Linguaggi

Metropolis

05.11.2021

“Di certe città conserverai sempre
alcuni angoli di stupore,
frammenti di ricordi,
una strada lastricata di bellezza
e una finestra misteriosa dentro cui avresti voluto guardare.”

Fabrizio Caramagna

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Dal balcone
“Dal balcone dell’ultimo piano ora guardi
la città notturna, l’infilata dei grattacieli che sembrano
una barriera corallina e intorno i vecchi palazzi
con i tetti impolverati, le chiese romaniche, le colonne,
un concilio segreto di secoli che si parlano sottovoce,
sussurrano al tempo di fermarsi e diventano
la scorza staccata dal suo tronco, ciò che resta
dell’infinita moltitudine in cui sei immerso anche tu,
e guardi lì sotto il bar aperto, l’uomo con l’impermeabile
mentre racconta una storia sempre uguale
alla ragazza vestita di rosso che beve
dallo stesso bicchiere e sorride lievemente.”

Milo De Angelis, “Dal balcone”, da “Linea intera, linea spezzata”

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Foto di Sonia Simbolo
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Cerco una strada per il mio nome
“Passeggio per la città della nostra giovinezza
e cerco una strada per il mio nome.
Le strade ampie, rumorose le lascio ai grandi della storia.
Cosa stavo facendo mentre si faceva la storia?
Semplicemente ti amavo.
Cerco una strada piccola, semplice, quotidiana,
lungo la quale, inosservati dalla gente,
possiamo passeggiare anche dopo la morte.
Non importa se non ha molto verde,
e neanche propri uccelli.
È importante che in essa possano trovare rifugio
sia l’uomo che il cane in fuga dalla battuta di caccia.
Sarebbe bello che fosse lastricata di pietra,
ma tutto sommato questa non è la cosa più importante.
La cosa più importante è
che nella strada con il mio nome
a nessuno capiti mai una disgrazia.”

Izet Sarajlic (Kiko),  poeta e filosofo bosniaco, “Cerco una strada per il mio nome”

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L’incudine

“Somiglia ad un’incudine il quartiere,
su cui siamo battuti e modellati
virilmente dai colpi degli oggetti.
è una forgia la vita cittadina
e siamo insaponati dal rumore
e la neve nasconde il malaffare,
poi la nebbia è l’unico pudore,
c’è un po’ di tutto, meno che l’amore.”

Guido Oldani, “L’incudine”

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Tempo spettinato

“Lo stesso odore di tempo spettinato.
Le stessa strade, gli stessi semafori,
la farmacia di fronte, il Caffè dei poeti
solitario come l’aula che oggi mi ha parlato
di te in letteratura. Ed è identico
l’ineffabile tocco della notte sulle spalle
nude al calore del mistero o del verso,
e il modo in cui accorrono i portici ai miei occhi,
la memoria di strade con coppiette lentissime,
mesi, date, banchine, mattinate, che sfiorano
le zagare di quelle notti
che mi sanno ancora tutta loro.
Lo stesso odore di tempo spettinato.
Va affiorando una schiera dorata di lampioni
che fa tremare una briciola
di buio sulle tue labbra. E una bambina
si scioglie in palpiti di là dei tuoi occhi
mentre tu ti intrattieni
a slacciare
la paura.
Quanto silenzio
che si accumula
nel breve spazio da una bocca a un’altra
fino a fondare il bacio. Quanti anni
per scoprire alla fine quanto lontano, sì, quanto lontani
si ritrovano sempre due corpi che si amano.
Tutto quello che mai siamo riusciti a dirci
in quella città d’autunno,
mi parla
col tuo accento di cose per sempre perdute.
E da qualche luogo
forse del disamore, o dell’oblio
di quello che mi ha reso felice, forse, un tempo,
– le tue mani, la tua pelle – mi giunge adesso
un odore di zagare che mi avvolge e che bacia
dolcemente i miei occhi, le mie labbra, un momento,
mentre chiudo il balcone.”

Inmaculada Mengibar, “Tempo spettinato”, da “I giorni feriali”

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All’alba

“All’alba dai finestrini del treno vedevo città
disabitate, spopolate dal sonno,
aperte e indifese come grandi
animali sdraiati sul dorso.
Per le vaste piazze camminavano
solo i miei pensieri e un vento freddo,
sulle torri perdevano i sensi bandiere di lino,
nelle chiome degli alberi si svegliavano gli uccelli,
nelle folte pellicce dei parchi scintillavano
occhi di gatti selvatici,
nelle vetrine dei negozi si specchiava
la timida luce del mattino, eterno debuttante,
le giostre, finalmente assorte,
pregavano il loro invisibile centro,
i giardini fumavano come le rovine di Varsavia,
e alle mura brune del macello
ancora non era arrivato il primo camion.
All’alba le città non sono di nessuno,
non hanno nomi
e neppure io ho un nome,
sul far del giorno, quando svaniscono le stelle
e il treno corre sempre più veloce.”

Adam Zagajewski, “All’alba”

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I nomi delle strade

“Al strèdi a gli è
tóti ad Mazzini, ad Garibaldi
a gli è di pépa
ad quei chi scréiv,
chi dà di cmand, chi fa la guèra.

E mai ch’u t’capita d’avdéi
vea d’éun che féva i brétt
vea d’éun che stéva sòta un zrìs
vea d’éun ch’u n’ à fatt gnént
parchè l’andeva a spàss
s’ una cavala.

E pansè che e’ mònd
l’è fatt ad zénta cume mè
ch’l’a magna i radécc
ma la finèstra
cunténta ad stè l’instèda
si pii néud”

(“Le strade sono tutte di Mazzini, di Garibaldi, sono dedicate ai papi a quelli che scrivono a coloro che danno ordini, che fanno la guerra. Mai che accada di vedere la via di qualcuno che confezionava cappelli la via di uno che stava sotto un ciliegio la via di chi non ha fatto nulla perché andava a zonzo sopra una cavalla. E pensare che il mondo è fatto di gente come me che mangia il radicchio alla finestra contenta di stare, in estate, con i piedi nudi.”)

Nino Pedretti, “I nomi delle strade”

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Psiche in moto

 

“Vengono giorni in cui sola salvezza è mescolarsi
al profluvio di gente che riempie le strade fino all’orlo.
Camminare, camminare – avido di volti come sei,
aprire un varco nella densità del traffico.
La città: reparto psichiatria a porte aperte. In incognito
porti ciò che solo tu puoi portare, il carico
della tua psiche. Piacevole sensazione di vuoto.
Ci sei, non ci sei – tu, come chiunque altro.

La solitudine era materia condivisa
e dai tempi della scuola somma insidia: matematica.
L’esercizio di rendersi invisibile,
crudele addestramento che guariva ogni baldanza.
Il rimedio: camminare, camminare. Partiva dal cervello, dalla nuca,
il moto attraverso la città in gironi concentrici.”

Durs Grünbein, “Psiche in moto”

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La mia interiorità

“La mia interiorità
è l’intreccio di queste strade
di nuovo ero una città
ieri ero Belgrado
oggi Buenos Aires
domani un punto cancellato
su una logora mappa
ora
scandisco il tempo
attraverso il rumore della strada”

Nadija Rebronja (poetessa serba)

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Le cento città
“Ognuno ha le sue prigioni, mentali, fisiche.
Ognuno ci convive.
Ma quando le pareti cominciano a restringersi, le facce diventano anonime.
Quando lo specchio comincia a darti del tu
quando i marciapiedi ti provocano vertigini e la strada sembra il tuo tappeto rosso
metti insieme il tuo bagaglio.
Riempilo di ricordi, speranze, parole, storie vissute e storie da vivere
riempilo di emozioni, musiche, liti, illusioni d’epoca, domande e risposte.
Trovati un amico e comincia la condivisione, l’esplorazione.
Vai a caso, lascia le tue lacrime sul cuscino, incontrati con la vita, scontrati con il dolore ruba l’amore.
Non avere una meta ma cento, prova a ritornare perché il ritorno dà senso al viaggio.
Pensa a Polifemo e alla sua solitudine e rispetta la solitudine altrui.
Gira intorno al mondo non girare con lui.
Affrancati da te stesso e dall’attesa.
Per amare la vita bisogna tradire le aspettative.
Guardati intorno e guardati da chi si professa libero.
Il sapore della libertà è la paura.
Solo chi ha paura della libertà ha il coraggio di inseguirla.”
Vincenzo Costantino (Chinaski), “Le cento città”
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Foto di Gennady Blohin
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Città vecchia
“Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.
Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore.
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.”
Umberto Saba, “Città vecchia”, da “Canzoniere”, 1910
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Foto di Trent Parke
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A Cesena
“Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.
Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia della casa senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava.
Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,
il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella la tua vita, bella,
bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;
so che quell’uomo è il suocero dabbene
che dopo il lauto pasto è sonnolente,
il babbo che ti vuole un po’ di bene…
«Mamma!» tu chiami, e le sorridi e vuoi
ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,
che le parli dei miei vïaggi, poi…
poi quando siamo soli (oh come piove!)
mi dici rauca di non so che sfida
corsa tra voi; e dici, dici dove,
quando, come, perché; ripeti ancora
quando, come, perché; chiedi consiglio
con un sorriso non più tuo, di nuora.
Parli d’una cognata quasi avara
che viene spesso per casa col figlio
e non sai se temerla o averla cara;
parli del nonno ch’è quasi al tramonto,
il nonno ricco, del tuo Dino, e dici:
«Vedrai, vedrai se lo terrò di conto»;
parli della città, delle signore
che già conosci, di giorni felici,
di libertà, d’amor proprio, d’amore.
Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,
sono a Cesena e mia sorella è qui
tutta d’un uomo ch’io conosco appena.
tra nuova gente, nuove cure, nuove
tristezze, e a me parla… così,
senza dolcezza, mentre piove o spiove:
«La mamma nostra t’avrà detto che…
E poi si vede, ora si vede, e come!
sì, sono incinta… Troppo presto, ahimè!
Sai che non voglio balia? che ho speranza
d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome…
Ho fortuna, è una buona gravidanza…».
Ancora parli, ancora parli, e guardi
le cose intorno. Piove. S’avvicina
l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.
E l’anno scorso eri così bambina!”
Marino Moretti, “A Cesena”, da “Poesie scritte col lapis”, 1910
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A un passo da loro
“Sono in pausa pranzo, così
me ne vado a zonzo fra gialli taxi
ronzanti. Prima, giù per il marciapiede
dove gli operai si inzeppano il torso nudo
lercio e lucido di Coca-Cola
e tramezzini, con gli elmetti gialli
sulla testa. Buon riparo dai mattoni
vaganti, credo. Poi, su per l’Avenue
dove le sottane scattano sui tacchi e
svolazzano al getto d’aria delle grate.
Scotta il sole, ma i taxi mettono tutta
l’aria in subbuglio. Mi saltano agli occhi
i saldi degli orologi da polso. Tra
la segatura ci giocano dei gatti……..A diritto
fino a Times Square dove l’insegna
luminosa mi sputa fumo in testa, e più su
piovono le luci a cascata. Nello sgancio
di un portone c’è un negro con il suo
stuzzicadenti, se lo rigira con languore.Gli ammicca una biondina di fila: lui
sorride grattandosi il mento. D’improvviso
tutto strombazza attorno: è mezzogiorno
e quaranta di un giovedì……..Che piacere di giorno
la luce al neon, per dirla con Edwin Denby,
e così le lampadine accese di giorno. Mi fermo
a farmi un cheeseburger al JIULIET’SCORNER. Giulietta Masina, moglie di
Federico Fellini, è bell’attrice.
E cioccolato al malto. In un giorno simile
una signora tutta volpi
monta il barboncino
su un taxi nero…..Oggi è piena di portoricani l’Avenue, e ciò la fa calda e bella.
Prima è morta Bunny, poi John Latouchee Jackson Pollock.
Ma è piena la terra
di loro quanto ne era piena la vita? E uno
va e uno torna da mangiare,
scansa le riviste con le figure porno
e i cartelloni della CORRIDA ei Manhattan Storage Warehouse,
che abbatteranno presto. Un tempo
credevo ci facessero
l’Armory Show…..Un bicchiere di nettare
papaya e via a lavorare. Il cuore
ce l’ho in tasca, Poesie di Pierre Reverdy”
Frank O’Hara, 1956, “A step away from them”, da “Lunch poems”
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Foto di Sonia Simbolo
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Foto di Sonia Simbolo

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