Per molte persone è stato questo. Al di là delle tragedie e del trauma. Ben oltre le incognite e le inevitabili difficoltà.
Un lockdown dell’anima…
Perché?
“Capita spesso che non facciamo le domande perché non saremmo ancora pronti per udire le risposte, o semplicemente perché ne avremmo paura. E quando troviamo il coraggio di formularle, non è raro che non ci rispondano“, diceva José Saramago.
…Forse perché è stato un tempo ritrovato. Riscoperto in tutta la sua pienezza; non, come al solito, strappato al lavoro, agli impegni, agli appuntamenti. Nostro, totalmente nostro. Senza per questo sentirci in colpa per averlo sottratto a qualcuno o a qualcosa. Un tempo per la nostra vita quando la nostra vita non ne aveva più, o, chissà, forse non l’aveva mai avuto.
Ma in fondo il tempo sostanzia così intimamente il nostro “esserci” nel mondo, che non ci accorgiamo di lui se non quando ci sfugge (“ho perso tempo“, “non ho tempo“, “mi manca il tempo“), oppure quando abbiamo l’impressione di doverlo acchiappare al volo (“ho cercato di prendere tempo“). “Carpe diem“, insomma, in tutte le sue infinite tonalità.
È un tempo simile a quello di Penelope, il nostro: un filo tessuto per disegnare figure incomprensibili a noi stessi e di cui non conosciamo l’utilità, finché non siamo arrivati in fondo.
… O forse perché abbiamo ritrovato noi stessi. Perché sicuramente ci eravamo persi da qualche parte, senza saperlo. In un cantuccio dimenticato di qualche interiore solaio: eravamo lì, insieme a giocattoli rotti, fotografie ingiallite, oggetti di cui ci eravamo dimenticati l’uso e perfino l’esistenza. Proprio lì: bambole senza occhi per guardarci.
Ci siamo ritrovati come vecchie conoscenze che si incontrano per strada dopo tanti anni. Lì per lì, facciamo fatica a mettere a fuoco la nostra immagine interiore e c’è tanto imbarazzo nel ritrovarsi, quasi si stenta a riconoscersi: “Come stai? Che hai fatto in tutto questo tempo?” E il discorso, il rapporto interrotto stentano a ripartire.
Mi torna in mente un vecchio sketch di Walter Chiari e, se non ricordo male, Ornella Vanoni. Lei e lui si salutano alla stazione: lei dal finestrino, lui dalla banchina. Il treno è fermo e loro, imbarazzati, non sanno cosa dirsi: si guardano intorno, divagano, bofonchiano le solite frasi di rito. Poi, improvvisamente, il treno si muove, prima lentamente, poi sempre più in fretta. E con il treno, parte anche la conversazione e le cose da dirsi si affollano, si sovrappongono, prendono velocità, ormai urlate per sovrastare lo sferragliare del vagone sui binari…E poi si perdono.
Noi, invece, abbiamo avuto l’opportunità di fermarci ad una stazione. Il nostro treno interiore ci ha aspettati e non abbiamo avuto bisogno di urlare. Ci è bastato sussurrare.
…O forse abbiamo avuto la sorpresa di condividere una solitudine affollata. Una volta tanto non abbiamo avuto bisogno di sfoggiarla sui social, impegnati nella consueta gara del “chi soffre di più“. Dietro quella porta, c’è lo stesso nemico per tutti. Al di là di quella parete, l’identica solitudine. E fuori dei balconi, le stesse scritte rassicuranti, gli applausi, la musica, le bandiere: una per ogni solitudine.
Eppure non escludo che tutto questo sia stato anche un modo inaspettato per provare il brivido di vivere un nostro personale, piccolo, eroismo. In una strana “guerra“, come tutti si sono affrettati a definirla; “drôle de guerre“, come dicevano i francesi ai tempi del secondo conflitto mondiale. Niente spari, niente sirene che pugnalano la notte, niente bombardamenti. Solo un invisibile cecchino, tanti morti e noi, “eroi” senza medaglie e senza squilli di fanfare.
C’è in fondo una sottile invidia, nel soffrire, quasi la sofferenza altrui facesse sembrare la nostra più leggera, più sopportabile, più incolore. Quasi ci rubasse l’occasione di sentirci eroi almeno per un attimo. Eroi per caso.
…E forse per questo ritornare alla “normalità” è così difficile. Stiamo cercando di elaborare un lutto, perché abbiamo di nuovo perso noi stessi.
Maddalena Vaiani
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Foto di Sonia Simbolo