Linguaggi

Al lavoro

08.11.2021

Io credo nel popolo italiano. È un popolo generoso, laborioso, non chiede che lavoro, una casa e di poter curare la salute dei suoi cari. Non chiede quindi il paradiso in terra. Chiede quello che dovrebbe avere ogni popolo.”

Sandro Pertini, Messaggio di fine anno agli Italiani, 1981

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Elogio dell’ufficio

Un luogo dove stare, essere
ospite, abitare
fuggiasco, viaggiatore.
Dove tenere in ordine le carte,
il mazzo delle biro, il temperino.
Collocare la foto del bambino
quando giocava col trattore.
Un luogo dove essere in orario
e timbrare.
Dover essere, fare
le cose che bisogna fare e poi andare
serenamente a perdersi in un tempo
libero restante, un vuoto
permanente assente.
Il sogno di una cosa fatta,
il compito eseguito,
l’impresa, l’opera
che si conclude al suo inizio: esatta.
Un luogo dove lavorare
ma ogni tanto guardare,
mandare l’occhio alla finestra, astratto.
Un buco anfratto dove stare
nascosto, protetto: un posto
come un altro, luogo
che ti lega ma ti lascia
libero, numero,
la sigla della tua mansione,
semplicemente una funzione.
Uno dei tanti, inesistente.
La gioia che non siamo
niente.

Paola Mastrocola, da “La felicità del galleggiante”

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Guarda come la natura benedetta governa le cose, impara da essa.
“Guarda come la natura benedetta governa le cose, impara da essa.
Chiedi al tuo rapido segugio quando è davvero felice. “Quando inseguo la preda”, ti dirà. E quando è più desiderabile la preda? “Quando la inseguo”, replica il cacciatore.
Guarda il gatto accucciato di fronte a te. Quando è dell’umore migliore? Quando vaga per tutta la notte o si acquatta in una tana. Anche se cattura un topo, il gatto non lo mangia.
Rinchiudi l’ape pur con abbondante scorta di miele: non morirò forse di struggimento durante la stagione in cui può volare per i prati fioriti?
Non c’è nulla di più misero e triste che sguazzare nell’abbondanza soffrendo perché non si ha un lavoro congeniale al proprio talento.
Niente è più insopportabile di una mente annientata dall’ignavia, priva di un lavoro che la esalti.
Nulla, al contrario, è più bello che vivere secondo natura.
Il lavoro del corpo, il dolore del corpo e perfino la morte sono dolci quando l’anima, che signoreggia sul corpo, si diletta in un lavoro che le è congeniale.
In questo modo occorre vivere.”
Hryhorij Savyč Skovoroda (1722-1794), poeta ucraino
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Cesare Marchesini, “Raccolta delle olive”
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Dipplod l’ottico

“– Che cosa vedi adesso?
Globi rossi, gialli, viola.
Un momento! E adesso?
Mio padre, mia madre e le mie sorelle.
Sì! E adesso?
Cavalieri in armi, belle donne, volti gentili.
Prova queste.
Un campo di grano – una città.
Molto bene! E adesso?
Molte donne con occhi chiari e labbra aperte.
Prova queste.
Solo una coppa su un tavolo.
Oh, capisco! Prova queste lenti!
Solo uno spazio aperto – non vedo niente in particolare.
Bene, adesso!
Pini, un lago, un cielo estivo.
Così va meglio. E adesso?
Un libro.
Leggimene una pagina.
Non posso. I miei occhi sono trascinati oltre la pagina.
Prova queste.
Profondità d’aria.
Eccellente! E adesso?
Luce, solo luce che trasforma tutto il mondo in un giocattolo.
Molto bene, faremo gli occhiali così…”

Edgar Lee Masters, da “Antologia di Spoon River”

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I molli

“Son sempre lì a proclamare
che adesso si concentreranno
sul lavoro, che di solito è
dipingere o scrivere.
è noto, naturalmente, che hanno
talento, è solo che… bè…
non hanno ancora avuto
un’occasione.
troppi problemi si son messi
in mezzo: affari andati male, occupazioni per
sbarcare il lunario, figli, malattie, ecc.
ma adesso, proclamano,
penseranno solo a quello.
si concentreranno sul
lavoro,
adesso è finalmente venuto
il momento.
il talento ce l’hanno.
adesso il mondo se ne accorgerà.
sissignore, ci siamo.
questi tizi sono dappertutto.
sempre in procinto
di.
quasi mai cominciano.
e quando lo fanno
s’arrendono subito.
è una sorta di
capriccio.
vogliono la fama.
la vogliono in fretta.
ma non hanno mica fretta
di mettersi al lavoro
sono capaci solo di sognare
e proclamare,
proclamare,
proclamare.”

Charles Bukowski

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Double face
(pensiero all’uscita del turno di notte)
“Guarda le gru di Marghera altissime
e bianche nel buio come radici
di alberi piantati a rovescio
nella terra
dunque questo non è cielo
ma un cielo capovolto questa non è
vita
ma quello che alla vita viene tolto”
Francesco Tomada, “Double face”, da “L’infanzia vista da qui”, 2005
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Foto dal web
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Le pratiche inevase

“Signore, a fare data dal mese prossimo
voglia accettare le mie dimissioni.
E provvedere, se crede, a sostituirmi.
Lascio molto lavoro non compiuto,
Sia per ignavia, sia per difficoltà obiettive.
Dovevo dire qualcosa a qualcuno,
ma non so più che cosa e a chi: l’ho scordato.
Dovevo anche dare qualcosa,
una parola saggia, un dono, un bacio;
ho rimandato da un giorno all’altro. Mi scusi,
Provvederò nel poco tempo che resta.
Ho trascurato, temo, clienti di riguardo.
Dovevo visitare città lontane, isole, terre deserte;
le dovrà depennare dal programma
o affidarle alle cure del successore.
Dovevo piantare alberi e non l’ho fatto;
costruirmi una casa, forse non bella, ma conforme a un disegno.
Principalmente, avevo in animo un libro meraviglioso, caro signore,
che avrebbe rivelato molti segreti, alleviato dolori e paure,
Sciolto dubbi, donato a molta gente
Il beneficio del pianto e del riso.
Ne troverà traccia nel mio cassetto,
in fondo, tra le pratiche inevase;
Non ho avuto tempo per svolgerla.
È peccato, sarebbe stata un’opera fondamentale.”

Primo Levi, “La pratiche inevase”

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Il mio maggio
“A tutti,
a quanti, spossati dalle macchine,
si sono riversati per le strade,
a tutti,
alle schiene sfinite dalla terra
e che invocano una festa,
il primo maggio!
Al primo fra tutti i maggi
andiamo incontro, compagni,
con la voce affratellata nel canto.
E’ mio il mondo con le sue primavere.
Sciogliti in sole, neve!
Io sono operaio,
è mio questo maggio!
Io sono contadino,
questo maggio è mio!
A tutti
A quelli che, scatenata l’ira delle trincee,
si sono appostati in agguati omicidi,
a tutti,
a quelli che dalle corazzate
sui fratelli
hanno puntato le torri coi cannoni,
il primo maggio!
Al primo fra tutti i maggi
andiamo incontro,
allacciando le mani disgiunte dalla guerra.
Taci, ululato del fucile!
Chetati, abbaiare della mitragliatrice!
Sono marinaio,
è mio questo maggio!
Sono soldato,
questo maggio è mio!
A tutte
le case,
le piazze
le strade,
strette dall’inverno di ghiaccio,
a tutte
le fameliche
steppe,
alle foreste,
alle messi,
il primo maggio!
Salutate
il primo fra tutti i maggi
con una piena
di fertilità, di primavere,
di uomini!
Verde dei campi, canta!
Urlo delle sirene, innalzati!
Sono il ferro,
è mio questo maggio!
Sono la terra,
questo maggio è mio!
Vladimir Majakovskij, 1922
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Non è per lodarmi
“Non è per lodarmi
ma io non ho splendore.
Sono un referente per la ruggine
più che un referente per la folgore.
Lavoro arduamente per fare quello che è disnecessario.
Ciò che serve non ha conferma,
quel che non serve, ce l’ha.
Non sarò più un povero diavolo che soffre di nobiltà.
Solo le cose striscianti mi celestano.
Ho una mania per fannullare.
Le violette m’immensano.”
Manoel de Barros (poeta brasiliano), da “Il libro sul nulla”, 2014
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Artigiani siamo: garzoni, muratori, maestri
“Artigiani siamo: garzoni, muratori, maestri
e siamo qui a costruirti, alta navata.
A volte giunge uno straniero cupo,
scintilla per i nostri cento spiriti,
e ci mostra tremando un nuovo appiglio.
Saliamo ponti vacillanti, grevi
martelli nelle nostre mani
finché l’attimo non ci bacia in fronte:
viene da te come il vento dal mare
fulgendo quasi conoscesse tutto.
Allora echeggiano mille martelli
e colpi penetrano la montagna.
Soltanto quando annotta e il tuo profilo –
futuro traspare t’abbandoniamo.”
Rainer Maria Rilke, da “Libro del pellegrinaggio”
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Renato Guttuso, “La vucciria” 1974
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Pizzicheria
“Ettogrammo, chilo, mezzochilo.
Cacio, burro, prosciutto, salame,acciughe, salacche, baccalà…”
Sono voci del gergo
di questo untuoso reame.
“Mi serve o non mi serve?Ho tanta fretta!”
“Aspetti…”
” Mi dia retta.Venga qua”.
S’infuria una servetta,
una s’acqueta.
“Il solito formaggio
ma con poca corteccia”.
E una sicura mano
apre una breccia nel parmigiano.
Molla e tira, tira e molla,
poca corteccia e di molta midolla.
Aver fretta ed aspettare,
pesare tagliare affettare,
entrare andar via…
sono le note costanti
della quotidiana sinfonia
in un’antica pizzicheria.
“Mamma mia!
E che poesia
volete che ci sia
dentro un negozio di pizzicheria?
Se diceste di fiori o seteria…
se aveste detto in quello dell’antichità,
certo ce ne sarà,
ma non in quello lì
venite via,
per carità!
Mio caro, siatene persuaso,
per la fretta che avete di giungere alla mèta
questa volta siete evaso
dal campo del poeta.
Non ce n’è non ce n’è, restate franco”.
Basta, miei cari, basta
che ci vada il poeta dietro il banco.
Le file dei formaggi
l’un sull’altra ammassate,
vi sembrano villaggi,
borgate soleggiate,
coi tetti di lavagna,
le oscure cortecce,
come paesini di montagna.
E nei luoghi più vicini
del panorama,
non vi par di riposare
sui morbidi cuscini
dei pecorini?
O se no di passeggiare
pei verdeggianti viali,
per i verdi giardini del gorgonzola?
Di spiare ai suoi fronzuti finestrini?
Non vi sembra di sognare
dame medioevali
affacciate alle superbe finestre
tonde e ovali
del palazzo dei granduchi:
quello coi buchi?
Tavole regali
di mosaici fini,
bizantini veneziani fiorentini:
soprassate salami salamini,
e la più bella,
quella proprio del re:
la mortadella!
Agate alla portata di tutti
vi sembrano i prosciutti;
e le acciughe, le salacche
dalle lucide corazze,
nei barili allineate,
inginocchiatevi:
sono i guerrieri delle Crociate.”
Aldo Palazzeschi (pseudonimo di Aldo Pietro Vincenzo Giurlani),
“Pizzicheria”, pubblicata per la prima volta sulla rivista futurista “Lacerba”, oggi in “Aldo Palazzeschi. Tutte le poesie”
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Immagine: Renato Guttuso, “Occupazione delle terre incolte in Sicilia”, 1949

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