato per ulteriori accertamenti e poi eventualmente espulso.
Per le donne, le norme vigenti erano perfino più severe (tanto per cambiare!): divieto assoluto di viaggiare da sole, il che le avrebbe fatte classificare tout-court come prostitute. Le sfortunate che non avevano alternative dovevano comunque cercare un uomo che le accompagnasse (e che avesse almeno 16 anni), oppure procurarsi la garanzia di un parente che si facesse carico del loro futuro mantenimento.  E chi invece fosse partita per raggiungere il proprio fidanzato, era costretta a presentarsi con lui presso gli Uffici dell’Immigrazione, per poi sposarsi in fretta e furia.
Cominciavano da qui le avventure, anzi, le  disavventure del “wop“, uno dei vari nomignoli affibbiati agli italiani. Vai a capire perché e che cosa mai significasse. Forse veniva da “guappo“. Forse era una sorta di acronimo di “without official permission” (“senza permesso ufficiale“).
E non era certo l’unico termine dispregiativo usato per noi italiani… “Offrono cheap la roba, cheap le braccia, indifferenti al tacito diniego; e cheap la vita, e tutto cheap; e in faccia no, dietro mormorare odono: Dego!” Scrive Giovanni Pascoli nel suo poemetto “Italy“. “Dego“, o meglio, “Dago“. Da “dagger“, magari perché i nostri connazionali avevano la fama di essere svelti di coltello? Da “they go“, “finalmente se ne vanno”? Chissà.
Resta il fatto che “wop“, “dago“, o italiano che fosse, per lui (o per lei), il “sogno” cominciava con le dimensioni di un incubo.
Dall’incapacità di parlare inglese e di capirlo, diventando facile preda di qualunque truffatore.
Dai lavori “pick and shovel“, di picco e pala, lavori da schiavi.
Dai quartieri-ghetto in cui “E’ impossibile dire il fango, il pattume, la lercia sudiceria, l’umidità fetente, l’ingombro, il disordine” (Giuseppe Giacosa, che ne fu testimone oculare per averci abitato).
Dal ribollire della delinquenza  e della mafia, per la quale saremmo rimasti tristemente famosi.
Gli emigranti italiani si trovarono così ben presto stretti a forbice tra due opposti egoismi: da una parte, una patria che distribuiva passaporti facili per sbarazzarsi dei poveracci e di quelle che Giolitti non esitava a chiamare “pecore nere“, mele marce di cui disfarsi il più in fretta possibile scaricandole altrove. Dall’altra parte, la macchina stritolante del capitalismo americano, che li accettava, ma solo “capando nel mucchio“, come si suol dire,  solo a patto di selezionare le persone in grado di lavorare. Il che significava scartare accuratamente i vecchi, i malati e tutti quelli che presentassero una qualsivoglia forma di handicap, perché improduttivi (non a caso il Federal Act del 1891 sanciva l’esclusione degli “idioti” e di tutti coloro che avrebbero rappresentato un onere per la società).
Ma anche per chi veniva “accolto” (si fa per dire!), il disprezzo era lo scotto da pagare per  rimanere qui, continuando a far parte di “un’emigrazione indesiderata“, come recitava un editoriale del New York Times (datato 18 dicembre 1880), “promiscua, feccia sporca, sventurata, pigra, criminale dei bassifondi italiani”.
Ma c’è di più: in un’America arroccata sul principio del  “wasp” (White Anglo Saxon Protestant), sul quale si radicava la classe dirigente, vigeva la psicosi  della “black drop” (il sangue nero che, secondo gli uffici dell’immigrazione, infettava gli italiani, soprattutto quelli che provenivano dal sud e che venivano infatti assimilati alla gente di colore). Insomma questa “goccia nera” diventava la percentuale di “negritudine” con cui gli italiani venivano classificati: chi ne aveva di più era considerato più adatto ai lavori pesanti. E comunque continuava ad essere pagato meno dei neri, perché di più recente immigrazione.
Anzi, a sentire il New York Sun del 1899, gli italiani rappresentavano “il collegamento fra la razza bianca e nera.” Ad entrare nel mirino del quotidiano erano soprattutto i siciliani: “Scuri di pelle, sono più neri dei nostri ‘negri’ mulatti“.
Stereotipi, come quelli che usiamo oggi verso gli extracomunitari, dimenticando che, a voler essere precisi,  “extracomunitari” sono anche gli americani.
All’epoca, lo stereotipo dell’italiano oscillava tra  l’immagine del suonatore d’organetto, piccolo, scuro, di razza incerta, buono per i lavori pesanti; il “mangiaspaghetti“, ma sempre pronto, all’occorrenza, a sfoderare il coltello e il delinquente, il mafioso.
Anche da “Little Italy“, però, l’America veniva vista con una sorta di cannocchiale rovesciato. L’abitudine a fare quotidianamente i conti con una polizia formata quasi esclusivamente da ebrei e da irlandesi, aveva ingenerato il detto che “gli italiani hanno scoperto l’America, gli irlandesi la governano e gli ebrei la comandano“.
Era un atteggiamento ambivalente, quello della polizia. Non ricordo più chi l’abbia definito “sornione“, ma non credo che ci sia un termine più azzeccato. I poliziotti, in genere, chiudevano gli occhi su quanto succedeva a Little Italy, un po’ perché non riuscivano a capire i suoi abitanti, già a partire dalla “strana” lingua che parlavano, e, come sempre accade, la mancanza di comprensione genera il pregiudizio e il pregiudizio partorisce il disprezzo e il razzismo; molto perché lasciavano che se la sbrigassero da soli, nella più o meno sotterranea speranza che si facessero fuori a vicenda. Il che avrebbe provvidenzialmente risolto il problema della loro ingombrante presenza.
Poi, però, ogni tanto scattavano i pogrom.
Il 15 ottobre del 1890 venne ucciso il Capo della Polizia di New Orleans, David Hennessy, che, prima di morire, pare avesse sussurrato ad un collega la parola “dagoes”. In realtà neanche in seguito vennero trovate prove a carico degli italiani. È tuttavia probabile che i mandanti dell’omicidio facessero parte della famiglia Matranga, sulla quale Hennessy stava indagando. Ma anche di questo non esistono prove. La risposta, però, non si fece attendere: la polizia, dietro pressione della stampa e dell’opinione pubblica, tra le quali Hennessy era molto popolare, incriminò un gruppo di italiani. La loro successiva assoluzione, però,  scatenò la furia della folla contro. “Il più grande linciaggio nella storia degli Stati Uniti – così lo definì il New York Times. “Non c’è alcun dubbio che le vittime del linciaggio fossero assassini e criminali. Questi viscidi e vigliacchi siciliani, discendenti di banditi e assassini – che hanno trasportato in questo Paese le loro passioni criminali, le loro usanze da tagliagole – sono una pestilenza senza fine. Le vipere che strisciano per strada sono cittadini di egual valore. I nostri assassini sono uomini sensibili e nobili paragonati a loro”.
Uno dei principali artefici del massacro, John Parker,  nel 1911 fu eletto governatore della Louisiana.
Storie di tempi lontani? “Non sono, ecco, non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso. Dopotutto non si possono rimproverare. Oh, no. Non si può. Non hanno mai avuto quello che abbiamo avuto noi. Il guaio è…. che non ne riesci a trovare uno che sia onesto”. A parlare è Richard Nixon.
È il 3 febbraio 1973.
Storie.
Di quando gli emigranti eravamo noi.

Maddalena Vaiani

In entrambe le immagini: Angiolo Tommasi, “Gli emigranti”, 1896

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