Lo scettro va tenuto con la destra, diritto, guai se lo metti giù, e del resto non avresti dove posarlo, accanto al trono non ci sono tavolini o mensole o trespoli dove tenere, che so, un bicchiere, un posacenere, un telefono; il trono è isolato, alto su gradini stretti e ripidi, tutto quello che fai cascare rotola e non si trova più. Guai se lo scettro ti sfugge di mano, dovresti alzarti, scendere dal trono per raccoglierlo, nessuno lo può toccare tranne il re; e non è bello che un re si allunghi al suolo, per raggiungere lo scettro finito sotto un mobile, o la corona, che è facile ti rotoli via dalla testa, se ti chini. L’ avambraccio puoi tenerlo appoggiato al bracciolo, così non si stanca: parlo sempre della destra, che impugna lo scettro; quanto alla sinistra, resta libera; puoi grattarti, se vuoi; alle volte il manto d’ ermellino trasmette un prurito al collo che si propaga giù per la schiena, per tutto il corpo. Anche il velluto del cuscino, scaldandosi, provoca una sensazione irritante alle natiche, alle cosce. Non farti scrupolo di cacciare le dita dove ti prude, di slacciare il cinturone con la fibbia dorata, di scostare il collare, le medaglie, le spalline con le frange. Sei re, nessuno può trovarci da ridire, ci mancherebbe anche questa.
La testa devi tenerla immobile, non dimenticarti che la corona sta in bilico sul tuo cocuzzolo, non la puoi calzare fin sugli orecchi come un berretto in un giorno di vento; la corona culmina in una cupola più voluminosa della base che la regge, il che vuol dire che ha un equilibrio instabile: se ti capita d’ appisolarti, di adagiare il mento sul petto, finirà per ruzzolare giù e andare in pezzi; perché è fragile, specie nelle parti di filigrana d’ oro incastonate di brillanti. Quando senti che sta per scivolare, devi avere l’ accortezza di correggere la sua posizione con piccole scosse del capo, ma devi star attento a non tirarti su troppo vivamente per non farla urtare contro il baldacchino, che la sfiora coi suoi drappeggi. Insomma, devi mantenere quella compostezza regale che si suppone connaturata alla tua persona.
Del resto, che bisogno avresti di darti tanto da fare? Sei re, tutto quello che desideri è già tuo. Basta che alzi un dito e ti portano da mangiare, da bere, gomma da masticare, stuzzicadenti, sigarette d’ ogni marca, tutto su un vassoio d’ argento; quando ti prende sonno, il trono è comodo, imbottito, ti basta socchiudere gli occhi e abbandonarti contro la spalliera, mantenendo in apparenza la posizione di sempre: che tu sia sveglio o addormentato non cambia nulla, nessuno se ne accorge.
Quanto ai bisogni corporali non è un segreto per nessuno che il trono è bucato, come ogni trono che si rispetti; due volte al giorno vengono a cambiare il vaso; anche più spesso se c’ è puzza. Insomma, tutto è stato predisposto per evitarti qualsiasi spostamento. Non avresti nulla da guadagnare, a muoverti, e tutto da perdere. Se t’ alzi, se t’ allontani anche di pochi passi, se perdi di vista il trono anche per un attimo, chi ti garantisce che quando torni non ci trovi qualcun altro seduto sopra? Magari uno che ti somiglia, uguale identico. Va’ poi a dimostrare che il re sei tu e non lui! Un re si distingue dal fatto che siede sul trono, che porta la corona e lo scettro. Ora che questi attributi sono tuoi, meglio non te ne stacchi nemmeno per un istante.
C’ è il problema di sgranchirti le gambe, d’ evitare il formicolio, l’ irrigidirsi delle giunture: certo, è un grave inconveniente. Ma puoi sempre scalciare, sollevare i ginocchi, rannicchiarti sul trono, sederti alla turca, naturalmente per brevi periodi, quando le questioni di Stato lo permettono. Ogni sera vengono gli incaricati della lavatura dei piedi e ti tolgono gli stivali per un quarto d’ ora; alla mattina quelli del servizio deodorante ti strofinano le ascelle con batuffoli di cotone profumato. E’ stata prevista anche l’ eventualità che ti prendano dei desideri carnali. Dame di corte, opportunamente scelte e addestrate, dalle più robuste alle più snelle, sono a tua disposizione, a turno, per salire i gradini del trono e avvicinare alle tue trepide ginocchia le loro ampie gonne vaporose e svolazzanti. Le cose che si possono fare, tu restando sul trono e loro presentandotisi frontalmente o di tergo o di sbieco, sono varie, e tu puoi sbrigarle in rapidi istanti o, se le incombenze del Regno ti lasciano abbastanza tempo libero, puoi indugiarvi più a lungo, diciamo anche tre quarti d’ ora; in questo caso è buona norma che si chiudano le cortine del baldacchino, sottraendo l’ intimità del Re agli sguardi estranei, mentre i musici intonano melodie carezzevoli.
Insomma, il trono, una volta che sei stato incoronato, ti conviene starci seduto sopra senza muoverti, giorno e notte. Tutta la tua vita di prima non è stata altro che l’ attesa di diventare re; ora lo sei; non ti resta che regnare. E cos’ è regnare se non quest’ altra lunga attesa? L’ attesa del momento in cui sarai deposto, in cui dovrai lasciare il trono, lo scettro, la corona, la testa. Le ore sono lunghe da passare; nella sala del trono la luce delle lampade è sempre uguale. Tu ascolti il tempo che scorre: un ronzio come di vento; il vento soffia nei corridoi del palazzo, o nel fondo del tuo orecchio. I re non hanno orologio: si suppone siano loro a governare il flusso del tempo; la sottomissione alle regole d’ un congegno meccanico sarebbe incompatibile con la maestà reale. La distesa uniforme dei minuti minaccia di seppellirti come una lenta valanga di sabbia: ma tu sai come sfuggirle. Ti basta tendere l’ orecchio e imparare a riconoscere i rumori del palazzo, che cambiano d’ ora in ora: al mattino squilla la tromba dell’ alzabandiera sulla torre, i camion dell’ intendenza reale scaricano ceste e bidoni nel cortile della dispensa; le domestiche battono i tappeti sulla ringhiera della loggia; la sera cigolano i cancelli che si richiudono, dalle cucine sale un acciottolio; dalle stalle qualche nitrito avverte che è l’ ora della striglia. Il palazzo è un orologio: le sue cifre sonore seguono il corso del sole, frecce invisibili indicano il cambio della guardia sugli spalti con uno scalpiccio di suole chiodate, uno sbattere di calci di fucili, cui risponde lo stridere di ghiaia sotto i cingoli dei carri armati tenuti in esercizio sul piazzale. Se i rumori si ripetono nell’ ordine abituale, coi dovuti intervalli, puoi rassicurarti, il tuo regno non corre pericolo: per ora, per quest’ ora, per questo giorno ancora. Sprofondato nel tuo trono, tu porti la mano all’ orecchio, scosti i drappeggi del baldacchino perché non smorzino nessun sussurro, nessun eco.
Le giornate sono per te un succedersi di suoni, ora netti, ora quasi impercettibili; hai imparato a distinguerli, a valutarne la provenienza e la distanza, ne conosci la successione, sai quanto durano le pause, ogni rimbombo o scricchiolio o tintinnio che sta per raggiungere il tuo timpano tu già te lo aspetti, l’ anticipi nell’ immaginazione, se tarda a prodursi t’ impazientisci. La tua ansia non si allenta fino a che il filo dell’ udito non si riannoda, l’ ordito di rumori ben noti non si rammenda nel punto in cui pareva s’ aprisse una lacuna. Atrii, gradinate, logge, corridoi del palazzo hanno soffitti alti, a volta: ogni passo, ogni scatto di serratura, ogni starnuto echeggiano, rimbombano, si propagano orizzontalmente per un seguito di sale comunicanti, vestiboli, colonnati, porte di servizio, e verticalmente per trombe di scale, intercapedini, pozzi di luce, condutture, cappe di camini, vani di montacarichi, e tutti questi percorsi acustici convergono nella sala del trono. Nel grande lago di silenzio in cui tu galleggi sfociano fiumi d’ aria mossa da vibrazioni intermittenti; tu le intercetti e le decifri, attento, assorto.
Il palazzo è tutto volute, tutto lobi, è un grande orecchio in cui anatomia e architettura si scambiano nomi e funzioni: padiglioni, trombe, timpani, chiocciole, labirinti; tu sei appiattato in fondo, nella zona più interna del palazzo-orecchio, del tuo orecchio; il palazzo è l’ orecchio del re. Vicino al trono c’ è uno spigolo del muro da cui ogni tanto senti venire una specie di rimbombo: colpi lontani come il bussare a una porta. C’ è qualcuno che picchia dall’ altra parte del muro? Ma forse più che d’ un muro si tratta d’ un pilastro o montante che sporge, anzi una colonna cava all’ interno, forse una conduttura verticale che attraversa tutti i piani del palazzo dalle cantine al tetto, per esempio una canna fumaria che parte dalle caldaie. Per questa via i rumori si trasmettono lungo tutta l’ altezza della costruzione; in un punto del palazzo, non si sa a che piano ma certo sopra o sotto la sala del trono, qualcosa batte contro il pilastro; qualcosa o qualcuno; qualcuno che picchia col pugno colpi ritmati; dal risuonare smorzato si direbbe che i colpi vengano da lontano. Colpi che emergono da una profondità buia, sì, dal basso, colpi che salgono da sottoterra. Sono segnali? Allungando un braccio puoi battere col pugno contro lo spigolo. Ripeti i colpi come li hai uditi ora. Silenzio. Ecco che si sentono di nuovo. L’ ordine nelle pause e nella frequenza è un po’ cambiato. Ripeti anche stavolta. Aspetta. Di nuovo una risposta non si fa attendere. Hai stabilito un dialogo? Per dialogare dovresti conoscere la lingua. Una serie di colpi di seguito, una pausa, altri colpi isolati: sono segnali traducibili in un codice? Qualcuno sta formando lettere, parole? Qualcuno vuole comunicare con te, ha delle cose urgenti da dirti? Prova con la chiave più semplice: un colpo, a; due colpi,… Oppure il codice Morse, cerca di distinguere suoni brevi e suoni lunghi… Alle volte ti sembra che il messaggio trasmesso sia in un ritmo, come in una sequenza musicale: anche questo proverebbe l’ intenzione d’ attrarre la tua attenzione, di comunicare, di parlarti… Ma non ti basta: se le percussioni si susseguono con regolarità devono formare una parola, una frase… Ecco che già vorresti proiettare sul nudo stillicidio di suoni il tuo desiderio di parole rassicuranti: “Maestà… noi fedeli vegliamo… sventeremo le insidie… lunga vita…” E’ questo che ti stanno dicendo? E’ questo che riesci a decifrare tentando d’ applicare tutti i codici immaginabili? No, non viene fuori nulla del genere. Caso mai il messaggio che risulta è tutto diverso, qualcosa come: “Cane bastardo usurpatore… Vendetta… Cadrai…”
Calmati. Forse è solo suggestione. E’ solo il caso che dispone quelle combinazioni di lettere e parole. Forse non si tratta nemmeno di segnali: può essere lo sbattere d’ uno sportello a una corrente d’ aria, o un bambino che fa rimbalzare una palla, o qualcuno che martella dei chiodi… Dei chiodi… “La bara… la tua bara… – i colpi adesso formano queste parole, – io uscirò da questa bara… ci entrerai tu… sepolto vivo…” Parole senza senso, insomma. Solo la tua suggestione sovrappone parole vaneggianti a quei rimbombi informi. Tanto varrebbe immaginare che quando tu bussi con le nocche sulla parete tamburellando a caso, qualcun altro, in ascolto chissà dove nel palazzo, creda d’ intendere parole, frasi. Prova. Così, senza pensarci. Ma cosa fai? Perché ci metti tanta concentrazione, come se stessi compitando, sillabando? Che messaggio credi di star convogliando giù per questo muro? “Anche tu usurpatore prima di me… Io ti ho vinto… Potevo ucciderti…” Cosa stai facendo? Stai cercando di giustificarti di fronte a un rumore invisibile? Chi stai supplicando? “Ho risparmiato la tua vita… Se avrai la tua rivincita… ricordati…” Chi credi che ci sia, là sotto, a battere contro il muro? Credi che sia ancora vivo il tuo predecessore, il re che hai cacciato dal trono, da questo trono su cui siedi, il prigioniero che hai fatto rinchiudere nella cella più profonda dei sotterranei del palazzo?
Non fissarti sui rumori del palazzo, se non vuoi restarci chiuso dentro come in una trappola. Esci! scappa! spazia! Fuori del palazzo s’ estende la città, la capitale del regno, del tuo regno! Sei diventato re non per possedere questo palazzo triste e buio, ma la città varia e screziata, strepitante, dalle mille voci! La città è sdraiata nella notte, acciambellata, dorme e russa, sogna e ringhia, macchie d’ ombre e di luci si spostano ogni volta che si gira su un fianco o sull’ altro. Ogni mattina le campane suonano a festa, o a martello, o a stormo: mandano messaggi, ma non puoi mai fidarti di quello che veramente ti vogliono dire: coi rintocchi a morto ti arriva, mescolata dal vento, una musica da ballo eccitata; con lo scampanio festoso uno scoppio d’ urla inferocite. E’ il respiro della città che devi ascoltare, un respiro che può essere rotto e ansimante o placido e profondo.
C’era una voce, una canzone, una voce di donna che ogni tanto il vento ti portava fin quassù da una qualche finestra aperta, c’ era una canzone d’ amore che nelle notti d’ estate il vento ti portava a strappi, e appena ti sembrava d’ averne afferrato qualche nota già si perdeva, non eri mai sicuro d’ averla sentita davvero e non solo immaginata, non solo desiderato di sentirla, il sogno d’ una voce di donna che canta nell’ incubo della tua lunga insonnia. Ecco cosa stavi aspettando zitto e attento: non è più la paura a farti tendere l’ orecchio. Sei tornato a sentire questo canto che ora ti arriva distintamente in ogni nota e timbro e velatura, dalla città che era stata abbandonata da ogni musica. Da tanto tempo non ti sentivi più attratto da niente, forse dal tempo in cui tutte le tue forze erano impegnate nella conquista del trono. Ma di quella smania che ti divorava ora ricordi solo l’ accanimento contro i nemici da abbattere, che non ti lasciava desiderare né immaginare altra cosa. Era anche allora un pensiero di morte che t’ accompagnava, giorno e notte, come ora che spii la città nel buio e nel silenzio del coprifuoco che tu hai imposto per difenderti dalla rivolta che cova, e segui lo scalpiccio delle pattuglie di ronda nelle strade vuote. E quando nel buio una voce di donna s’ abbandona a cantare, invisibile al davanzale d’ una finestra spenta, ecco che d’ improvviso ti ritornano dei pensieri di vita: i tuoi desideri ritrovano un oggetto; quale? non quella canzone che devi aver sentito anche troppe volte, non quella donna che non hai mai visto: t’ attrae quella voce in quanto voce, come si offre nel canto.
Ora è impossibile trattenerti. C’ è una parte di te stesso che sta correndo incontro alla voce sconosciuta. Contagiato dal suo piacere di farsi udire, vorresti che il tuo ascolto fosse udito da lei, vorresti essere anche tu una voce, udita da lei come tu la odi. Peccato che tu non sappia cantare. Se tu avessi saputo cantare forse la tua vita sarebbe stata diversa, più felice; o triste d’ una tristezza diversa, un’ armoniosa melanconia. Forse non avresti sentito il bisogno di diventare re. Ora non ti troveresti qui, su questo trono scricchiolante, a spiare le ombre. Sepolta in fondo a te stesso forse esiste la tua vera voce, il canto che non sa staccarsi dalla tua gola serrata, dalle tue labbra aride e tese. Oppure la tua voce vaga dispersa per la città, timbri e toni disseminati nel brusio. Quello che nessuno sa che tu sei, o che sei stato, o che potresti essere si rivelerebbe in quella voce. Prova, concentrati, fa appello alle tue forze segrete. Adesso! No, non ci siamo! Prova ancora, non scoraggiarti. Ed ecco, ora: miracolo! Non credi ai tuoi orecchi! Di chi è questa voce dal caldo timbro baritonale che si leva, si modula, s’ accorda ai bagliori d’ argento della voce di lei? Chi sta cantando a duetto con lei come se fossero due facce complementari e simmetriche della stessa volontà canora? Sei tu che canti, non c’ è dubbio, questa è la tua voce che puoi finalmente ascoltare senza estraneità né fastidio. Ma da dove riesci a cavar fuori queste note se il tuo petto resta contratto e i tuoi denti serrati? Ti sei convinto che la città non è altro che un’estensione fisica della sua persona: e da dove dovrebbe venire dunque la voce del re se non dal cuore stesso della capitale del suo regno? Con la stessa acutezza d’ orecchio con cui sei riuscito a cogliere e a seguire fino a questo momento il canto di quella donna sconosciuta, ora raduni i cento frammenti di suono che uniti formano una voce inconfondibile, la voce che sola è tua. Ecco, allontana dal tuo udito ogni intrusione e distrazione, concentrati: la voce di donna che ti chiama e la tua voce che la chiama devi captarle insieme nella stessa intenzione d’ ascolto (o vuoi chiamarlo sguardo dell’ orecchio?) Adesso! No, non ancora. Non rinunciare, prova nuovamente. Tra un momento la sua voce e la tua si risponderanno e si fonderanno al punto che non saprai più distinguerle… Ma troppi suoni si frappongono, frenetici, taglienti, feroci: la voce di lei sparisce soffocata dal rombo di morte che invade il fuori, o che forse risuona dentro di te. L’ hai perduta, ti sei perduto, la parte di te che si proietta nello spazio dei suoni ora corre per le vie tra le pattuglie del coprifuoco. La vita delle voci è stata un sogno, forse è durata solo pochi secondi come durano i sogni; mentre fuori l’incubo permane.
Ogni tuo tentativo di uscire fuori dalla gabbia è destinato a fallire: è inutile cercare te stesso in un mondo che non t’ appartiene, che forse non esiste. Per te c’ è solo il palazzo, le grandi volte rimbombanti, i turni delle sentinelle; i carri armati che fanno stridere la ghiaia, i passi concitati per lo scalone che potrebbero ogni volta essere quelli che annunciano la tua fine. Questi sono gli unici segni con cui il mondo ti parla, non distoglierne l’ attenzione neanche per un istante: appena ti distrai, questo spazio che hai costruito attorno a te per contenere e sorvegliare le tue paure si lacera e va in pezzi. Non ci riesci? I tuoi orecchi rintronano di rumori nuovi, insoliti? Non sei più in grado di distinguere i clamori che vengono da fuori e da dentro il palazzo? Forse non c’ è più un dentro e un fuori: mentre tu eri intento ad ascoltare le voci i congiurati hanno approfittato dell’ allentamento della vigilanza per scatenare la rivolta. Non c’ è più un palazzo attorno a te, c’ è la notte piena di grida e di spari. Dove sei? Sei ancora vivo? Sei scampato agli attentatori che hanno fatto irruzione nella sala del trono? La scala segreta ti ha aperto la via della fuga? La città è esplosa in fiamme e in grida. La notte è esplosa, rovesciata dentro se stessa. Buio e silenzio precipitano dentro se stessi e gettano fuori il loro rovescio di fuoco e d’ urla. La città s’ accartoccia come un foglio ardente. Corri, senza corona, senza scettro, nessuno può capire che sei il re. Non c’ è notte più buia che una notte d’ incendi. Non c’ è uomo più solo di chi corre in una folla urlante.
I tuoi passi rimbombano. Sopra la tua testa non c’ è più il cielo. La parete che tocchi era coperta di muschio, di muffa; ora c’ è roccia intorno a te, nuda pietra. Se chiami, anche la tua voce si ripercuote… Dove? “Ohooo… Ohooo…” Forse sei finito in una grotta: una spelonca senza fine, un cunicolo sotterraneo… Per anni hai fatto scavare sotterranei sotto il palazzo, sotto la città, con diramazioni che portano in aperta campagna… Volevi garantirti la possibilità di spostamenti dappertutto senza essere visto; sentivi di poter padroneggiare il tuo regno solo dalle viscere della terra. Poi hai lasciato che gli scavi andassero in rovina. Eccoti ora rifugiato nella tua tana. O catturato dalla tua trappola. Ti domandi se mai ritroverai la strada per uscire di qui. Uscire: e dove? Dei colpi. Nella pietra. Sordi. Ritmati. Come un segnale! Da dove vengono? Tu conosci quella cadenza. E’ il richiamo del prigioniero! Rispondi. Bussa anche tu contro la parete. Grida. Se ben ricordi, il sotterraneo comunica con le celle dei prigionieri di stato… Non sa chi sei. Liberatore o carceriere? O piuttosto uno che si è sperduto sottoterra, come lui, tagliato fuori dalle notizie della battaglia in città da cui dipende la sua sorte? Se sta vagando fuori dalla cella, è segno che sono venuti a togliergli le catene, a spalancargli le inferriate. Gli hanno detto: “L’ usurpatore è caduto! Tornerai sul trono! Riprenderai possesso del palazzo!” Poi qualcosa deve aver girato storto. Un allarme, un contrattacco delle truppe reali, e i liberatori sono corsi via per i cunicoli, lasciandolo solo. Naturalmente si è perso. Sotto queste volte di pietra non arriva nessuna luce, nessuna eco di quel che succede là in alto. Ora potrete parlarvi, ascoltarvi, riconoscere le vostre voci. Gli dirai chi sei? Gli dirai che l’ hai riconosciuto per colui che hai tenuto per tanti anni in carcere? Colui che sentivi maledire il tuo nome, giurando di vendicarsi? Adesso siete tutti e due sperduti sottoterra, e non sapete chi di voi è il re e chi il carcerato. Quasi ti sembra che, comunque vada, nulla cambi: in questo sotterraneo ti sembra d’ esserci stato chiuso sempre, mandando segnali… Ti sembra che la tua sorte sia sempre stata sospesa, come la sua. Uno di voi resterà quaggiù… L’ altro… Ma forse lui quaggiù si è sempre sentito in alto, sul trono, con la corona in capo, lo scettro. E tu? Non ti sentivi sempre prigioniero? Come può stabilirsi un dialogo tra voi se ognuno, invece che le parole dell’ altro, crede di sentire le sue, ripetute dall’ eco? Per uno di voi s’ avvicina l’ ora della salvezza, per l’ altro la rovina. Eppure tu non provi più ansia. Ascolti i rimbombi e i fruscii senza più il bisogno di separarli e decifrarli, come se formassero una musica. Una musica che ti riporta alla memoria la voce della donna sconosciuta. Ma la stai ricordando o la senti veramente? Sì, è lei, è la sua voce che modula quel motivo come un richiamo sotto le volte di roccia. Potrebb’ essersi persa anche lei, in questa notte di finimondo. Rispondile, fatti sentire, mandale un richiamo, perché possa trovare la strada nel buio e raggiungerti. Perché taci? Proprio in questo momento ti manca la voce? Ecco un altro richiamo che si leva dal buio, nel punto da cui venivano le parole del prigioniero. un richiamo ben riconoscibile, che risponde alla donna, è la tua voce, la voce a cui davi forma per rispondere a lei, traendola dal pulviscolo di suoni della città, la voce che le mandavi incontro dal silenzio della sala del trono! Il prigioniero sta cantando la tua canzone, come se non avesse fatto altro che cantarla, come se non fosse stata cantata che da lui… Lei replica a sua volta. Le due voci vanno l’ una incontro all’ altra, si sovrappongono, si fondono, così come le avevi già sentite unirsi nella notte della città, sicuro d’ essere tu a cantare con lei. Ora certamente lei l’ ha raggiunto, senti le loro voci, le vostre voci, che si stanno allontanando insieme. inutile che cerchi di seguirle: stanno diventando un sussurro, un bisbiglio, svaniscono.
Se alzi gli occhi vedrai un chiarore. Sopra la tua testa il mattino imminente sta rischiarando il cielo: quello che ti soffia in viso è il vento che muove le foglie. Sei di nuovo all’ aperto, abbaiano i cani, gli uccelli si risvegliano, i colori tornano sulla superficie del mondo, le cose rioccupano lo spazio, gli esseri viventi danno ancora segno di vita. Certo anche tu ci sei, qua in mezzo, nel brulicare di rumori che si levano da ogni parte, nel ronzio della corrente, nel pulsare dei pistoni, nello stridere degli ingranaggi. Da qualche parte, in una piega della terra, la città si risveglia, con uno sbatacchiare, un martellare, un cigolare in crescendo. Ora un rombo, un fragore, un boato occupa tutto lo spazio, assorbe tutti i richiami, i sospiri, i singhiozzi…
Italo Calvino, “Il re in ascolto”
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Nell’immagine: Jean Auguste Dominique Ingres, “Napoleone I sul trono imperiale”, 1806