“Come si fa a sapere quando si ama veramente qualcuno?”
È una domanda che, nella mia storia di insegnante, mi sono sentita porre centinaia di volte (chissà poi perché a chi insegna filosofia si chiede di tutto: dai massimi sistemi alla ricetta dell’amatriciana).
Già, come si fa?
“Trovo troppe risposte – scriveva Simone de Beauvoir a proposito di un analogo interrogativo sull’amore – Forse la domanda non è poi tanto semplice“.
Accade quando ci si accorge che l’assenza di una persona diventa presenza costante, a dispetto delle mille ragioni per volerla il più lontano possibile da noi. Magari sulla luna, come il senno di Astolfo. E invece la sua assenza è qui, riempie ogni angolo, impalpabile e insidiosa come la polvere, inquietante come l’ombra di Buddha.
“Dopo la morte di Buddha, si continuò per secoli ad additare la sua ombra nella caverna”
(Friedrich Nietzsche, “La gaia scienza“)
Non è sempre vero che la lontananza uccide un rapporto. Le famose “pause di riflessione” della coppia in crisi…Il problema è piuttosto un altro: essere “due” è un sogno che può anche assumere le proporzioni di un incubo.
“Quando saremo due non avremo metà
saremo un due che non si può dividere con niente.
Quando saremo due, nessuno sarà uno,
uno sarà l’uguale di nessuno
e l’unità consisterà nel due.”
(Erri De Luca, “Due“)
Ma noi siamo piccoli universi monadici, anche se con difficoltà ce ne accorgiamo. Fin da bambini, inseguiamo il sogno dell'”anima gemella“, ma vai a capire se questo ideale è innato, se germoglia in noi nel corso degli anni, se, come diceva Schopenhauer, “dietro a Cupido si cela il Genio della specie che desidera la perpetuazione della vita“, o se magari il principe azzurro, Barbie e Ken, nonché la storiella della “piccola famigliola felice” ci abitano così profondamente e da così tanto tempo da averci plasmati a loro immagine e somiglianza. Così il “due” resta l’ideale conclamato, ma poi, nel salvadanaio dei nostri giorni, risparmiamo gelosamente spazi, tempi, idee, sentimenti tutti nostri.
Eppure “due anime non si incontrano per caso“, diceva Borges. E non si lasciano per caso, mi permetto di aggiungere. Ma quando capita, sia pur alla luce dei problemi più seri del mondo, l’assenza dell’altro ci invade almeno quanto ci infastidiva la sua presenza. Due opposti per la medesima ossessione.
E hai un bel ripeterti a pappagallo la solita lezioncina del giorno: “Inutile, ci abbiamo provato ma non funziona“. Niente da fare, non ti entra proprio in testa. Un po’ come a scuola, no? “Ma ho studiato tutto il giorno, prof., solo che non riesco a ricordarmelo!“. “Non è che non riesci a ricordare, è che non hai chiaro il senso di quello che dici, non l’hai capito.” Continui a ripeterti le tue ragioni, ma “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce” (Pascal, “Pensieri“).
Così quell’assenza non se ne va più e diventa la tua compagna di solitudine, il tuo amico invisibile.
“Présente je vous fuis; absente, je vous trouve“. (Racine, “Phèdre“)
“Quando ci sei, fuggo da te; quando non ci sei, ti trovo“.
“Nella foresta, quando i rami litigano, le radici si abbracciano” – recita un antico proverbio africano. Una foresta risuona di fruscii, di schiocchi di foglie, di voci di animali. Si colora di ombre, ovattate, inquietanti, morbide, minacciose. Si accende di lame di luce inattese dove il groviglio dei rami è più intricato. Precipita improvvisamente nel buio nonostante i suoi ricami di cielo. Ma laggiù, sotto terra, dove l’ombra è sovrana, le radici si intrecciano, si fondono, si riconoscono, si abbracciano, pur sapendo che i loro rami continueranno a litigare. Rassegnazione? Abitudine? No, è piuttosto un cercarsi senza riuscire a trovarsi veramente; è un radicarsi inconsapevole e sconosciuto, un po’ come fanno i semi portati dal vento, che vanno a mettere radici nei punti più improbabili: nella crepa di un muro, sull’asfalto di una strada, tra le rocce. E lì crescono e fioriscono, a dispetto dell’habitat inospitale…
“Legge eterna dell’amore è che due esseri debbano sentirsi come venuti al mondo l’uno per l’altro solo nel primo istante in cui hanno cominciato ad amarsi“.
(Søren Kierkegaard, da “Diario di un seduttore“)
Un solo istante. Ma che sia il primo o che si confonda con tutti gli altri che battono le percussioni di una storia, credo abbia poca importanza, perché l’istante è il tempo dell’intuizione, ben più immediato, sottile e diretto della razionalità. Come una freccia che non cede all’attrazione della terra.
“L’intuizione procede nel senso stesso della vita“, scrive Bergson e la sua luce, sia pur fioca ed incerta, “si ravviva, in sostanza, là dove è in gioco un interesse vitale“. E allora “riesce a rompere l’oscurità della notte in cui ci lascia l’intelligenza“.
(Henri Bergson, “L’evoluzione creatrice“)
Chissà che non sia proprio questa luce ad illuminare la risposta alla nostra domanda di partenza. “Come si fa a sapere quando si ama veramente qualcuno?”
Forse l’intuizione rimane impigliata a quell’attimo e tutto il resto è solo un intricato labirinto costruito dalla nostra mente. Vecchi e non risolti dualismi tra ragione e cuore. Senza mai riuscire a stabilire chi abbia ragione.
“Perché ci si innamora? Nulla di più semplice. Ti innamori perché sei giovane, perché stai invecchiando, perché sei vecchio, perché la primavera se ne va, perché comincia l’autunno; perché hai troppa energia, perché sei stanco; perché sei allegro, perché sei contento; perché qualcuno ti ama, perché qualcuno non ti ama… Trovo troppe risposte: forse la domanda non è poi tanto semplice”
(Simone de Beauvoir, da “Quando tutte le donne del mondo“)
Maddalena Vaiani
Foto di Sonia Simbolo