“Una giovane soldatessa mi ha bloccato chiedendomi della mia bomba e della mia preghiera. Mi sono scusato dicendo: “Non combatto e non prego”. “Perché sei venuto a Gerusalemme allora?”. “Per passare tra la bomba e la preghiera, a destra macerie di guerra, a sinistra macerie di Dio, ma io non combatto e non prego.” “Cosa sei?”. “Un biglietto della lotteria tra la bomba e la preghiera.” “Cosa ci faresti? Cosa faresti se vincessi?”. “Comprerei un colore per gli occhi della mia ragazza.”
Mahmoud Darwish, da “Una Trilogia Palestinese”
*****
Alle nostre case nell’assenza dopo la guerra e l’abbandono
1.
Tristezza è
visitare le rovine di casa tua in sogno
e fare ritorno senza polvere sulle mani
2.
Delicatezza è
innaffiare i fiori appassiti
nel giardino dei vicini
perché quelli di casa tua sono morti secchi sotto le bombe
3.
Distanza è
geografia della sopraffazione
che separa città lontane mille miglia
in una lasci i panni sul filo del bucato
nell’altra tendi la mano al vento
per raccoglierli.
4.
Alla mano sospesa sul campanello della vecchia casa
chi può dire
“Le case non sono di chi le ha lasciate”.
Widad Nabi, “Il luogo è illuminato dal ricordo”
*****
Prendimi per mano, Sara
“Prendimi per mano Sara,
sono cieco, non vedo
ogni volta che dal tuo palmo si leva il profumo dell’erba tostata, mi viene da piangere.
Prendimi per mano, tu che conosci le erbe!
Sono bambino e non so
mi tremano le gambe
quando ti chini su di me
e, senza volere, davanti ai miei occhi oscillano liberi i tuoi seni.
Non conosco la strada per Aleppo
Prendimi per mano Sara,
mia madre dorme
mio padre l’ha preso il fiume
ed io non ho sogni per dormire.
I miei fratelli, i tessitori li hanno portati ad Aleppo.
Mi hanno lasciato qui ad annunciare a mia madre, al suo risveglio, che il fiume ha preso mio padre,
i tessitori hanno preso i miei fratelli
e lei è morta.
Prendimi per mano Sara
è giunta la notte
il fiume, ora, è dietro di noi
ed io non conosco la strada per Aleppo”.
Ghassan Zaqtan, “Prendimi per mano, Sara”, da “Non conosco la strada per Aleppo”
*****
Fotografie di Nino Fezza cinereporter
*****
I bambini dell’Estremadura
“I bambini dell’Estremadura
vanno scalzi
chi ha rubato loro le scarpe?
Li feriscono il caldo e il freddo
chi ha rotto loro i vestiti?
La pioggia
bagna loro il sonno e il letto
chi ha distrutto loro la casa?
Non sanno
i nomi delle stelle
Chi ha chiuso loro le scuole?
I bambini dell’Estremadura
sono seri
Chi è il ladro dei loro giochi?”
Rafael Alberti, “I bambini dell’Estremadura”
*****
L’aria è piena di grida
“Pensi davvero che basti non avere colpe per non essere puniti,
ma tu hai colpe.
L’aria è piena di grida. Sono attaccate ai muri,
basta sfregare leggermente.
Dai mattoni salgono respiri, brandelli di parole.
Ferri di cavalli morti circondano immagini di battaglie
Le trattengono prima che vadano in un futuro senza cornici.
Cosa ci rende tanto crudeli gli uni con gli altri?
Cosa rende alcuni più crudeli di altri?
Le crudeltà subite e poi inghiottite fino a formare una guaina
con aculei sul corpo ferito?
O semplicemente siamo predestinati al male,
e la vita è solo fatta di tregue dove sostiamo
per non odiare e non colpire?”
Antonella Anedda, da “Il balcone del corpo”
*****
Renato Guttuso, “Massacro”, 1942
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Non volevo nomi per morti sconosciuti
“Non volevo nomi per morti sconosciuti
eppure volevo che esistessero
volevo che una lingua anonima
– la mia –
parlasse di molte morti anonime.
Ciò che chiamiamo pace
ha solo il breve sollievo della tregua.
Se nome è anche raggiungere se stessi
nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino.
Non ci sono che luoghi, quelli di un’isola
da cui scrutare il Continente
l’oriente – le sue guerre
la polvere che gettano a confondere
il verdetto: noi non siamo salvi
noi non salviamo
se non con un coraggio obliquo
con un gesto
di minima luce.”
Antonella Anedda, da “Notti di pace occidentale”
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Le madri sono secoli che piangono i figli
“Le madri sono secoli
che piangono i figli
Del loro ventre delle
giornate adoperate
a crescerli: i bimbi
delle guerre hanno
occhi sfaldati
resi cupi dalle botte
del vento dal rumore
dei sassi calpestati
i figli sanno che
la terra li considera
semi: altre voci
verranno e in musica
canteranno per loro
qualcosa.”
Marisa Zoni, da “Tu paria dai mille occhi”
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Ernst Ludwig Kirchner, “Autoritratto da soldato”, 1915
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Confessione (pasquale) resa al capufficio assistenza spirituale
“In nome del Padre-generale, del Figlio-capitano e dello
Spirito di corpo. Confesso di avere slacciato una volta
l’ultimo bottone del cappotto
mia colpa mia grandissima colpa
e di avere occultato all’interno la pattina della tasca sinistra.
Diedi scandalo a buoni commilitoni
infilando calzini di servizio in libera uscita
di libera uscita in servizio.
Non ho riverito un Superiore scambiandolo per lombrico.
A migliori lucidature sottrassi le mie scarpe di lumaca
e non sempre nei giorni comandati santificai il Reggimento.
Confesso di avere concepito vasti piani per il tempo libero
e letto libri socialisti.
Invidio i lunghi capelli dell’obiezione.
Rido talvolta – superbia pacifista – della corta gittata
del Winchester (fuciletto dal tiro perfetto) di Leopard
obici e missili stellari.
Non pratico il passo misterico del gatto, né quello impavido
del leopardo o sinuoso del fantasma,
a misura di attacchi e spiate: frequento le piste
dei buoni propositi.
Cresimato soldato da vescovo e commissario di leva,
nutro dubbi sulla prossima guerra
esiterei ad affondare baionette
nel burro corporeo del nemico.
Ho preteso di giudicare agonizzanti mentali,
generali a riposo, il Potentato dell’Eccellenza.
Ma ora mi pento e mi dolgo, mi castro, prolungo la ferma.”
Ennio Cavalli, “Confessione (pasquale) resa al capufficio assistenza spirituale”, da “Carta intestata”
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Dopoguerra
A mia madre
“Portava fanciulla zagare e viole
a San Ravaldino
e andava al mercato per mezz’etti di cose
sognando la posta del biondo guerriero
in Sicilia.
Lunghe le trecce di dolore e pazienza,
come Penelope faceva ricami, coperte
di lana.
Quando scese la notte e la radio
parlò di Messina, udì rompere
a vento di mitraglie le finestre di casa,
come fosse in trincea a sgranare
le avemarie.
Un giorno, fra grida e stendardi,
il suo Ulisse tornò: l’azzurro pioveva
di gioia dentro i tetti scoperti.
Lo portò a casa sua, lo lavò e mangiarono
arance.
Il pomeriggio di quel dopoguerra
usciti a radure di foglie,
su per i colli fermarono le biciclette.”
Ennio Cavalli, “Dopoguerra”, da “Naja tripudians”
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Foto UPI/Bettmann, Getty Images
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Promemoria
“Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola,
a mezzogiorno.
Ci sono cose da far di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte,
né per mare né per terra:
per esempio, la guerra”
Gianni Rodari, “Promemoria”
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Ah, sí, quante battaglie, eroismi, ambizioni, superbie senza senso
“Ah, sí, quante battaglie, eroismi, ambizioni, superbie senza senso,
sacrifici e sconfitte e sconfitte, e altre battaglie, per cose
che ormai erano state decise da altri in nostra assenza. E gli uomini, innocenti,
a infilarsi le forcine negli occhi, a sbattere la testa
contro il muro altissimo, ben sapendo che il muro non cede
né men si fende, per consentirgli di vedere almeno da una fessura
un po’ di azzurro non offuscato dalla loro ombra e dal tempo. Eppure – chissà –
là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia
la storia umana, come la chiamiamo, e la bellezza dell’uomo
tra ferri arrugginiti e ossi di tori e di cavalli,
tra antichissimi tripodi su cui arde ancora un po’ d’alloro
e il fumo sale nel tramonto sfilacciandosi come un vello d’oro.”
Ghiannis Ritsos, da “Elena”
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E la pace, chi ce la insegnerà?
“Da chi abbiamo imparato a odiare ?
Dalle talpe abbiamo imparato a fare i tunnel.
Dai castori abbiamo imparato a costruire le dighe.
Dagli uccelli abbiamo imparato a fare le case.
Dai ragni abbiamo imparato a tessere.
Dal tronco che rotolava giù abbiamo imparato la ruota.
Dal tronco che galleggiava alla deriva abbiamo imparato la nave.
Dal vento abbiamo imparato la vela.
Chi ci avrà mai insegnato le cattiverie?
Da chi abbiamo imparato a tormentare il prossimo e umiliare il mondo?”
Eduardo Galeano, “E la pace, chi ce la insegnerà?”
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Foto di Robert Capa
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La fine e l’inizio
“Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un po’ d’ordine
da solo non si fa.
C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.
C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.
C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.
Non è fotogenico
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.
Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.
C’è chi con la scopa in mano
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.
Ma presto
gli gireranno intorno altri
che ne saranno annoiati.
C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.
Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.
Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con la spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole.”
Wislawa Szymborska, “La fine e l’inizio”
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Alle Tage (Tutti i giorni)
“La guerra non viene più dichiarata,
ma proseguita. L’inaudito
è divenuto quotidiano. L’eroe
resta lontano dai combattimenti.
Il debole
è trasferito nelle zone del fuoco.
La divisa di oggi è la pazienza,
medaglia la misera stella
della speranza, appuntata sul cuore.
Viene conferita
quando non accade più nulla,
quando il fuoco tambureggiante ammutolisce,
quando il nemico è divenuto invisibile
e l’ombra d’eterno riarmo
ricopre il cielo.
Viene conferita
per la diserzione dalle bandiere,
per il valore di fronte all’amico,
per il tradimento di segreti obbrobriosi
e l’inosservanza
di tutti gli ordini.”
Ingeborg Bachmann, “Alle Tage”, pubblicata per la prima volta in una registrazione radiofonica nel 1952 – Traduzione di Maria Teresa Mandalari
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Quando vedrai milioni di morti senza voce
“Quando vedrai milioni di morti senza voce
In pallidi battaglioni passare nei tuoi sogni,
Non dire, come altri han fatto, dolci frasi
Che ricorderai.
Non ti è richiesto.
Non lodarli.
Sordi, come potrebbero capire
Che non sono maledizioni addensate sul loro capo ferito?”
Charles Hamilton Sorely
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Nella foto: uno dei cosiddetti “Battaglioni femminili della morte”, che il governo provvisorio di Kerenskij creò nel 1917, su proposta Marija Leont’evna Bockarëva, per fermare l’invasione austro-tedesca
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L’ultima notte
I
Questo piccolo mondo assassino
È puntato sull’innocente
Gli toglie il pane di bocca
E dà la sua casa alle fiamme
Gli prende le vesti e le scarpe
Gli prende il tempo e i figli
Questo piccolo mondo assassino
Confonde i morti coi vivi
Assolve il fango grazia i traditori
La parola trasforma in rumore
Grazie mezzanotte dodici fucili
All’innocente rendono la pace
E tocca sempre alle folle
Sotterrare quella sua carne
Sanguinosa e il suo cielo nero
E tocca alle folle comprendere
Quanto debole è chi assassina.
II
Il prodigio sarebbe una spinta leggera
Contro questa muraglia
Sarebbe di potere disperdere questa polvere
Sarebbe essere uniti.
III
Gli avevano scarnite vive le mani piegata la schiena
Gli avevano scavato un foro nel cervello
E per morire aveva dovuto patire
Tutta la vita.
IV
Bellezza creata per chi è felice
Bellezza corri pericolo grande
Queste tue mani in croce alle ginocchia
Sono gli ordigni d’un assassino
Questa tua bocca che canta spiegata
Serve di brocca al mendicante
E questa coppa di latte puro
Diventa il seno d’una puttana.
V
Nel rigagnolo i poveri raccoglievano il pane
Con lo sguardo coprivano la luce
Non c’era più paura della notte
Tanto deboli quella debolezza
Li faceva sorridere
In fondo al loro buio si portavano i corpi
Si vedevano solo attraverso la miseria
Si scambiavano solo una lingua segreta
E udivo lentamente cautamente parlare
Di un’antica speranza grande come la mano
Udivo calcolare
Le dimensioni multiple della foglia d’autunno
La fusione dell’onda in mezzo al mare calmo
Udivo calcolare
Le dimensioni multiple della forza futura.
VI
Io sono nato dietro una facciata orrida
Ho mangiato ho riso ho sognato ho patito vergogna
Sono vissuto come un’ombra
Eppure il sole ho saputo cantarlo
Il sole intero quello che respira
In ogni petto in ogni occhio
La goccia di candore che brilla dopo il pianto.
VII
Noi buttiamo nel fuoco il sacco delle tenebre
Noi spezziamo i serrami di ruggine dell’ingiustizia
Ecco uomini vengono
Che non hanno piú paura di se stessi
Perché sono sicuri d’ogni uomo
Perché il nemico dal viso d’uomo sparisce.”
Paul Éluard, “L’ultima notte”, 1953
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Foto di Dario Mitidieri
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La guerra è dichiarata
«Edizione della sera! Della sera! Della sera!
Italia! Germania! Austria!»
E sulla piazza, lugubremente listata di nero,
si effuse un rigagnolo di sangue purpureo!
Un caffè infranse il proprio muso a sangue,
imporporato da un grido ferino:
«Il veleno del sangue nei giuochi del Reno!
I tuoni degli obici sul marmo di Roma!»
Dal cielo lacerato contro gli aculei delle baionette
gocciolavano lacrime di stelle come farina in uno staccio,
e la pietà, schiacciata dalle suole, strillava:
«Ah, lasciatemi, lasciatemi, lasciatemi!»
I generali di bronzo sullo zoccolo a faccette
supplicavano: «Sferrateci, e noi andremo!»
Scalpitavano i baci della cavalleria che prendeva commiato,
e i fanti desideravano la vittoria-assassina.
Alla città accatastata giunse mostruosa nel sogno
la voce di basso del cannone sghignazzante,
mentre da occidente cadeva rossa neve
in brandelli succosi di carne umana.
La piazza si gonfiava, una compagnia dopo l’altra,
sulla sua fronte stizzita si gonfiavano le vene.
«Aspettate, noi asciugheremo le sciabole
sulla seta delle cocottes nei viali di Vienna!»
Gli strilloni si sgolavano: «Edizione della sera!
Italia! Germania! Austria!»
E dalla notte, lugubremente listata di nero,
scorreva, scorreva un rigagnolo di sangue purpureo.
Vladimir Vladimirovič Majakovskij, “La guerra è dichiarata”, da “La guerra e l’universo”
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Immagine presa dal web
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Lamento del mercante d’armi
“Ho venduto un pezzo di cannone
poi le ruote e un altro pezzo di cannone
la culatta e l’otturatore
il mirino e un altro pezzo di cannone
e altri tre pezzi di cannone
e adesso c’è uno in televisione
che dice che mi spara col mio cannone
chi lo sapeva che coi pezzi di cannone
avrebbe fatto un cannone?
Se lo avessi saputo
mica avrei accettato l’ordinazione.
Ho venduto cento elicotteri
con relativo armamento
e un sistema puntamento missili
e un sistema anti-sistema di puntamento
adesso l’elicottero è lì che spia
come un falco sopra casa mia
Se lo avessi saputo cosa voleva fare
non gli avrei venduto la testata
nucleare
era così distinto, un vero signore
chi poteva sapere che era un dittatore?
Se avessi saputo che un cliente
può diventare un nemico
della mia patria
dell’Occidente
vi giuro gente
lo giuro sui figli
lo giuro su Gesù
gli avrei fatto pagare
il cinquanta per cento in più
Da qui si vede
la mia buona fede.”
Stefano Benni, “Lamento del mercante d’armi”
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Mario Sironi, “Sarabanda finale-Il Montello”1918
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San Martino sul Carso
“Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
È il mio cuore
Il paese più straziato”
Giuseppe Ungaretti, “San Martino sul Carso”, 1916
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Inno sotto i carri armati
“Nessuna fiaba muore
e non è morta,
più forte canta sotto i carri armati
tutto quello che amai.
Gridano le immense spaccature,
geme la terra colpita,
scivola sulle vetrate
ritrovata l’umana sembianza.”
Maria Banuș (poetessa e saggista rumena), “Inno sotto i carri armati”
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Guerra
“O uomo sconciato come una fossa
in te si lavano le mani i servi,
i servi del delitto
che ti cambiano veste parola e udito
che ti fanno simile a un fantasma dorato.
Viscidi uccelli visitano le tue dimore
sparvieri senza volto
ti legano i polsi alle vendette
degli altri
che vogliono dissacrare il Signore.
O guerra, portento di ogni spavento
malvagità dal suolo di nessuno
non hai udito né ombra :
sei un mostro senza anima che mangia
la soglia
e il futuro dell’ uomo.”
Alda Merini, “Guerra”
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Alle fronde dei salici
“E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.”
Salvatore Quasimodo, “Alle fronde dei salici”, 1946
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Uomo del mio tempo
“Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.”
Salvatore Quasimodo, “Uomo del mio tempo”, da “Giorno dopo giorno”, 1947
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Non abituarsi mai alla violenza indicibile
“Essere pienamente vivi nel nostro mondo così com’è.
Mettersi vicino a coloro per i quali questo mondo è diventato intollerabile e ascoltarli.
L’unico sogno che vale la pena di vivere è vivere finché si è vivi
e morire solo quando si è morti.
Cosa significa esattamente?
Amare. Essere amati.
Non dimenticare mai la propria insignificanza.
Non abituarsi mai alla violenza indicibile
e alla volgare disparità della vita che ci circonda.
Cercare la gioia nei luoghi più tristi,
inseguire la bellezza là dove si nasconde.
Non semplificare mai quello che è complicato
e non complicare quello che è semplice.
Rispettare la forza, mai il potere.
Soprattutto osservare. Sforzarsi di capire.
Non distogliere mai lo sguardo.
E mai, mai dimenticare.”
John Berger, “Non abituarsi mai alla violenza indicibile”, da “Modi di vedere”
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Abel Pann, “Civili in armi
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I bambini giocano
“I bambini giocano alla guerra.
È raro che giochino alla pace
perché gli adulti
da sempre fanno la guerra.
Tu fai “pum” e ridi.
Il soldato spara
e un altro uomo
non ride più.
È la guerra.
C’è un altro gioco
da inventare:
far sorridere il mondo,
non farlo piangere.
Pace vuol dire
che non a tutti piace
lo stesso gioco,
che i tuoi giocattoli
piacciono anche
agli altri bimbi
che spesso non ne hanno,
perché ne hai troppi tu,
che i disegni degli altri bambini
non sono dei pasticci,
che la tua mamma
non è solo tutta tua,
che tutti i bambini
sono tuoi amici.
E pace è ancora
non avere fame,
non avere freddo,
non avere paura.”
Bertolt Brecht, “I bambini giocano”, 1898
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Ecco gli elmi dei vinti, abbandonati
“Ecco gli elmi dei vinti, abbandonati
in piedi, di traverso o capovolti.
E il giorno amaro in cui voi siete stati
vinti non è quando ve li hanno tolti,
ma fu quel primo giorno in cui ve li
siete infilati senza altri commenti,
quando vi siete messi sull’attenti
e avete cominciato a dire sì”
Bertolt Brecht, da “L’ abici della guerra”
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Non ci sono state vittime
“Nessuno lo contò
il piccolo asino fotografato
sotto il titolo.
Un asino bianco
dalla vita legata a rottami
e angurie,
certo se ne stette fermo e tranquillo quando gli fissarono al corpo
la sella di dinamite
poi gli assestarono un colpetto sul didietro
e lo spronarono
con un yalla itla
verso il nemico –
soltanto che allora
in mezzo alla strada
scorse dell’erba verdognola
affiorare da in mezzo alle pietre
a causa della quale deviò dalla trama
per brucare,
appartenente solo a se stesso
nel silenzio ticchettante.
Non è scritto chi sparò:
quanti temevano tornasse indietro
o coloro che rifiutavano di ricevere il regalo
ma quando salì al cielo in un turbine
fu innalzato al grado di messia dell’esplosione
e settantadue asine immacolate
gli leccarono le ferite.”
Agi Mishol (poetessa israeliana)
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Selve troppo oscure
E in quale cerchio ci metteresti
– di un inferno, sì, non ci son dubbi –
o Sommo Poeta, tu che odiavi
gl’ignavi, i codardi e tutti
i seminatori della discordia?
Quale contrappasso per questa nostra
umanità che non ha imparato
nulla e ancora nulla dai suoi
ripetuti errori? Beato te,
che poi sei uscito a rivedere
le stelle. Noi, certo, siamo perduti.
Irene Marchi – 25 marzo 2021
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Chiamata e risposta
“Ditemi perché in questi tempi non leviamo le voci
E diamo l’allarme per quanto sta accadendo. Avete notato
Il programma per l’Iraq lo stanno attuando
E la calotta glaciale se ne sta calando?
Mi dico: “E va bene, urla. A che serve
Essere adulto e non avere voce? Grida!
Vediamo chi risponde! Facciamo chiamata e risposta!
Dovremo chiamare a voce forte per farci sentire
Dai nostri angeli duri d’orecchi e che si nascondono
Negli orci del silenzio colmati durante le nostre guerre.
Il consenso lo abbiamo dato a tante guerre e ora non sappiamo
Sfuggire al silenzio?
Se non leviamo le nostre voci, lasciamo che
Gli Altri (che poi siamo noi) ci svaligino la casa.
Come mai i grandi banditori – Neruda,
Akhmatova, Thoreau, Frederick Douglass – li abbiamo ascoltati e
Ora invece siamo silenziosi come passeri tra i cespugli?
Tra i maestri c’è chi sostiene che la vita duri solo sette giorni.
A che giorno siamo? Siamo già a giovedì?
Affrettatevi, è il momento di urlare! Presto sarà domenica sera.”
Robert Bly, “Chiamata e risposta”
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Quando passeggiamo siamo in tre
“Quando passeggiamo siamo in tre,
Tu, io e la prossima guerra
Quando dormiamo siamo in tre
Tu, io e la prossima guerra
Quando sorridiamo in un momento d’amore siamo in tre
Tu, io e la prossima guerra
Quando aspettiamo nella sala parto siamo in tre
Tu, io e la prossima guerra
Quando bussano alla porta siamo in tre
Tu, io e la prossima guerra
Quando tutto sarà finito sarete di nuovo in tre
la prossima guerra, tu e la mia fotografia”
Moni Ovadia
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Foto di Sir Don McCullin
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È notte…
I
“È notte
e in contemporanea
cadono i colpi
su me, Siria e Baghdad
Mi siedo sul divano
e accendo la dolce tortura
Il notiziario
di me non dice nulla,
il notiziario dà solo notizie
per coprire notizie
È notte
le formiche
spostano l’angoscia della terra
È notte
e io assomiglio più alla guerra
che a mia madre
È notte
e ho gli occhi sanguinanti
come i pozzi di Khorramshahr
È notte
e le nuvole nel cielo
interrano la luna
È notte
e io dovrò
da qualche parte iniziare questa storia:
III
Ci sono ricordi
che non mi lasciano più
Ci sono ricordi
fissati con un chiodo
al mio teschio
Miei amici
si lasciarono cadere
per raccogliere i loro fucili
Miei amici
andarono a morire oltre il confine
Bambini
stringevano il cordone ombelicale
per non nascere
Noi
pregavamo il cielo
e dal cielo
cadevano le bombe
Mio fratello diceva:
bisogna tramontare
non vedi che il sole
sorge ogni mattino
e ogni sera pentito
se ne torna via?
La bellezza è in declino
e delle donne
non resta altro che uomini
Ci siamo sposati con gli uomini
e abbiamo partorito
i deserti
VI
Noi
ci perdiamo per le strade
ci perdiamo per le ambasciate
ci perdiamo per le frontiere
Noi
ci perdiamo
come tralci vaganti sul mare
e non possiamo nemmeno affogare
IX
Le persone
se ne vanno
se ne vanno
se ne vanno
ma non si allontanano
Con quale speranza noi
guardiamo ai nostri orologi
quando il tempo
lavora per la morte?
XV
Sbuccio un’arancia
è vuota
sbuccio una mela
è partita
Soffia il vento
e la luce si stacca dal giorno
Un albero mangia i suoi frutti
un altro sotterra la propria ombra
Un albero è così stanco
che si taglia il tronco
e si mette seduto
Soffia il vento
e il senso si stacca dalla vita
Io fisso il cielo
e il colore rosso che porta in becco
un uccello migratore
mentre si allontana
Io fisso il cielo
la notte
la solitudine
Le due mezzelune
sono di tenebra
XXV
Come può il monte sdraiarsi sul letto,
come può vestirsi?
Come può
mettersi in un angolo
e pietra su pietra
ammassare la solitudine?
*
Molte volte
ho toccato per mano
le mie pietre
molte volte
sono caduto dalle mie rocce
molte volte
mi sono perso nelle mie grotte
Molte volte
mi sono messo al sole
ho seguito i cavalli bianchi
che si scioglievano ai miei piedi
fino ai prati
fino alle steppe
fino a perdere ogni senso
*
Ma tu
mi guardavi dall’altra parte
e scendevi
nelle profondità delle mie voragini
Io ti amo
e il mio cuore è una palude
che inghiotte tutto ciò che ama.”
Garous Abdolmalekian (poeta e saggista iraniano), da “Trilogia del Medioriente, Guerra Amore Solitudine”, 2018
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Foto di Robert Capa, Agosto 1943
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Sono qui
I
Sono qui
che gioco a carte con la notte
e più vinco
più divento oscuro
II
Sono una pantera ferita
torno per estinguermi
tra le tue braccia
III
Dimentica
la mitragliatrice
dimentica
la morte,
pensa alle api
nella piazza minata
in cerca di un ramo fiorito”
Garous Abdolmalekian, da “Nulla è nuovo come la morte”, 2015
*****
La guerra lavora molto
“La guerra
com’è
seria
attiva
e abile!
Sin dal mattino
sveglia le sirene
invia ovunque ambulanze
scaglia corpi nell’aria
passa barelle ai feriti
richiama la pioggia dagli occhi delle madri
scava nel terreno
dissotterra molte cose dalle macerie
alcune luccicanti e senza vita
altre pallide e ancora vibranti.
Suscita più interrogativi
nelle menti dei bambini.
Intrattiene gli dei lanciando
missili e proiettili
in cielo.
Pianta mine nei campi
semina buche e vuoti d’aria
sollecita le famiglie a emigrare
affianca i sacerdoti
quando maledicono il diavolo
(disgraziato, la sua mano è ancora infuocata. Brucia.)
La guerra è inarrestabile, giorno e notte.
Ispira i lunghi discorsi dei tiranni
conferisce medaglie ai generali
e argomenti ai poeti.
Contribuisce all’industria di arti artificiali
fornisce cibo alle mosche
aggiunge pagine ai libri di storia
mette sullo stesso piano vittima e assassino.
Insegna agli innamorati come si scrivono le lettere
insegna alle ragazze ad aspettare
riempie i giornali di storie e fotografie
fa rullare ogni anno i tamburi per festeggiare
costruisce nuove case per gli orfani
tiene occupati i costruttori di bare
dà pacche sulle spalle ai becchini
sorride davanti al capo.
La guerra lavora molto
non ha simili
ma nessuno la loda.”
Dunya Mikhail, poetessa irachena
*****
Guardate che la guerra è in corso
“Guardate che la guerra è in corso,
bombardano da anni nelle nostre case,
non c’è bisogno
che ci arrivi la lettera per andare al fronte.
La guerra è chi muore in mezzo al mare,
la guerra è la televisione
quando è volgare,
i poveri che si battono per i ricchi,
gli ignoranti che diventano statisti.
La guerra ce la fanno i nostri amici
quando non ci danno il loro
e ci tolgono il vostro:
il bene è riconoscere,
il male è non conoscere.
La guerra può venire da un figlio,
da un amante, dal medico
che brutalmente maneggia il nostro cancro.
La terza guerra mondiale
è per spartirsi un briciolo di fama
nell’imbuto dell’autismo corale.
L’arma di sterminio di massa
non è l’atomica, ma la lingua
che ascoltiamo dai governanti
e dai governati, uniti nella lotta
al sacro e alla sapienza.
Ma ancora non hanno vinto,
fra poco crescerà la resistenza,
la letizia di chi non è servo
né padrone,
la comunità della bellezza
e dell’innocenza.”
Franco Arminio
*****
Pablo Picasso, “Guernica”, 1937
*****
Madrid 1937
“In quest’ora ricordo tutto e tutti,
nelle fibre, nel profondo, nelle
regioni che — suono e penna —
battendo un poco, esistono
oltre la terra, ma nella terra. Oggi
comincia un nuovo inverno.
Non v’è in questa città,
dove sta ciò che amo,
non v’è pane, né luce: un vetro freddo cade
su gerani secchi. Di notte sogni neri
aperti da obici, come buoi insanguinati:
nessuno nell’alba delle fortificazioni,
altro che un carro rotto: già muschio, già silenzio di età
invece di rondini nelle case bruciate,
dissanguate, vuote, con porte volte al cielo:
già il mercato sta aprendo i suoi poveri smeraldi,
e le arance, il pesce,
ogni giorno portati attraverso il sangue,
si offrono alle mani della sorella e della vedova.
Città a lutto, scavata, ferita,
rotta, battuta, bucherellata, piena
di sangue e di vetri rotti, città senza notte, tutta
notte e silenzio, e scoppi ed eroi,
ora un nuovo inverno più nudo e più solo,
ora senza farina, senza passi, con la tua luna
di soldati.
A tutto, a tutti.
Sole povero, sangue nostro
perduto, cuore terribile
scosso e piangente. Lacrime come pesanti pallottole
son cadute sulla ma terra scossa col suono
di colombe che cadono, mano che chiude
la morte per sempre, sangue di ogni giorno,
di ogni notte, di ogni settimana e di ogni
mese. Senza parlar di voi eroi addormentati
e svegli, senza parlar di voi che fate tremare l’acqua
e la terra con la vostra volontà insigne,
in quest’ora ascolto il tempo in una strada,
qualcuno mi parla, l’inverno
giunge di nuovo agli alberghi
in cui ho vissuto,
tutto è città ciò che ascolto e distanza
circondata dal fuoco come da una schiuma
di vipere, assalita
da un’acqua d’inferno.
È ormai più di un anno
che i mascherati toccano la tua riva umana
e muoiono al contatto del tuo elettrico sangue:
sacchi di morì, sacchi di traditori,
sono rotolati ai tuoi piedi di pietra: né il fumo, né la morte
han conquistalo i tuoi muri ardenti.
Allora.
che c’è, allora? Sì, sono quelli dello sterminio,
sono i divoratori: ti spiano, città bianca,
il vescovo dalla torbida cervice, i signorini
fecali e feudali, il generale nella cui mano
suonano trenta denari: stanno contro le lue mura
un cinturone di piovigginose beghine,
uno squadrone di ambasciatori putridi
e un triste singhiozzo di cani militari.
Lode a te, lode di nube, di fulmine.
di salute, di spade,
fronte sanguinante il cui filo di sangue
si riflette sulle pietre colpite,
fluire di dolcezza dura,
chiara culla di lampi armata,
cittadella materiale, aria di sangue
da cui nascono api.
Oggi tu che vivi, Juan,
oggi tu che guardi. Pedro, concepisci, dormi, mangi:
oggi nella notte senza luce vigilando senza sonno e senza riposo,
soli nel cemento, per la terra tagliata,
dai luttuosi fili, al Sud, in mezzo, intorno,
senza cielo, senza mistero,
uomini come un collare di cordoni difendono
la città circondata dalle fiamme: Madrid
indomita
per colpo astrale, per commozione del fuoco:
terra e vigilia nell’alto silenzio
della vittoria: scossa
come una rosa rotta: circondata
di alloro infinito!”
Pablo Neruda, “Madrid 1937”
*****
Alle porte di Madrid
“Alle porte di Madrid
Non ascoltare le voci delle sfere dell’aldilà,
né intrecciare nella trama delle righe,
“poesie ermetiche”
né cercare
con pazienza di orafo
rime graziose
e fini espressioni,
stasera, grazie al cielo, io sto più su.
di tutto ciò.
Stasera io
sono un cantastorie di strada.
La mia voce è semplice, senza artifici,
e tu
non puoi udire la mia canzone…
È notte.
Nevica.
Tu sei alle porte di Madrid.
Davanti a te hai l’armata dei nemici,
che è venuta per uccidere
tutto ciò che c’è di più bello:
la libertà,
il sogno,
la speranza
e i ragazzi.
E nevica.
E forse,
i tuoi piedi nudi gelano.
Nevica…
Ed ecco,
in quest’istante
che io penso a te con tutto il mio cuore,
forse
una pallottola spezzerà la tua vita
e per te non ci sarà più
neve
né vento
né notte
né giorno…
E nevica.
So
che anche prima di gridare
“No pasaran”
e di montare la guardia
alle porte di Madrid,
tu esistevi!
Chi eri,
di dove sei venuto?
Forse
dalle miniere delle Asturie?
Forse
una benda insanguinata sulla tua fronte
ha coperto
una ferita che ti sei presa al Nord?
Forse
sei tu quello che per ultimo
sparò nella notte che gli junker
bombardavano Bilbao?
O servivi come bracciante
nelle tenute di un qualche
conte Pernando Valesquero di Cortolon?
O avevi una botteguccia
alla Porta del Sole
e vendevi le frutta dai colori spagnoli?
Forse, non avevi alcun talento,
o forse avevi una bella voce?
O eri uno studente,
un futuro giurista,
e i tuoi libri
sotto i cingoli d’un carro armato italiano
son rimasti
nella città universitaria?
Forse non credevi in Dio,
e forse invece portavi una piccola croce di rame
a un cordino di seta?
Chi sei,
come ti chiami,
quanti anni hai?
Non ho visto la tua faccia,
e non la vedrò.
Forse
essa ricorda le facce di quelli
che batterono le bande di Kolciak in Siberia?
O, in qualche tratto,
tu ricordi coloro
che sono caduti
a Domlupinar?
O somigli a Robespierre?
Non hai udito il mio nome,
e non l’udrai.
Tra noi due, fratello,
ci sono i mari e i monti,
e le mie maledette catene,
e le prescrizioni
del comitato di non intervento…
Non posso venire da te,
non posso mandarti di qui
né una cassa di cartucce
né uova
né un paio di calze di lana…
So
che in questo gelo
i tuoi piedi nudi,
là, alle porte di Madrid,
come due bimbi
gelano al vento…
E so
che tutto ciò che in questo mondo
c’è di grande
e di bello,
tutto ciò che sarà fatto dagli uomini,
tutta la Verità futura
e la Grandezza,
che io aspetto con tanta ansia nel cuore,
tutto questo riluce nei tuoi occhi,
sentinella mia,
stanotte
alle porte di Madrid…
E so
che oggi non posso,
come non potei ieri
e non potrò domani,
fare nient’altro
che pensare a te
e amarti.”
Nazim Hikmet, “Alle porte di Madrid” (scritta durante la guerra civile spagnola e mentre il poeta era chiuso nel carcere di Bursa, in Turchia)
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Marc Nelson (insegnante e artista americano che dipinge la guerra di Siria)
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Siria IV
“Cosa so, cosa non so perché lei ripeta
diversi mesi dopo, Susana, non dimenticare
– la sua voce suona ferma al telefono –
scrivi sulla Siria.
Cosa ti aspetti, cosa mi chiedi?
Parlerò di Quneitra,
dell’erba cresciuta sulle macerie,
dei resoconti del Golan?
Ibrahim mi mostra dei cumuli di nulla
e dice: questa era casa mia.
Andavo a scuola lungo questa strada ogni mattina.
E mostra la scuola, quella che devo
credere che fosse una scuola,
cemento e ferro
devastato dai bulldozer.
Di chi erano le tombe?
Quanti hanno pianto tra gli ulivi?
Qualcuno si è interrogato
sulla poesia dopo Auschwitz,
me lo chiedo anch’io
dalle rovine di Quneitra,
i suoi ospedali morti, le sue strade bruciate,
le file infinite di croci bianche
sulla vergogna del mondo.
Di chi sono le tombe?
Quanti piangono tra gli ulivi?”
Susana Cabuchi (poetessa argentina), da “Siria”
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Quando questo orrore finirà
“Quando questo orrore finirà (perché finirà) si faranno musei
e nelle teche ci saranno scarpe, lettere, piccole foto tessera,
ciocche di capelli, mucchi di vestiti lacerati.
E ci saranno classi di scuola (perchè ci saranno) che si chiederanno
come è stato possibile.
E ci saranno superstiti che racconteranno se questo è un uomo.
E ci saranno quelli che volteranno lo sguardo per la vergogna.
E taceranno.
E diranno che avevano ubbidito agli ordini.
E ci saranno coloro che hanno avuto il coraggio di disubbidire che
torneranno ad alzare gli occhi.
E ci saranno nipoti che chiederanno ai nonni da che parte stavano.
E ci saranno nonni, pochi, che risponderanno con verità “stavo dalla
parte dell’umanità”.
E ce ne saranno altri che abbasseranno gli occhi e non risponderanno.”
Ilda Curti, “Quando questo orrore finirà”
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Magari potessi andare contro i giorni
“Magari potessi andare contro i giorni
e tornare a dormire bambino tra le braccia di mia madre.
Dimenticare le lettere, disordinare i numeri
e parlare senza vocali.
Amarti senza poesie e senza ispirazione
e chiamare tutto col tuo nome.
Vorrei chiederti, Sham, com’è l’amore?
Se ogni giorno dentro di te mi vogliono uccidere
tra una barba che non conosce l’Islam
e un dittatore che ha rovinato il popolo.
Ho smesso di amarti, Sham, basta!
Ho cura di te, ma a te non interesso
ho smesso di amarti e nessuno mi biasimerà per questo.
Vorrei lasciarti finché non troverai…
una soluzione tra il figlio di mio padre e il figlio di mio zio.”
Abu Attayyeb (eteronimo di Mahmud M. al Tawil, poeta siriano)
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Parlavano di guerra
“Parlavano di guerra
davanti alla tavola ancora apparecchiata.
Sul lato opposto della via la prima finestra
della sera era già accesa.
Lui si sedette, curvo, calmo,
mentre la vecchia paura lo assaliva.
Imbruniva. Lei si alzò per portare in cucina
il piatto sgradevolmente bianco.
Fuori, nei campi nel bosco,
un uccello parlava per proverbi,
un Papa usciva incontro ad Attila,
il fosso era in attesa del plotone.”
Charles Simic (poeta serbo)
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Crow, Wheels
«Quando distrussero la città,
cominciarono a combattere sul cimitero.
È successo giusto prima di Pasqua
e dalle croci di legno sulle tombe appena scavate
fiorivano documenti –
erano rossi, blu, gialli,
verde fluorescente, arancio, rosa lampone.
Familiari euforici versavano vodka
per loro e per i morti – dritta nella tomba.
E i morti ne volevano ancora, e ancora, e ancora
e i parenti continuavano a versare.
I festeggiamenti andavano avanti.
A un tratto
un giovane uomo è inciampato nella barella
all’altezza della tomba di sua suocera
un uomo anziano fissava il cielo
e vide se stesso senza un occhio,
un altro uomo grasso distrusse il suo bicchiere
e danneggiò i bordi della tomba di sua moglie.
Il vetro gli cadde sui piedi
come grandine.
Si fece Pasqua.
Ora un corvo vivo si poggia in cima alla tomba
di Anna Andriivna Voronova
al posto della sua lapide.
Ruote di un carro armato BTR-80
riposano nella cappella della famiglia Kolesnykiv
dove sono seppelliti
Maria Viktorivna, Pylyp Vasylyovych, e Mykola Pylypovych.
Cosa sono per me, queste ruote, quel corvo?
Non me lo ricordo più.»
Lyuba Yacht (poetessa, sceneggiatrice e giornalista ucraina), “Crow, Wheels“
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Foto di André Du Plessis
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La sconfitta
“Davvero sappiamo vivere solo dopo la sconfitta,
le amicizie si fanno più profonde,
l’amore solleva attento il capo.
Perfino le cose diventano pure.
I rondoni danzano nell’aria,
a loro agio nell’abisso.
Tremano le foglie dei pioppi,
solo il vento è immoto.
Le sagome cupe dei nemici si stagliano
sullo sfondo chiaro della speranza.
Crescebil coraggio. Loro, diciamo parlando di loro, noi, di noi,
tu, di me. Il tè amaro ha il sapore
di profezie bibliche. Purché
non ci sorprenda la vittoria.”
Adam Zagajewski, “La sconfitta”, in “Dalla vita degli oggetti”, Poesie 1983-2005
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Foto di Dinos Mark Factual
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1° settembre 1939
“Siedo in una delle bettole
della Cinquantaduesima strada
incerto e spaventato
vedendo scadere le astute speranze
d’un decennio basso e disonesto:
onde di rabbia e di paura
circolano per le luminose
e oscurate contrade della terra,
ossessionando le nostre vite private;
l’indicibile odore della morte
offende la notte di settembre.
Le ricerche degli esperti possono
riesumare intera l’offesa
che da Lutero ad oggi
ha fatto impazzire una cultura,
scoprire quello che successe a Linz,
quale immensa illusione ha creato
un dio psicopatico:
io e il pubblico sappiamo
quel che i bambini imparano a scuola,
coloro a cui male è fatto,
male faranno in cambio.
L’esule Tucidide sapeva
tutto quello che può dire un discorso
sulla Democrazia,
e quello che fanno i dittatori,
l’antiquato ciarpame che raccontano
a un apatico sepolcro;
egli analizzò tutto nel suo libro,
la ragione messa al bando,
il dolore che plasma l’abitudine,
il cattivo governo e il cordoglio:
tutto questo ci è inflitto un’altra volta.
In quest’aria neutrale
dove ciechi grattacieli usano
tutta la loro altezza a proclamare
la forza dell’Uomo Collettivo,
ogni lingua versa a gara
la sua scusa vana:
ma chi può vivere a lungo
in un sogno euforico;
essi guardano fuori dallo specchio
la faccia dell’imperialismo
e il torto internazionale.
Le facce lungo il bancone
s’aggrappano al loro giorno medio:
le luci non devono mai spegnersi,
la musica deve sempre andare,
tutte le convenzioni cospirano
perché questa fortezza assuma
l’arredamento di casa;
perché non vediamo dove stiamo,
persi in un mondo stregato,
bambini spaventati dalla notte
che mai felici sono stati o buoni.
Le idiozie di partito più vacue
che gridano le Persone Importanti
non sono radicali come il nostro
desiderio:quel che il folle Nijinsky
ha scritto su Diaghilev
vale per il cuore di tutti;
ché ogni donna e ogni uomo
nutre nelle fibre l’errore
di bramare quel che non può avere,
non l’amore universale,
ma d’avere per sé solo ogni amore.
Dal buio conservatore
gli ottusi pendolari entrano
nella vita etica,
ripetendo il voto mattutino:
”Sarò fedele a mia moglie,
mi concentrerò di più sul lavoro”,
e i governanti impotenti si svegliano
riprendendo il loro gioco obbligato:
chi può liberarli adesso,
chi può arrivare ai sordi,
chi può parlare per i muti?
Tutto quello che ho è una voce
per svelare la bugia nascosta,
la bugia romantica ch’è nel cervello
del sensuale uomo della strada
e la bugia dell’Autorità
i cui edifici frugano il cielo:
non c’è una cosa chiamata Stato
e nessuno esiste da solo;
la fame non lascia scelta
al cittadino né alla polizia;
dobbiamo amarci l’un l’altro o morire.
Senza difesa il nostro mondo
giace sotto la notte attonito;
eppure, accesi ovunque,
ironici punti di luce
lampeggiano là dove i Giusti
si scambiano i loro messaggi:
oh, ch’io possa, composto come loro
d’Eros e di polvere,
assediato dalla medesima
negazione e disperazione,
mostrare una fiamma affermativa.
Wystan Hugh Auden, “1° settembre 1939”
*****
Arthur Tress, “Initiations 5”, Arles, France, 1974
*****
Ci sono ricordi
“Ci sono ricordi
che non mi lasciano più
Ci sono ricordi
fissati al mio teschio con un chiodo
Miei amici si lasciarono cadere
per raccogliere i loro fucili
Miei amici
andarono a morire oltre il confine
Bambini
stringevano il cordone ombelicale
per non nascere
Noi pregavamo il cielo
e dal cielo
cadevano
le bombe
Mio fratello diceva:
bisogna tramontare
non vedi che il sole
sorge ogni mattino
e ogni sera pentito
se ne torna via?
La bellezza è in declino
e delle donne
non resta altro che uomini
Ci siamo sposati con gli uomini
e abbiamo partorito
i deserti”
Garous Abdilmalekian (poeta iraniano), da “Trilogia del Medio Oriente. Guerra amore solitudine”
*****
Conosco bene il rumore dei carri armati
“Conosco bene il rumore dei carri armati,
perché mi terrorizzano.
Conosco bene le immagini della distruzione,
perché ne ho viste tante.
Conosco bene il vestito nero di chi uccide.
Ma anche del vestito nero delle madri
che piangono i loro figli,
perché succede ancora.
Conosco bene i giochi e le promesse dei potenti,
perché ho aspettato tanto.
Conosco bene l’ingiustizia,
perché è ancora troppo presente.
Conosco molto bene cosa vuol dire sognare,
perché non ho smesso mai di farlo.”
Fuad Aziz, da “Versi da lontano”, 2017
*****
Piccola morte
“So questo, era un soldato
con un paio di scarpe nuove
che accanto gli stavano
a vegliarlo giorno e notte.
Aveva una fucilata nel petto
e ogni volta che tossiva guardava
con ceruli occhi le scarpe
che vegliavano come cani
la branda dell’infermeria.
Morì alle cinque del mattino
dicendo queste sole parole:
“mettetemi amici le scarpe
è venuta l’ora di andarmene.”
Morì alle cinque del mattino
con gli occhi rivolti alle scarpe.
Raffaele Carrieri, da “Lamento del gabelliere”, 1945
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Ai mercanti di guerra di tutto il mondo
“Diteci
avete iniziato una guerra
così che le nostre donne
potessero essere vendute e umiliate davanti a tutti?
Le nostre ragazze ogni giorno
spogliate della loro umanità
e offerte alle
macchinazioni di folli soldati?
Diteci
avete iniziato questa guerra
come una fiera del male
che svela i diversi volti
di Lucifero a masse terrorizzate?
I nostri bambini nudi stringono pistole al petto.
Diteci ora
avete concepito questa guerra
come un catalogo di atrocità
da custodire nelle biblioteche della nostra storia?
Avete progettato questa guerra
per bruciarci nelle fiamme delle vostre faide
o l’avete fatto per poter emanare comunicati ufficiali?”
Susan Kiguli (poetessa ugandese), “Ai mercanti di guerra di tutto il mondo”, da “Terre che piangono”, 2023
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Terre che piangono
“I guai nelle nostre terre
scendono in picchiata come aquile urlatrici
gli artigli aperti sulla
popolazione perplessa.
Io non lo so
chi ha invaso chi
chi insegue troni regionali
io non lo so quale generale ringhia
di chi sia il canale radio che mente.
Ma ho visto
macerie coprire gli indifesi
persone fatte a pezzi
dita puntate
capi abbracciarsi
persone morire.
Io non lo so quale Paese difendano
di chi siano i bimbi
che proteggono
di chi siano i mercati
che salvaguardano
di chi sia il canale radio che mente.”
Susan Kiguli, poetessa ugandese, da “Terre che piangono”, 2023
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Alzando la barricata
“Avevamo paura alzando sotto il fuoco
la barricata.
Il bettoliere, l’amante dell’orefice, il barbiere,
tutti paurosi.
Cadde a terra una servetta
sollevando un masso dal selciato, avevamo molta paura,
tutti paurosi –
il portinaio, la mercatina, il pensionato.
Cadde a terra il farmacista
trascinando la porta della latrina,
avevamo ancora più paura, la contrabbandiera,
la sarta, il tranviere,
tutti paurosi.
Cadde un ragazzo del riformatorio
trascinando un sacco di sabbia,
ebbene avevamo paura
davvero.
Benché nessuno ci costringesse,
alzammo la barricata
sotto il fuoco.”
Anna Świrszczyńska (poetessa polacca) – Traduzione di Paolo Statuti
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Foto di Sonia Simbolo
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Mio fratello aviatore
“Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.
Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio.
E prendersi terre su terre,
da noi, è un vecchio sogno.
E lo spazio che s’è conquistato
è sui monti del Guadarrama.
È di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.”
Bertolt Brecht, da “Grido, non serenata. Poesie di lotta e di resistenza” – Traduzione di Ruth Leiser e Franco Fortini
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Il negativo e l’immagine
“Quando i bambini di qui fanno la guerra
bastano quattro cuscini sul letto per costruire una base
tutti hanno pistole o fucili con il tappo colorato in rosso
alcuni perfino bombe di gommapiuma
allora mi chiedo se i bambini di Beirut giocano alla pace
e come ci riescono
perchè non ci sono case giardini genitori di plastica
e morire per finta è facile
ma vivere per finta non si può”
Francesco Tomada, “Il negativo e l’immagine”
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Sul viale principale di Belgrado
“Sul viale principale di Belgrado
ci sono ancora case di cui resta solo la facciata
attraverso le finestre vedi il vuoto
e sterpi dentro e nubi dietro
il cielo in una
stanza
oggi della guerra rimane questa immagine
il cielo in una stanza
io penso a gino paoli
che in mezz’ora con una prostituta
scrisse una canzone che parlava d’amore”
Francesco Tomada
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Foto di Henri Cartier Bresson
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Le bombe
“Abbiamo colpito il treno ci dispiace è stato un errore.
Abbiamo colpito quei profughi ci dispiace un altro errore.
Abbiamo colpito il ponte la gente non si vedeva.
Abbiamo colpito l’acquedotto non è stato un errore ma ci dispiace.
Abbiamo colpito l’ambasciata ci dispiace un altro errore.
Abbiamo colpito il paese sbagliato non era previsto.
Avevamo già colpito altre cose sbagliate
un aereo passeggeri una scuola.
Questa volta le ragioni per colpire quello che cercavamo di colpire erano buone.
Cercavamo di fermare le cose terribili fatte a gente innocente.
Le cose peggiorarono per quella gente col nostro
intervento il che prova che avevamo ragione.
Ma naturalmente non siamo capaci di pensare a ciò che è giusto o ciò che è sbagliato.
Dicono che siamo intelligenti ma le bombe non sono fatteper pensare.
Ci dispiace ci siano stati errori ma noi da sole non possiamo fare errori.
Eseguiamo solo ordini. Facciamo quello che ci viene detto.”
Martha Collins, “Le bombe”, da “The progressive”
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Banksy, “Bomb Love”, 2003
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Canzone sulla guerra
“Strozzate la guerra,
che le donne possano sorridere
e non invecchiare cosí rapidamente
come invecchiano le armi.
La guerra però dice: Io sono!
Sono dal principio,
non v’è mai stato momento
in cui non fossi.
Sono vecchia come la fame
e come l’amore.
Io non mi sono creata,
ma il mondo è mio!
E lo distruggerò.
Sarò presente
quando il brandello insanguinato a fuoco
cadrà nel buio
come la saliva dei bambini
sul fondo di un pozzo
quando vogliono misurarne
la buia profondità.
Ma noi – e questa è speranza –possiamo ancora un attimo,
ancora un breve attimo possiamo
riflettere.”
Jaroslav Seifert, da “Concerto sull’isola” – Traduzione di Sergio Corduas
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Foto di Roberto Doisneau
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Ai bambini siriani
“C’è, mentre morite, una codirossa
che depone gioiosa,
nel buco di un pioppo nero,
il suo primo uovo blu.
Mentre morite, il mio cuore entra con voi
nell’ultima nuvola di un mondo nato già morto,– entro con voi
nel papavero bianco, nel mare allentato.
Mentre morite, Dio e l’assassino,
sullo stesso balcone, bevono il nescafé e ridono.
Solo; bevono il nescafé e ridono.”
Amarji, 2017 (Amarji o Amargi, pseudonimo di Rami Farid Youness, è un poeta e scrittore siriano)
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Aìda fuciliamo la notte
“Aìda fuciliamo la notte
e la terribile
miseria collettiva.
Ecco abbiamo le nostre quattro mani
e la mia voce.
Ci sostengono i tuoi occhi
e il tuo delicato
modo di amarmi incessante.
Ci sostiene questo sangue proteso
fino al corpo del figlio.
Ci sostengono questa atmosfera
questo pane quotidiano
e queste quattro mura
che proteggono i baci.
Rompiamo, Aìda, questa tormenta amara.
Bisogna costruire fazzoletti luminosi
per asciugare le lacrime dell’uomo.
Bisogna condurre il bambino
alla sua musica remota.
Bisogna tornare a fabbricare bambole
bisogna seminare mais nelle città.
Bisogna far esplodere i grattacieli
e fare spazio perché si levi il grano.
Bisogna costruire attrezzi da lavoro
con gli autobus urbani.
Aìda, fuciliamo la notte
e questa orribile bandiera.
Aìda fuciliamo la notte
e i neri cannoni
e le bombe atomiche;
fuciliamo l’odio
e la terribile
miseria collettiva.”
Roque Dalton, da “Il cielo per cappello”, 2011
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Voglio che impari un canto delle elementari
“Voglio che impari un canto delle elementari
che porto dentro per intero senza errori
tentennando a testa china e una stonatura.
Per terra battono i piedini forte
e i banchi picchiano i palmi aperti.
Amici e bimbi della mia classe son morti in guerra
resta il battito nella stanza a terra di piedini e mani agitate.”
Gassān Zaqtān (poeta palestinese)
*****
Foto “Corriere della Sera”
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È possibile la poesia dopo
“È possibile la poesia dopo
Jasynuvata
Horlivka
Savur-Mohyla
Novoazovs’k
Dopo
Krasnyj Luč
Donec’k
Luhanks’k
Dopo che la gente è divisa
In chi muore e chi riposa
Chi ha fame e chi si svaga
Dopo che la poesia è ormai da molto
Come ha detto un poeta famoso
Un “borbottare da autistici”
Un muover le labbra nel buio
Io direi
In dormiveglia
È possibile la poesia
Quando la storia s’è desta
Quando i suoi passi
Risvegliano ogni cuore
E non si può parlar d’altro
Ma non si può neanche parlare
Mentre scrivo questo
Poco distante
Ogni opzione è messa da parte.”
Anastasija Afanas’jeva (la poesia si riferisce al conflitto del 2014 nel Donbass)
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L’assedio
“Le mie lacrime sono blu
tanto ho guardato il cielo e pianto,
le mie lacrime sono gialle
tanto ho sognato spighe d’oro e pianto.
Che i leader vadano alle guerre,
gli amanti alle foreste
e gli scienziati ai laboratori.
Quanto a me
cercherò un rosario e una sedia antica
per tornar quel che ero:
un ciambellano sulle porte della tristezza
poiché tutti i libri, costituzioni e religioni
affermano che non morirò
che affamato o prigioniero.”
Mohamed al-Maghout (poeta siriano) – Traduzione dall’arabo di Sana Darghmouni
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Foto tratta dal sito di Doc. Documentazione. info
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I
“È notte
e in contemporanea
cadono i colpi
su me, Siria e Baghdad
Mi siedo sul divano
e accendo
la dolce tortura
Il notiziario di me non dice nulla,
il notiziario dà solo notizie
per coprire le notizie
È notte
le formiche
spostano l’angoscia della terra
È notte
e io assomiglio più alla guerra
che a mia madre
È notte
e ho gli occhi insanguinati
come i pozzi di Khorramshahr
È notte
e le nuvole nel cielo
interrano la luna
È notte
e io dovrò
da qualche parte iniziare questa storia:
II
C’era uno
molti non c’erano
C’era anche un altro
che però
c’era e non c’era
E un altro ancora
che di notte si nascondeva
nelle trincee e poi
non riusciva più a ritrovarsi.
Quando morì sua madre sorrideva
quando portarono sulle spalle
suo fratello sorrideva
quando chiesi il suo nome sorrideva
persino in pianto sorrideva
Quando al crepuscolo
saltò in aria
sorrideva
Sento ancora
conficcate nella carne
le schegge del suo sorriso
III
Ci sono ricordi
che non mi lasciano più
Ci sono ricordi
fissati nel mio teschio con un chiodo
Miei amici si lasciano cadere
per raccogliere fucili
Miei amici
andarono a morire oltre il confine
Bambini
stringevano il cordone ombelicale
per non nascere
Noi pregavamo il cielo
e dal cielo
cadevano
le bombe
Mio fratello diceva:
bisogna tramontare
non vedi che il sole
sorge ogni mattino
e ogni sera pentito
se ne torna via?
La bellezza è in declino
e delle donne
non resta altro che uomini
Ci siamo sposati con gli uomini
e abbiamo partorito
i deserti.”
Garous Abdolmalekian (poeta e saggista iraniano), da “Trilogia del Medio Oriente”, 2001- Traduzione di Faezeh Mardiani e Francesco Occhetto
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Foto dal web
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Guerra
“Ho gli anni di mio padre – ho le sue mani,
quasi: le dita specialmente, le unghie,
curve e un po’ spesse, lunate (ma le mie
senza il marrone della nicotina)
quando, gualcito e impeccabile, viaggiava
su mitragliati treni e corriere
portando a noi tranquilli villeggianti
fuori tiro e stagione
nella sua bella borsa leggera
le strane provviste di quegli anni, formaggio fuso,
marmellata
senza zucchero, pane senza lievito,
immagini della città oscura, della città sbranata
così dolci, ricordo, al nostro cuore.
Guardavamo ai suoi anni con spavento.
Dal sotto in su, dal basso della mia
secondogenitura, per le sue coronarie
mormoravo ogni tanto una preghiera.
Adesso, dopo tanto
che lui è entrato nel niente e gli divento
giorno dopo giorno fratello, fra non molto
fratello più grande, più sapiente, vorrei tanto sapere
se anche i miei figli, qualche volta, pregano per me.
Ma subito, contraddicendomi, mi dico
che no, che ci mancherebbe altro, che nessuno
meno di me ha viaggiato tra me e loro,
che quello che gli ho dato, che mangiare
era? Non c’era cibo nel mio andarmene
come un ladro e tornare a mani vuote…Una povera guerra, piana e vile,
mi dico, la mia, così povera
d’ostinazione, d’obbedienza. E prego
che lascino perdere, che non per me
gli venga voglia di pregare.”
Giovanni Raboni, da “A tanto caro sangue. Poesie 1953-1987”, 1988