“Ci sentiamo sempre più giovani di quel che siamo. Mi porto dentro i miei volti precedenti, come un albero contiene i suoi anelli. Io sono la loro somma. Lo specchio vede solo il mio ultimo volto, ma io sono anche tutti quelli precedenti. I ricordi mi scrutano -un mattino di giugno- troppo presto per svegliarsi, troppo tardi per riprendere sonno. Come quando un uomo è così immerso in un sogno che mai, ritornato al suo spazio, ricorderà l’esserci stato. E nelle profondità della terra, scivola silenziosa l’anima come una cometa”.
Tomas Tranströmer
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Lu tempu e la storia
Bartolo Cattafi, “Niente”, da “Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi”
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La storia
Eugenio Montale, “La storia”, da “Satura”, 1971
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Eugène Delacroix, “La liberta che guida il popolo”, 1830
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Ah, sí, quante battaglie, eroismi, ambizioni, superbie senza senso
“Ah, sí, quante battaglie, eroismi, ambizioni, superbie senza senso,
sacrifici e sconfitte e sconfitte, e altre battaglie, per cose
che ormai erano state decise da altri in nostra assenza. E gli uomini, innocenti,
a infilarsi le forcine negli occhi, a sbattere la testa
contro il muro altissimo, ben sapendo che il muro non cede
né men si fende, per consentirgli di vedere almeno da una fessura
un po’ di azzurro non offuscato dalla loro ombra e dal tempo. Eppure – chissà –
là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia
la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo
tra ferri arrugginiti e ossi di tori e di cavalli,
tra antichissimi tripodi su cui arde ancora un po’ d’alloro
e il fumo sale nel tramonto sfilacciandosi come un vello d’oro.”
Ghiannis Ritsos, da “Elena”, in “Quarta dimensione”
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Sui grandi uomini
“Sui grandi uomini sempre esistono dettagli
che si occultano in testi e biografie
affinché i genitori non cedano allo scandalo
nel pensare che i figli arrivino a conoscerli.
Alessandro fu un pessimo alunno di Aristotele
Diogene fabbricò monete false
Cesare usò parrucche e vestiva da donna
Carlo Magno era un grande maneggione
Alfonso il Savio divise l’amante con il re di Murcia
Petrarca ebbe due figli da madre sconosciuta
Colombo lavorò a percentuale e mai fu molto chiaro con i conti
Caterina la Grande era leggera nei giudizi politici
George Washington speculò sui terreni in Virginia
Marx non riuscì a nascondere certi tratti da avaro
Victor Hugo fu un uomo miserabile
Wagner davvero odiava follemente gli ebrei
Einstein fu un apprensivo in fatto di alimenti
e Martin Luther King non fu così negro come adesso si dice.
Molti bimbi così la smetterebbero di odiare i grandi uomini
osservandone i tratti e i costumi di tipi normalissimi.”
José Augustin Goytisolo, “Sui grandi uomini”
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Reperto meraviglioso
“Per gli incolori
che non hanno canto
neppure il grido,
per chi solo transita
senza nemmeno raccontare il suo respiro,
per i dispersi nelle tane, nei meandri
dove non c’è segno, né nido,
per gli oscurati dal sole altrui,
per la polvere
di cui non si può dire la storia,
per i non nati mai
perché non furono riconosciuti,
per le parole perdute nell’ansia
per gli anni che nessuno canta
essendo solo desiderio spento,
per le grandi solitudini che si affollano
i sentieri persi
gli occhi chiusi
i reclusi nelle carceri d’ombra
per gli innominati,
i semplici deserti:
fiume senza bandiere senza sponde
eppure. eterno fiume dell’esistere.”
Pietro Ingrao, “Eppure”, da “L’alta febbre del fare”
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Vengo da lontano
“Vengo da lontano,
ma non mancherò quel giorno,
Vengo dalle frontiere dell’uomo,
conosco le sue virtù estreme
e le sue estreme miserie,
nulla mi stupisce
e tutto mi sorprende.
Io stesso ho camminato a lungo
per i lunghi corridoi del buio,
spesso
colpevolmente smarrito
in facili labirinti.
Non mancherò quel giorno.
Vengo dal coniugare il verbo del silenzio,
conosco a memoria
i suoi più nascosti orizzonti.
Ho vissuto a fondo calma e tempesta,
sono stato bersaglio dei suoi fulmini,
vengo da un tempo dove amore e rabbia
si incontravano sovente nelle mani.
Non mancherò quel giorno,
in questo transito scolpito in me
l’urlo silenzioso degli assenti, e
ultimamente
la solitudine
troppo spesso mi attanaglia.
Ma non mancherò quel giorno,
la mano aperta
pronta per stringere un’altra,
quanto mai presente
io
non mancherò quel giorno
né a nessun altro.”
Egidio Molinas Leiva, da “Non mancherò”
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Oceano nuziale
“Questa storia comincia molto prima di noi.
Ci sono volute età di dolore e d’oro,
di pietra e di acqua antica, glaciazioni,
battaglie e lamenti, secoli, soffi,
una sera di marzo all’Isla Negra,
caverne, vulcani, libri, guerre, aquile,
stelle, formiche, ponti, labbra, tunnel,
poesie, caramelle, Carmen, rose
che Luis rubava per regalarle a te.
Ci sono voluti mari manoscritti,
madri che ci hanno allattato, tempeste,
tori di neve, navi, nubi, foglie
che cadono al suolo in un giardino in Cile
quando nessuno le vede,
miserie e miracoli, per giungere qui,
sulle sponde di questo oceano nuziale,
del vostro amore che sta ricominciando.
Ci sono volute, persino,
cose che non c’era bisogno che accadessero:
tiranni, per esempio,
che non sanno, poverini, che l’amore li tollera e li usa per diventare più forte,
e che laddove seminano la loro impotenza,
il seme putrefatto del non posso,
la vita riesce a far crescere, nella sua pazienza,
la rosa regalata del sì voglio.
Questa storia comincia molto prima di noi,
e non ha fine.
Ci è mancato poco che non accadesse, e tuttavia
è accaduta, siamo qui, a battezzarci
nelle acque benedette
del vostro nostro oceano nuziale.
Oggi la vita è un sì. Ha senso.
L’amore, come il mare, non dorme mai.
E la marea cresce anche se nessuno la guarda.
Avete attraversato anni, paesi, pagine
per arrivare qui. E tanti auguri.”
Juan Vicente Piqueras, “Oceano Nuziale”, in “Vigilia di restare”
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La memoria è un remoto quando
“La memoria è un remoto quando
(quando ti conobbi, quando te ne andasti)
o imperfetto
(quando eravamo piccoli,
quando eri con me).
Nel desiderio siamo ancora più quando
(quando tornerai,
quando sarà il momento,
quando arriverà),
siamo subordinati e senza protezione…
Soltanto quando dormo il quando s’addormenta.”
Juan Vicente Piqueras
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Orfani
“Siamo orfani di cultura
quando non ci insegnano ad amarla,
siamo orfani di terra
se si ostinano a nascondercela
siamo orfani di mare
se chi ci ha preceduto
non l’ha saputo preservare
siamo orfani quando la nostra storia viene cancellata
o manomessa
e non c’è più nessuno che la tramanda
siamo orfani di patria
quando costretti ad andar via
diventiamo migranti ma dentro restiamo orfani
orfani di noi stessi.”
Fiorenza Mongelli, “Orfani”
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La preghiera dell’alba
“Fa miracoli questo albeggiare.
Scrive la sua pagina di luce
sul quaderno scuro della notte.
Annulla la nostra disperazione,
assolve la nostra follia,
accerta che il mondo
non si è dissolto nelle tenebre
come abbiamo temuto
a partire da quella sera in cui,
da una caverna della preistoria,
osservammo per la prima volta il crepuscolo.
Ieri non resuscita.
Quello che è dietro non conta.
Quel che vivemmo già non è più
L’alba ci consegna la prima ora
la prima ora di un’altra vita.
La sola nostra verità
è il giorno che comincia.
José Emilio Pacheco Berny (scrittore e poeta messicano), “La preghiera dell’alba”
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Ho visto sulla neve
“Ho visto sulla neve
un cervo preso in trappola.
Ho visto sullo stagno
un annegato galleggiare.
Ho visto sulla spiaggia
una dura conchiglia.
Ho visto sulle acque
i tremolanti uccelli.
Ho visto nelle città
dei servili dannati.
Ho visto nella pianura
il polverone dell’ odio.
Ho visto sul mare
il sole amaro.
Ho visto nello spazio
questo secolo che passa.
Ho visto nei cieli
degli occhi impenetrabili.
Ho visto nella mia anima
la cenere e la fiamma.
Ho visto nel mio cuore
un nero dio vincitore.”
Marguerite Yourcenar, da “I Doni di Alcippe”
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Foto tratta dal web
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“Non arrivavano in molti fino a trent’anni.
La vecchiaia era un privilegio di alberi e pietre.
L’infanzia durava quanto quella dei cuccioli di lupo.
Bisognava sbrigarsi, fare in tempo a vivere
prima che tramontasse il sole,
prima che cadesse la neve.
Le genitrici tredicenni,
i cercatori quattrenni di nidi fra i giunchi,
i capicaccia ventenni –
un attimo prima non c’erano, già non ci sono più.
1 capi dell’infinito si univano in fretta.
Le fattucchiere biascicavano esorcismi
con ancora tutti i denti della giovinezza.
Il figlio si faceva uomo sotto gli occhi del padre.
Il nipote nasceva sotto l’occhiaia del nonno.
E del resto non si contavano gli anni.
Contavano reti, pentole, capanni, asce.
Il tempo, così prodigo con una qualsiasi stella del cielo,
tendeva loro la mano quasi vuota,
e la ritraeva in fretta, come dispiaciuto.
Ancora un passo, ancora due
lungo il fiume scintillante,
che dall’oscurità nasce e nell’oscurità scompare.
Non c’era un attimo da perdere,
domande da rinviare e illuminazioni tardive,
se non le si erano avute per tempo.
La saggezza non poteva aspettare i capelli bianchi.
Doveva vedere con chiarezza, prima che fosse chiaro,
e udire ogni voce, prima che risonasse.
Il bene e il male –
ne sapevano poco, ma tutto:
quando il male trionfa, il bene si cela;
quando il bene si mostra, il male attende nascosto.
Nessuno dei due si può vincere
o allontanare a una distanza definitiva.
Ecco il perché d’una gioia sempre tinta di terrore,
d’una disperazione mai disgiunta da tacita speranza.
La vita, per quanto lunga, sarà sempre breve.
Troppo breve per aggiungere qualcosa.”
Wislawa Szymborska, “La breve vita dei nostri antenati”
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Scorcio di secolo
“Doveva essere migliore degli altri il nostro XX secolo.
Non farà più in tempo a dimostrarlo,
ha gli anni contati,
il passo malfermo,
il fiato corto.
Sono ormai successe troppe cose
che non dovevano succedere,
e quel che doveva arrivare
non è arrivato.
Ci si doveva avviare verso la primavera
e la felicità, fra l’altro.
La paura doveva abbandonare i monti e le valli,
la verità doveva raggiungere la meta
prima della menzogna.
Certe sciagure
non dovevano più accadere,
ad esempio la guerra
e la fame, e così via.
Doveva essere rispettata
l’inermità degli inermi,
la fiducia e via dicendo.
Chi voleva gioire del mondo
si trova di fronte a un compito
irrealizzabile.
La stupidità non è ridicola.
La saggezza non è allegra.
La speranza
non è più quella giovane ragazza
et caetera, purtroppo.
Dio doveva finalmente credere nell’uomo
buono e forte,
ma il buono e il forte
restano due esseri distinti.
Come vivere? – mi ha scritto qualcuno
a cui io intendevo fare la stessa domanda.
Da capo e allo stesso modo di sempre,
come si è visto sopra,
non ci sono domande più pressanti
delle domande ingenue”.
Wisława Szymborska, “Scorcio di secolo”
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Dove comincia la mia memoria?
“Trascorsi più
di cinquecento anni
e te lo dice un poeta delle Asturie
libero quindi da ogni colpa
se qualcosa sembra essere stato dimostrato
oltre ogni ragionevole dubbio
è questo:
sia sul ponte
quanto nelle stive di carico
ma anche nelle cabine degli ufficiali e dell’equipaggio
la sola cosa che trasportavano
quelle tre caravelle
che venivano dal vecchio mondo
era proprio questo:
un vecchio mondo
con uno ad uno
tutti i suoi relitti:
(ogni nazione teme
siano svelate le verità di ciò che ha fatto ad altre:
Charles Simić)”
David Gonzales, “Il vecchio mondo”
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Come si fa
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Amedeo Bocchi, “L’esodo”
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Quest’anno è come l’anno di mille anni fa
“Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
noi portiamo la brocca e sferziamo la schiena della vacca,
falciamo e non sappiamo nulla dell’inverno,
beviamo mosto e non sappiamo nulla,
presto saremo dimenticati
e i versi svaniranno come neve davanti alla casa.
Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
volgiamo lo sguardo nel bosco come nella stalla del mondo,
mentiamo e intrecciamo cesti per mele e pere,
dormiamo mentre le intemperie consumano
davanti alla porta le nostre scarpe infangate.
Quest’anno è come l’anno di mille anni fa,
non sappiamo nulla,
non sappiamo nulla del declino,
delle città sprofondate, del vortice in cui sono affogati
cavalli e uomini.”
Thomas Bernhard, da “Sotto il ferro della luna”
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Come vanno le cose
“È tutto tranquillo. Non è successo niente.
L’errore di scoprire il mondo lo rimpiangiamo da un pezzo.
Ogni colpo di vanga, ogni osso ritrovato, ogni speranza dissepolta:
la loro inefficacia è dimostrata da un pezzo. Le rovine
si edificano su progetto, anche questa una vecchia soluzione per dopo.
Sulle macerie artificiali abitano famiglie, accanite
a distribuire foto a colori: istantanee senza garanzia.
Si parlava di una piccola lista di obiezioni,
ridicolaggini, non mette conto di parlarne: non mette conto
comunque d’interrompere gli altri.
Tutto è tranquillo. Non è successo niente.
Le piccole ferite sanguinano come al solito, i ritardi
non hanno motivo. In altre parole, in altro modo,
detto altrimenti: il caso ne esce di nuovo vittorioso,
la ragione è battuta: nemmeno questo
le si vede addosso. Il suo profilo si è fatto più morbido
da quando parla solo di se stessa, i suoi occhi sono
più accademici, ogni sua uscita è facilmente scusabile.
È uno spasso diabolico starla a guardare: le soavi
drammatizzazioni della sua indifferenza.
È tutto tranquillo. Non è successo niente.
I sentimenti si sono fatti meno vistosi, era da aspettarselo, l’odio,
si è mutato in invidia. Non vi eccitate,
niente storie, niente malinconie: il finanziamento dell’apatia
è assicurato. L’export si sta riprendendo. La vita
è ora capace di miglioramento, finalmente
gli sforzi sono valsi la pena. Al museo, indifese,
le timide ambizioni dei passati:
a ognuno si fa chiaro come il sole
su cosa si è infranta la storia.
Non è successo niente. È tutto tranquillo.
L’alfabeto è di nuovo in uso, le tabelline,
il dialogo ha congiuntura. I vecchi cappelli,
le vecchie profezie, i vecchi fenomeni: tutto
sembra nuovo. Ognuno da ieri ha la chiara sensazione
di esserci. Ognuno si presenta bene. Ognuno guarda ognuno
con interesse. Le conversazioni balbettanti
sono ammutolite, tutto scorre, fluisce, gli intimi
deragliamenti non ci sono più. L’oscuro è stato eliminato:
aforismi descrivono il mondo con mortale chiarezza.”
Michael Krüger, “Come vanno le cose”, da “Il coro del mondo” , 2010
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Vicini…solo per poco
“Vicini,
solo per poco,
ci ha posto
l’universo
assegnandoci
con parsimonia
uno scampolo di tempo
sul quale ricamare
una misera manciata
di momenti vissuti
insieme
una matassa di seta
con cui tessere
il drappo incompiuto
della nostra storia
e un filo infinito
che ora unisce me a te.
Dovunque sei.”
Slawka G. Scarso, “Vicini… Solo per poco”
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Ulpiano Checa, “La entrada de los Hunos en Roma”, 1887
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Aspettando i barbari
Sant’Ambrogio
“Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco
Per que’ pochi scherzucci di dozzina,
E mi gabella per anti-tedesco
Perchè metto le birbe alla berlina,
O senta il caso avvenuto di fresco,
A me che girellando una mattina,
Capito in Sant’Ambrogio di Milano,
In quello vecchio, là, fuori di mano.
M’era compagno il figlio giovinetto
D’un di que’ capi un po’ pericolosi,
Di quel tal Sandro, autor d’un Romanzetto
Ove si tratta di Promessi Sposi……
Che fa il nesci, Eccellenza? o non l’ha letto?
Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi,
In tutt’altre faccende affaccendato,
A questa roba è morto e sotterrato.
Entro, e ti trovo un pieno di soldati,
Di que’ soldati settentrïonali,
Come sarebbe Boemi e Croati,
Messi qui nella vigna a far da pali:
Difatto se ne stavano impalati,
Come sogliono in faccia a’ Generali,
Co’ baffi di capecchio e con que’ musi,
Davanti a Dio diritti come fusi.
Mi tenni indietro; chè piovuto in mezzo
Di quella maramaglia, io non lo nego
D’aver provato un senso di ribrezzo
Che lei non prova in grazia dell’impiego.
Sentiva un’afa, un alito di lezzo;
Scusi, Eccellenza, mi parean di sego,
In quella bella casa del Signore,
Fin le candele dell’altar maggiore.
Ma in quella che s’appresta il Sacerdote
A consacrar la mistica vivanda,
Di subita dolcezza mi percuote
Su, di verso l’altare, un suon di banda.
Dalle trombe di guerra uscian le note
Come di voce che si raccomanda,
D’una gente che gema in duri stenti
E de’ perduti beni si rammenti.
Era un coro del Verdi; il coro a Dio
Là de’ Lombardi miseri assetati;
Quello: “O Signore, dal tetto natio”,
Che tanti petti ha scossi e inebriati.
Qui cominciai a non esser più io;
E come se que’ côsi doventati
Fossero gente della nostra gente,
Entrai nel branco involontariamente.
Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello,
Poi nostro, e poi suonato come va;
E coll’arte di mezzo, e col cervello
Dato all’arte, l’ubbíe si buttan là.
Ma cessato che fu, dentro, bel bello
Io ritornava a star, come la sa;
Quand’eccoti, per farmi un altro tiro,
Da quelle bocche che parean di ghiro,
Un cantico tedesco lento lento
Per l’äer sacro a Dio mosse le penne:
Era preghiera, e mi parea lamento,
D’un suono grave, flebile, solenne,
Tal, che sempre nell’anima lo sento:
E mi stupisco che in quelle cotenne,
In que’ fantocci esotici di legno,
Potesse l’armonia fino a quel segno.
Sentía nell’inno la dolcezza amara
De’ canti uditi da fanciullo: il core
Che da voce domestica gl’impara,
Ce li ripete i giorni del dolore:
Un pensier mesto della madre cara,
Un desiderio di pace e d’amore,
Uno sgomento di lontano esilio,
Che mi faceva andare in visibilio.
E quando tacque, mi lasciò pensoso
Di pensieri più forti e più soavi.
Costor, dicea tra me, Re pauroso
Degl’italici moti e degli slavi,
Strappa a’ lor tetti, e qua senza riposo
Schiavi gli spinge per tenerci schiavi;
Gli spinge di Croazia e di Boemme,
Come mandare a svernar nelle Maremme.
A dura vita, a dura disciplina,
Muti, derisi, solitari stanno,
Strumenti ciechi d’occhiuta rapina
Che lor non tocca e che forse non sanno:
E quest’odio che mai non avvicina
Il popolo lombardo all’alemanno,
Giova a chi regna dividendo, e teme
Popoli avversi affratellati insieme.
Povera gente! lontana da’ suoi,
In un paese qui che le vuol male,
Chi sa che in fondo all’anima po’ poi
Non mandi a quel paese il principale!
Gioco che l’hanno in tasca come noi. —
Qui, se non fuggo, abbraccio un Caporale,
Colla su’ brava mazza di nocciuolo,
Duro e piantato lì come un piolo.”
Giuseppe Giusti, “Sant’Ambrogio”, 1845
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Domande di un lettore operaio
“Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò? In quali case,
di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori? Roma la grande è piena d’archi di trionfo. Su chi
trionfarono i Cesari?
La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide
la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando
aiuto ai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare sconfisse i Galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna· pianse, quando la flotta
gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi, oltre a lui, l’ha vinta?
Una vittoria ogni pagina.
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Quante vicende,
tante domande.
Perché nei libri di storia si parla solo dei grandi e mai degli umili?
Perché gli archi di trionfo furono eretti solo ai Cesari e mai ai loro legionari? Sono le masse le vere protagoniste delle
vicende storiche o i singoli uomini, re o condottieri, i cui nomi sono passati alla storia?
Queste domande di un lettore operaio hanno nei versi la risposta: le costruzioni imponenti e le imprese militari, vittoriose o disastrose che siano, non possono essere attribuite ad un uomo solo, ma a quanti di quelle vicende furono protagonisti, anche con compiti umili.”
Bertolt Brecht , “Domande di un lettore operaio”
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Dopo
“Non quelli dentro il bunker,
non quelli con le scorte alimentari, nessuno di città,
si salveranno indios, balti, masai,
beduini protetti dal vento, mongoli su cavalli,
e poi uno di Napoli nascosto nel Vesuvio,
e un ebreo avvolto in uno sciame di parole,
per tradizione illesi dentro fornaci ardenti.
Si salveranno più donne che uomini,
più pesci che mammiferi,
sparirà il rock and roll, resteranno le preghiere,
scomparirà il denaro, torneranno le conchiglie.
L’umanità sarà poca, meticcia, zingara
e andrà a piedi. Avrà per bottino la vita
la più grande ricchezza da trasmettere ai figli.”
Erri De Luca, “Dopo”
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L’estate del ’43
“L’estate del ’43 gli eserciti spediti sulla neve di Russia,
nella sabbia di Egitto, sbandavano all’indietro.
La guerra dei fascismi andava alla malora,
ma una pace: lontana. “Finché non bombardano Roma”,
“Finché non bombardano Roma”, la frase girava a bassa voce,
pericoloso dirla per intero, la milizia aveva cento orecchie,
qualcuna di meno ultimamente, che la guerra falliva.
Finché non bombardano Roma, non finisce.
Strano vaccino per l’epidemia, che razza di siero antiguerra.
Si era ficcato in testa per le città d’Italia
bombardate a martello, prima solo di notte,
poi pure a mezzogiorno, e a Roma niente.
“Ce sta ‘o papa, nun ponno mena’ bbombe ‘ncopp’ o papa”.
A Napoli spiegavano così la malasorte,
la più bersagliata dall’alto dei cieli, e Roma niente.
“‘O papa, ce sta ‘o papa, nun le ponno fa’ niente, sta San Pietro.”
Nel luglio del ’43 il cielo sopra Napoli era un campo di croci con le ali,
altissime passavano e sganciavano,
sopra obiettivo libero, a terra senza allarme,
senza sirena in mezzo alla città.
Sono più avvelenate di terrore le bombe a mezzogiorno.
Di notte è già normale correre al rifugio,m dentro il buio
a ripararsi, ma di giorno è peggio. “Quanno fernesce? Mai?
E il caldo, ‘o calore, d’o mese ‘e luglio d’o ’43”.
Mia madre teneva diciottanni, legati stretti
per non farseli scippare, passava per la piazza
della posta centrale dopo una delle scariche,
e s’accorse che non c’erano le mosche,
erano morte pure quelle per lo spostamento dell’aria.
“Sui corpi scamazzati, scarognati, nun ce steva ‘na mosca.
Nun era manco nu bumbardamento,
ma ‘na dissenteria di bombe, ci cacavano ‘n capa.
E a Roma c’era il cinema, la guerra la sentivano per radio,
la gente la sera usciva, ieva a teatro,
nun le mancava niente. Tenevo diciottanni,
due fratelli nascosti,
i tedeschi fucilavano i guagliuni che non si presentavano”.
“No, ma’, questo è successo dopo, nel settembre,
quando gli americani ancora non entravano
e i tedeschi mettevano le mine in mezzo al golfo.
Stavamo ricordando ‘o mese ‘e luglio”.
“Senza pute’ durmi’ manco ‘na notte,
a sirena sonava doie, tre vote,
andavamo a durmi’ coi panni ‘ncuollo,
manco le scarpe mi toglievo, pronta pe’ n’ ata corsa,
giù per le scale, ‘a sirena int’e rrecchie
che m’afferrava i nervi, spìcciati, presto, curre,
le posate d’argento nella borsa, la ricchezza nostra,
mammà che mi sttrillava dietro: “Piglia i posti buoni”.
C’erano i posti buoni e quelli malamente, comm’a teatro”.
“Finché nun bumbardano Roma, ‘sta guerra fetente nun fernesce.
La milizia mo’ sente e fa finta ‘e nun senti’,
o’ ssape che è fernuta ‘a zezzenella
(lo sa che è finita la pacchia).
‘O fascismo per me è stato ‘a guerra. Tenevo quindicianni,
‘a meglio età, quanno ‘o fascismo s’affacciaie ‘o balcone:
vincere e vinceremo. Se credeva di fa’ ‘na guapparia,
quattro mosse dietro ai tedeschi e subito vinceva.
In capo a qualche giorno a Napoli sentéttemo ‘a sirena,
‘a primma sirena d’allarme. Ancora me la sogno la sirena.
Dentro ai sogni nun m’arricordo ‘e bbombe, ma ‘a sirena.
Tenevo quindicianni all’inizio d’a guerra, ‘a meglio età.
‘O fascismo me l’ha inguaiata fino a diciottanni.
Niente sapevo, niente m’importava, d’a politica,
io vulevo fa’ ammore, uscire colle amiche mie,
ballare, andare al mare. Si m’o ffaceva fa’,
si ‘ o fascismo me faceva campa’, bene per lui e bene pure a me.
Invece niente, s’è arrubbat’a giuventù,
ha mandato a muri’ ‘i meglio guagliuni pe’ na guerra fetente,
se ne futteva ‘e me, ‘e Napule, ‘e l’Italia. Stava a Roma
arriparato sotto ‘a tonaca d’o papa,
a Roma non gli succedeva niente.”
“E com’è stato lo strillo, la voce che hai sentito
all’uscita del ricovero, quel giorno?”
“Sarà stato mezzogiorno, o primo pomeriggio,
nun saccio di’, ce stava ‘o sole, da due ore
schiattavamo ‘e calore int’o ricovero.
Sunaie ‘a sirena di cessato allarme, ascèttemo all’aperto,
tossivo per la polvere alzata dalle bombe,
m’abbruciavano gli occhi per la luce potente dopo il buio,
mezzo stordita m’arrivaie ‘nu strillo: “Roma!
Hanno colpito Roma! Hanno menato ‘e bbombe
‘ncopp’ o papa”.
E doppo ‘ o strillo ne venette n’ato: “E’ ‘m mumento,
fernesce ‘a guerra, mo’ fernesce ‘a guerra”.
La gente usciva dai ricoveri scunfusa, stupetiata,
e tutt’insieme dietro a quello strillo
s’abbracciava, chiagneva, alzava ‘e manne ‘o cielo.
“Fernesce ‘a guerra” e : “Roma bombardata” erano ‘o stesso strillo.
E a me, che manco me pareva overo che puteva fini’,
si gelò il sangue a vedere quella festa
perché Roma era stata bombardata.
Noi che sapevamo che malora era,
ce mettevamo a fa’ chell’ammuìna?
Che t’aggia di’, ‘a guerra è ‘na carogna
e ‘o fascismo ci aveva incarogniti.
Poi uscì la milizia e tutti quanti ce ne tornammo a casa
a senti’ ‘a radio: Roma era stata bombardata
la mattina, da ‘e pparti d’a stazione, no a san Pietro.
E così fu che cadett’ o fascismo.
o’ rre fece arrestare Mussolini
e ‘a ggente se credeva che ferneva tutte cose,
‘a guerra, ‘a carestia, tornava il pane bianco, veneva ‘a libbertà.
Fuie ‘na fantasia, nun era tiempo.
A Napoli finì due mesi dopo, a fine settembre,
‘o popolo s’arrevutaie isso sulo contro i tedeschi,
quattro giorni e tre nottate sane,
al buio in mezzo agli spari, pieni di volontà,
quattro giornate per levarsi gli schiaffi dalla faccia.
Finché non se ne uscirono i tedeschi,
entrarono i guagliuni americani, figli ‘e napoletani d’oltremare.
Cominciò quel po’ di gioventù che mi avanzava.
Mi so’ sposata nel ’46, perciò la gioventù durò tre anni.
E di tutto il fascismo mi rimane il peggio di quell’ora
di festa per Roma bombardata.
Anche se in quella polvere di luglio, ‘ calore, ‘o sudore,
non mi sono abbracciata con nessuno,
è per la gente mia che mi dispiace.
Allora fu normale, perciò chist’è ‘o fascismo pe’ mme,
la fetenzia che ci ha portato a quello, di applaudire.
Ti parlo de ‘sti ccose addolorate pecché tu saie senti’,
ma nun pozzo permettere a nisciuno di voi venuti dopo
di giudicare Napoli in quell’ora,
pecché ‘o fascismo vuie nun ‘o ssapite”.
Erri De Luca, “L’Estate del ’43”, da “L’ospite incallito”, 2008
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Roma, 19 luglio 1943: il bombardamento del quartiere San Lorenzo
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