Linguaggi

Quando potrò camminare libera?

12.11.2021
“Se mi lasci libera,
mi hai già insegnato
come restare”.
Emily Dickinson
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Foto di Sonia Simbolo
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Vorrei essere una donna…
“Vorrei essere una donna
che non si può addizionare,
né sottrarre,
né moltiplicare,
né dividere,
né cancellare,
né diffidare,
né tramortire.

Maram al-Masri

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Foto di Sonia Simbolo
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Anime scalze

“Le ho viste.
Loro,
i loro volti dai lividi celati.
Loro,
gli ematomi nascosti tra le cosce,
Loro,
i loro sogni rapiti, le loro parole azzittite
Loro,
i loro sorrisi affaticati.
Le ho viste
tutte
passare nella strada
anime scalze,
che si guardano dietro,
temendo di essere seguite
dai piedi della tempesta,
ladre di luna
attraversano,
camuffate da donne normali.
Nessuno le può riconoscere
tranne quelle
che sono come loro.”
Maram al Masri, “Anime scalze”
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Avevo un paio di scarpe rosse
“Avevo un paio di scarpe rosse.
Erano di vernice, lucide, col tacco alto, ma nemmeno più di tanto…Avevo un paio di scarpe rosse
Le avevo comprate per indossarle a Natale
le avrei messe nei giorni di festa
Anche se non c’era proprio nulla da festeggiare
Ma io volevo staccare – anche solo per un attimo – da quella solitudine oscura
Dalle urla
Dalle botte
“Denuncialo” mi dicevano
Certo, lo farò
Intanto incassavo come un buon pugile da condominio
Avevo imparato a non urlare
“Stringi i denti”, mi dicevo, “che poi gli passa”,
“poi si calma”.
Dopo rimettevo a posto, quasi tutto
la mia anima no, restava sottosopra, incapace di resuscitare
Vivevo nascosta, l’ ombra era il mio rifugio per occultare i segni di tanta violenza
Certo ero io la vittima, e lui il mio bel carnefice
Era bello, ero bella, eravamo belli e innamorati
Di sera passeggiavamo mano nella mano e sognavamo il nostro futuro…
Cancelli alle porte, sbarre alle finestre, bavaglio alla bocca
Non me ne sono accorta subito
È stato una sera, ha cominciato così
Mi ha strattonata, sono finita in un angolo
Ma un secondo dopo mi baciava le mani e mi chiedeva scusa
Un gesto involontario, mi sono detta
un piccolo attimo di follia, subito rientrato
non accadrà più, gli ho creduto, mi sbagliavo
Dopo quella volta ce ne sono stati altri, tanti altri di momenti così
Non si giustificava più e io ho iniziato ad aver paura
Sempre più paura
Mi nascondevo da lui
Mi nascondevo da me
L’ultima volta, quella precedente alle scarpe rosse,
ho creduto proprio di non farcela
Mi teneva la gola e stringeva, stringeva
Dio quanto stringeva!
Mi sono lasciata andare, un naufrago che smette di nuotare, stremato, vinto
Volevo annegare, ero certa che sarebbe successo
Già l’aria non entrava più e io avevo smesso di difendermi
Ha lasciato, così, all’improvviso
Forse ha creduto che fossi morta davvero quella volta
Me lo diceva. “Prima o poi ti ammazzo”.
Ero stata avvertita.
Ho messo la sciarpa, quei segni violacei alla gola erano proprio brutti da vedere e da giustificare
Sono andata in caserma e ancora una volta mi sono sentita ripetere che dovevo stare attenta
Oh io ci stavo attenta
Nemmeno parlavo più, cos’altro avrei potuto fare?Ho chiesto che lo fermassero, prima che…mi hanno risposto di farmi refertare.
La mia vita per un referto
“Chieda aiuto, possibile che non ci sia nessuno disposto ad aiutarla?”
Già, possibile che non ci sia?
Tornavo verso la mia prigione
Ho visto quelle scarpe rosse, mi guardavano invitanti
Erano pronte per me
Le ho indossate, le ho portate via con me
Volevo che fosse Natale, volevo cancellare tutto quel terrore che mi mordeva la gola
Volevo essere bella, volevo che fosse bello, volevo che fossimo belli, ancora una volta, o solo per quella sera
Mi ha trovata con le scarpe ai piedi
Non ha avuto esitazioni questa volta, cercava un motivo, uno qualunque: e
questa volta ha stretto, ha stretto, ha stretto
Ho chiuso gli occhi, le scarpe scintillavano immobili
Quando sono venuti a prendermi nessuno ci ha fatto caso, mi hanno
portata via che ancora le indossavo
Nessuno ha osato togliermele
Qualche giorno dopo le mie scarpe rosse sono finite insieme ad altre
tante altre
Sneakers, decolté, stivaletti, ballerine
Qualcuna col tacco 10, sandali eleganti
Altre invece malconce, scolorite, suole del quotidiano
Le mie spiccavano tra tutte, erano le ultime arrivate, nuove, scintillanti
Raccontavano di un’altra storia interrotta, una vita spezzata a metà
Non tutte sono finite nell’allestimento, qualcuna ce l’ha fatta e adesso cammina più fiduciosa
(almeno fino a quando non si ripresenterà alla sua porta)
Portano addosso i segni dell’inferno appena passato:
Colpi alla testa, al volto, al fianco, sguardo viola, tumefatto,
pelle arsa, divorata dall’acido, cicatrici inguaribili
Lui? Lui è stato fermato, ma era ormai troppo tardi…troppo tardi
Ora deve vedersela con la disperazione di chi è rimasto, di chi gliela vuole far pagare
Non certo la legge che ha avuto una manica molto larga nel giudicarlo
(succede sempre così, non è vero?)
ma così è facile, troppo facile
Io? Io sto con le altre, tante altre
guardiamo le scarpe, quelle che ci hanno tolto quando non c’era più niente da fare,
un esercito di cuoio rosso, un tappeto di storie, chilometri di storie
Oggi qualcuno le inscatola, sigilla volti e storie.
Le mette via per la prossima stagione.
Già pronte per il prossimo 25 novembre e, forse, se ne aggiungeranno di nuove.
Staremo a vedere
Ma chi si occuperà di aggiornare il numero?
Di aggiungere volti e date? (le storie si perderanno come al solito)
La cronologia è una cosa seria e non andrebbe trascurata!
Matilde Cesaro – Fonte: Lo spazio di Atena
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Laika, “If you were in my shoes”, 2021
[Foto: Archivio Associazione culturale GoTellGo / cortesia Barbara Piscini, CC BY NC SA]
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Sfido il mio destino, la mia epoca

“Sfido il mio destino, la mia epoca
sfido l’occhio umano
Schernirò le regole ridicole e la
gente
questo è il fine:
colmerò i miei occhi di pura luce
e nuoterò in un mare di sentimenti
liberi.
Ho sfidato la tradizione e la mia condizione assurda
superando il limite consentito dal
tempo e dal luogo.”
Nazik al-Mala’ika
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Le donne
“Le donne sono petali bagnati.
Rincasano la sera come ombre,
ridosso ai muri.
Risuona il ticchettare
di tacco nella strada
sportive o stivali
ciabatte e sandali.
Non tornano sui propri passi
fiutano piste di
animali metropolitani.
Se vedo i loro occhi
sgranati di paura
uso una cortesia
passando all’altro lato della via.”
Fausto Celeghin
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Foto di Letizia Battaglia
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Non posso essere la timida viola e nemmeno lo voglio

“Perché la vita è un grido
e non va
proprio non va
starsene come mosche su vetri
ad aspettare che finisca il giorno.
è necessario un ululato
per non sentirmi solo un tubo vuoto
dalla bocca a…

non ho sapienza mistica
non credo nelle favole e nei crismi
ed è perciò che urlo
se un bruto mi violenta
se mi lacero mentre partorisco
se mio figlio ha una storia disperata
se un lutto mi fa orfana
se i bambini africani muoiono
per l’oro delle chiese e belle dame
se un bambino rapito
viene venduto all’asta dei pedofili
o ai trafficanti d’organi
se ci governa un guitto o un malfattore
se la terra è spartita tra i potenti
se non bastò saltare da un balcone
per non vedere il sangue sulle pietre

Non morirò tacendo
urlo
verso quel cielo indifferente
da spaccargli le nuvole
sarò l’accusa perentoria a tutte le divine strafottenze.

Voglio una voce d’uragano”

 

Cristina Bove, “Non posso essere la timida viola e nemmeno lo voglio”

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Denis Scarpante, da “Inquietudine”
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Fortuna
“Per anni, godere dell’errore
e del suo emendamento,
poter parlare, camminare libera,
non vivere mutilata,
non entrare o sì nelle chiese,
leggere, udire musica che ami,
esser la notte come il giorno un essere.
Non essere sposata per contratto,
stimata in capre,
subire il potere di parenti
o lapidazione legale.
Non sfilare mai più,
non patire parole
che iniettino nel sangue
limature di ferro.
Scoprire da te stessa
altro essere inatteso
nel ponte dello sguardo.”

Ida Vitale, “Fortuna”

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           John Everett Millais, “Ophelia”, 1851-1852

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Katia
“Sono entrata nell’acqua una sera d’autunno
calando dal greto scabroso
tra ciottoli e arbusti, fin dove
– già molle del limo –
il fiume lambisce la sponda.
Sopra il pelo del fiume è un giaciglio gualcito
di foglie e legnetti, come un nido abusato
che vortica piano.
Sotto è il letto di morbida rena
che percorro seguendo i miei passi
nella bruma d’un cielo nebbioso.
Cupo e verde il colore dell’acqua
che s’aggrappa ai miei scarni vestiti.
Come un gatto in un sacco
il mio corpo sprofonda. E’ la resa.
E il mio tempo s’acceca in un gorgo di pena.
Vieni Sposo e m’accogli, nel tuo liquido abbraccio
e nel muto ondeggiare mi culli, leggera.
Finalmente è sostare. E dormire.
Il tuo letto è riposo.”
Silvana Sonno, “Katia”

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Il Volo
“Sei scomparsa, sorella.
Il lungo grido inascoltato
impotente e feroce
ha straziato il tuo cuore.
Eri già morta, prima della Morte
ma a piedi nudi, con ultimo puntiglio
hai allineato le tue scarpette belle
ai margini del letto, dalla parte a te avversa.
Come un dono.
Dalla finestra spalancata
una lama di sole le ha baciate
e in quell’istante tu hai spiccato il volo.
E adesso che il tuo tempo hai liberato
dai battititi convulsi e dai sospiri
lieve fluttui nel vento
e fra sfilacci di nuvole raccogli
i pezzi sparsi della vita andata.
Mentre li afferri ridi, è come un gioco
come acchiappar le bolle di sapone
e ti trovi bambina a ricordare
e ti trovi già donna a disperare
Li ricomponi e rivedi i sorrisi,
i gesti lievi, le carezze morte
ogni lacrima sparsa che hai versato
ogni sogno sognato dentro il buio
ogni luce ogni canto e le parole.
Ah le parole … ne senti
il gusto amaro dentro in bocca
il sapore di miele, d’albicocca
rotonde e spigolose, pur gridate
e quelle che più amavi: sussurrate …
Adesso la tua vita è solo tua,
donna di lunga fede ai propri sì,
che hai scelto di volare, pur senz’ali
donna del volo libero impacciato
dal pesante fardello del dolore
umiliata nei gesti e più nel cuore
sei fuggita su un refolo di vento
hai sciolto le tue pene a filo d’aria
e all’aria affidi gli ultimi perché”
Silvana Sonno
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Per un giunco sottile

“Lava il fetore della perfezione e racconta
il sublime disastro che sei.
Non dimenticare i girasoli sul confine
i corpi immersi nel buio come isole
gli occhi scintillanti nelle tue dieci lune
le dita ladre prima del disprezzo
vergate di terra e fame.
Nello specchio togli le scuse
e perdona la bocca tradita
non pulire la macchia sul pavimento
con il rigurgito di un altro abbandono
e fai scivolare la mano sulla piastrella
dove lasciasti l’impronta del sangue
per ricordarti viva.
Afferra il bastone che ti piegò le ossa
benedici di giorno il silenzio
che difese la testa e il cuore.
Racconta del fiume che strappa
il più sottile dei giunchi e di notte
mormora sul bordo delle ciglia.
Solleva ancora lo sguardo di meraviglia
a cercare la luce rossa nella volta scura
dove l’architetto del tuo destino
nascose la chiave, impara e bacia
la paura che ti ha dato nelle vene
inchiostro d’inquietudine e tempesta.”

Mirela Stillitano, “Per un giunco sottile”

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Perché grida quella donna?

“Perché grida quella donna?
perché grida?
perché grida quella donna?
vai a sapere
quella donna, perché grida?
vai a sapere
guarda che bei fiori
perché grida?
giacinti margherite
perché?
perché cosa?
perché grida quella donna?
e quella donna?
e quell’altra?
vai a sapere
sarà matta quella donna
guarda guarda gli specchietti
sarà per il suo destriero?
vai a sapere
e dove hai sentito
la parola destriero?
è un segreto quella donna
perché grida?
guarda le margherite
la donna
specchietti
uccellini
che non cantano
perché grida?
che non volano
perché grida?
che non danno fastidio
la donna
e quella donna
era matta quella donna?
Ormai non grida
(ricordi quella donna?)”
Susana Thénon (Argentina), in “Paraíso de Nadie” a cura di María Negroni, 2022, traduzione di Adriana Langtry
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Erika Kuhn

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Nellie
“Dopo le urla, i colpi di cinghia – lei strillava – volavano cose,
le porte sbattevano, il pianto amaro,
dal pacchetto sottile, dopo aver spostato la carta delicata,
sollevava le calze trasparenti mojud
e vi faceva scorrere le dita,
sorridendo di nuovo piano come una ragazza.
Iniziava a cantare una canzone di Perry Como,
le piaceva Perry Como e cantava tutto il giorno
la stessa canzone che lui cantava,
al Make-Believe Ballroom Time.
Poi, col reggiseno nero legato con le bretelle alle spalle
lentigginose, si sedeva sul letto, si metteva le calze,
si alzava e le abbottonava alla giarrettiera
che pendeva dal busto nero.
Una grinza di grasso le percorreva la vita, schiacciata
dal busto, diversa dai
tondi che uscivano gonfi dal reggiseno.
E le vidi un livido blu, l’ombra
della fibbia della cinghia sulla coscia.
Però lei cantava di nuovo, e sul busto
metteva un paio di mutandoni rosa,
e per finire, poi, un abito bianco e marrone
a fiori che sembrava un’estate dorata.
Le scarpe bianche con i tacchi erano aperte sulle dita e si vedeva
lo smalto sulle unghie. La bottiglia di smalto, le pinzette,
il rossetto, il rouge, la spazzola e la limetta erano
là sulla toletta che si guardavano allo specchio.
Le labbra nuotavano nella canzone di Como con battute rosso
rosate, culminando in luminosità splendente,
come il cammeo cereo di sua madre
sulla spilla nel cassetto.
Allungava la mano e diceva, “Vieni, caro…”
Camminavamo mano nella mano su e giù per la nostra strada al crepuscolo,
e i vicini gridavano:“Ciao, Nellie!” o “Buona sera,
Signora Hirschman”, e “Ciao, Jackie. Mamma, come sei cresciuto!”
Jack Hirschman, “Nellie”, Traduzione di Raffaella Marzano

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Foto di Letizia Battaglia

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La conocchia

 

“O Bàuci infelice, al ricordo gemendo io piango!
Nel mio cuore ancora hanno calore
queste cose della fanciullezza,
e quelle che di gioia
non furono cenere sono ormai.
Riverse le bambole sui letti nuziali stanno e presso il mattino
cantando più non reca la madre
il filo sulla rocca [la conocchia, appunto] e i dolci di sale cosparsi.
Paura ti fece da bambina la strega
che ha grandi orecchie e su quattro
piedi s’aggira movendo intorno lo sguardo.
E quando, o diletta Bàuci,
sul letto salisti dell’uomo
senza memoria di quello che bambina ancora
avevi udito da tua madre, Afrodite
pietosa non fu della tua dimenticanza.
Per questo ora io piangendoti non
t’abbandono
né i miei piedi lasciano la casa che m’accoglie,
né voglio più vedere la dolce luce del giorno,
né lamentare con le chiome sciolte; ho pudore
del dolore che cupo il volto mi sfigura.”

 

Erinna (V sec. A.C.), da “La conocchia”

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Canto le donne

 

“Io canto le donne prevaricate dai bruti
la loro sana bellezza, la loro “non follia”
il canto di Giulia io canto riversa su un letto
la cantilena dei salmi, delle anime “mangiate”
il canto di Giulia aperto portava anime pesanti
la folgore di un codice umano disapprovato da Dio.

Canto quei pugni orrendi dati sui bianchi cristalli
il livido delle cosce, pugni in età adolescente
la pudicizia del grembo nudato per bramosia,
Canto la stalla ignuda entro cui è nato il “delitto”
la sfera di cristallo per una bocca “magata”.
Canto il seno di Bianca ormai reso vizzo dall’uomo
canto le sue gambe esigue divaricate sul letto
simile ad un corpo d’uomo era il suo corpo salino
ma gravido d’amore come in qualsiasi donna.

Canto Vita Bello che veniva aggredita dai bruti
buttata su un letticciolo, battuta con ferri pesanti
e tempeste d’insulti, io canto la sua non stagione
di donna vissuta all’ombra di questo grande sinistro
la sua patita misura, il caldo del suo grembo schiuso
canto la sua deflorazione su un letto di psichiatra,
canto il giovane imberbe che mi voleva salvare.
Canto i pungoli rostri di quegli spettrali infermieri
dove la mano dell’uomo fatta villosa e canina
sfiorava impunita le gote di delicate fanciulle
e le velate grazie toccate da mani villane.

Canto l’assurda violenza dell’ospedale del mare
dove la psichiatria giaceva in ceppi battuti
di tribunali di sogno, di tribunali sospetti.
Canto il sinistro ordine che ci imbrigliava la lingua
e un faro di marina che non conduceva al porto.
Canto il letto aderente che aveva lenzuola di garza
e il simbolo-dottore perennemente offeso
e il naso camuso e violento degli infermieri bastardi.

Canto la malagrazia del vento traverso una sbarra
canto la mia dimensione di donna strappata al suo unico amore
che impazzisce su un letto di verde fogliame di ortiche
canto la soluzione del tutto traverso un’unica strada
io canto il miserere di una straziante avventura
dove la mano scudiscio cercava gli inguini dolci.

Io canto l’impudicizia di quegli uomini rotti
alla lussuria del vento che violentava le donne.
Io canto i mille coltelli sul grembo di Vita Bello
calati da oscuri tendoni alla mercé di Caino
e canto il mio dolore d’esser fuggita al dolore
per la menzogna di vita per via della poesia.”

 

Alda Merini, “Canto alle donne”

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Io ero un uccello

 

“Io ero un uccello
dal bianco ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci sopra,
non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te
le mie canzoni d’amore.”

Alda Merini, da “La Terra Santa”, 1984

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Farfalle libere

“O donne povere e sole,
violentate da chi
non vi conosce.
Donne che avete mani
sull’infanzia,
esultanti segreti d’amore
tenete conto
che la vostra voracità
naturale non
sarà mai saziata.
Mangerete polvere,
cercherete d’impazzire
e non ci riuscirete,
avrete sempre il filo
della ragione che vi
taglierà in due.
Ma da queste profonde
ferite usciranno
farfalle libere.”

 

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Sfido il mio destino

“Sfido il mio destino, la mia epoca
Sfido l’occhio umano.
Schernirò le regole ridicole e la gente
Questo è il fine:
colmerò i miei occhi di pura luce
e nuoterò in un mare di sentimenti liberi.
Ho sfidato la tradizione e la mia condizione assurda
superando il limite consentito dal tempo e dal luogo.”

A’isha al Tamuriyya (poetessa egiziana)

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Prima della violenza

“Prima della violenza
viene il poco amore a te.
Prima della violenza
vengono la manipolazione sottile, le bugie grossolane e il controllo.
Prima della violenza
vengono le scuse supplicate e non seguite da reali cambiamenti di comportamento.
Prima della violenza
vengono le menzogne che ti racconti la notte per convincerti che non è niente e che puoi resistere.
Prima della violenza
viene la paura di dire no per non restare sola, perché pensi che senza di lui non ce la farai mai.
Prima della violenza
viene la ricerca delle prove quotidiane della sua sostanziale bontà e non intenzionalità, per poter restare anche quando c’è da fuggire.
Prima della violenza
viene l’illusione, così che, lei, la violenza, ti colga impreparata e inerme.
Prima della violenza
viene la poca fiducia in te stessa,
il poco amore a te,
l’acritica devozione a qualcuno di apparentemente grandioso,
il poco amore a te,
la tendenza a considerare il tempo dell’altro sempre più prezioso del tuo,
il poco amore a te.
Prima di ogni violenza
viene sempre
il poco
pochissimo
amore
a te.”
Manuela Toto
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 Photo by xilius on CanStock Photo
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Poesia sullo stupro a Missoula
“Non c’è differenza tra l’essere stuprata
e scaraventata giù da una rampa di scale
tranne che le ferite sanguinano anche dentro.
Non c’è differenza tra l’essere stuprata
ed essere investita da un camion
tranne che dopo gli uomini ti chiedono se ti è piaciuto.
Non c’è differenza tra l’essere stuprata
e perdere una mano in una falciatrice
se non che i dottori non vogliono essere coinvolti,
la polizia sfoggia un ghigno d’intesa
e nei piccoli centri diventi una puttana patentata.
Non c’è differenza tra l’essere stuprata
ed essere morsa da un serpente a sonagli
se non che la gente domanda se la tua gonna era corta
e perché tu comunque eri fuori.
Non c’è differenza tra l’essere stuprata
e andare a sbattere dritta contro il parabrezza
tranne il fatto che dopo tu non hai paura delle auto
ma di metà del genere umano.
La paura dello stupro è un vento freddo che soffia ininterrotto
sulla schiena incurvata di una donna.
Mai girare da sola in una strada sabbiosa
In mezzo a una pineta;
mai salire su un sentiero che attraversa una montagna brulla
senza quell’alluminio nella bocca
vedendo un uomo arrampicarmisi vicino.
Mai aprire la porta a chi bussa
senza un rasoio che escoria appena la gola.
La paura del lato in ombra delle siepi,
del sedile posteriore dell’auto,
della casa vuota che fa tintinnare le chiavi
come un avvertimento di serpente.
La paura dell’uomo che sorride
con un coltello nella tasca.
La paura dell’uomo contegnoso
nel cui pugno c’è astio sottochiave.”
Marge Piercy, “Poesia sullo stupro a Missoula”
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Il tempo per me
“Il tempo per me é un tempo rubato.
Alla cura.
Stretto.
Veloce.
Di spintoni.
Il tempo per me é un tempo difeso.
Con le unghie.
Desiderante.
Di colpe.
Avanzi nel piatto.
Il tempo per me é un tempo necessario.
Per il cambiamento.
Giusto.
Prezioso.
Esisto.
Il tempo per me é un tempo di verità.
Lotta al privilegio.
Presente.
Determinato.
Sono.
Il tempo per me é tempo per noi.
Di resistenza.
Privato.
Pubblico.
Mi vedo.
Il tempo per me é un tempo dovuto. Un tempo alla pari.
Un tempo di potere.
Sulla mia esistenza. Che é nostra.
Quella di figlie. Di madri.
Un tempo di scarti.
Di donne.”
Penny (Cinzia Pennati), “Il tempo per me” – Fonte: SOS donne
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Matthieu Bouriel Art
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Ancora esisti?
Alle donne vittime della violenza di genere
“Se mi chiudi le labbra col tuo pugno chiuso
io scapperò da te
senza aspettare che un principe venga a riscattarmi
Se fai sanguinare il mio sesso
prendendomi con la forza,
io scriverò versi
che germineranno in ogni cicatrice
Le mie parole ti ricorderanno che fu una donna
colei che cullò il tuo fragile corpo nelle sue viscere
ignara del potere della tua metamorfosi
Perché io sono la madre
a cui continui a lacerare il ventre
Sono io la carne con cui cucini la tua cena
portando dio come tuo invitato
Eppure da lontano
aspetto l’istante reversibile,
il giorno in cui mostrerai il tuo volto
degno di appartenere alla nostra specie;
– uomo capace di sostenere la farfalla tra le mani
senza mutilare le sue ali –”
Marisol Bohórquez Godoy (poetessa e scrittrice colombiana), da “Efecto Mariposa”, 2017
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La mia gonna corta
“La mia gonna corta
non è un invito
una provocazione
un’indicazione
che lo voglio
o che la do
o che batto.
La mia gonna corta
non è una supplica
non vi chiede di essere strappata
o tirata su o giù.
La mia gonna corta
non è un motivo legittimo
per violentarmi
anche se prima lo era
è una tesi che non regge più
in tribunale.
La mia gonna corta, che voi ci crediate o no,
non ha niente a che fare con voi.
La mia gonna corta
è riscoprire
il potere dei miei polpacci
è l’aria fredda autunnale che accarezza
l’interno delle mie cosce
è lasciare che viva dentro di me
tutto ciò che vedo o incrocio o sento.
La mia gonna corta non è la prova
che sono una stupida
o un’indecisa
o facilmente manipolabile.
La mia gonna corta è la mia sfida.
Non vi permetterò di farmi paura.
La mia gonna corta non è un’esibizione,
è ciò che sono
prima che mi obbligaste a nasconderlo
o a soffocarlo.
Fateci l’abitudine.
La mia gonna corta è felicità.
Mi sento in contatto con la terra.
Sono qui. Sono bella.
La mia gonna corta è una bandiera
di liberazione dell’esercito delle donne.
Dichiaro queste strade, tutte le strade,
patria della mia vagina.
La mia gonna corta
è acqua turchese con pesci colorati che nuotano
un festival d’estate nella notte stellata
un uccello che cinguetta
un treno che arriva in una città straniera.
La mia gonna corta è una scorribanda
un respiro profondo,
il casquè di un tango.
La mia gonna corta è
iniziazione, apprezzamento, eccitazione.
Ma soprattutto la mia gonna corta
con tutto quel che c’è sotto è mia, mia, mia.”
Eve Ensler, “La mia gonna corta”,  da “Io sono emozione”
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Marco Cazzato Art
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Le poesie delle donne
“Le poesie delle donne sono spesso
piatte, ingenue, realistiche e ossessive”,
mi dice un critico gentile dagli occhi a palla.
“Mancano di leggerezza, di fumo, di vanità,
sono tutte d’un pezzo come dei tubi,
non c’è garbo, scioltezza, estro;
sono prive dell’intelligenza maliziosa
dell’artificio, insomma non raggiungono
quell’aria da pomeriggio limpido dopo la pioggia.”
Forse è vero, gli dico. Ma tu non sai
cosa vuol dire essere donna. Dovresti
provare una volta per piacere anche se
è proibito dal tuo sesso di pane e ferro.
Ride, strabuzza gli occhi.
“A me non importa
se sia donna o meno. Voglio vedere i risultati
poetici. C’è chi riesce a fare la ciambella
con il buco. Se è donna o uomo cosa cambia?”
Cambia, amico dagli occhi verdi, cambia;
perché una donna non può fare finta
di non essere donna. Ed essere donna
significa conoscere la propria soggezione,
significa vivere e respirare la degradazione
e il disprezzo di sé che si può superare
solo con fatiche dolorose e lagrime nere.
È per questo che tante si rifugiano
nella passività, nell’ordine costituito,
perché hanno paura di quella fatica e
di quelle lagrime che sono necessarie per
riscattare la propria umanità perduta
come un dente di latte, chissà quando,
nel processo sibillino della crescita sociale.
Una mattina un padre generoso ha
legato il tuo dente al pomello della porta
che poi ha spalancato con un calcio e
addio dente di miele che ti faceva bambina
e ancora inconsapevole del ruolo pacato
e gelido che ti aspetta ora come un
cappotto fiorato appeso nell’ingresso e
se vai fuori devi indossarlo se no
rischi di morire assiderata e pesta.
Una donna che scrive poesie e sa di
essere donna, non può che tenersi attaccata
stretta ai contenuti perché la sofisticazione
delle forme è una cosa che riguarda il potere
e il potere che ha la donna è sempre un
non-potere, una eredità scottante e mai del tutto sua.
La sua voce sarà forse dura e terragna
ma è la voce di una leonessa che è stata
tenuta pecora per troppo tempo assennato.
È una voce fiacca, grezza e mutilata
che viene da lontano, da fuori della
storia, dall’inferno degli sfruttati.
Un inferno che non migliora la gente
come si crede, ma la rende pigra,
malata e nemica di se stessa.”
Dacia Maraini, da “Donne mie”, 1974
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Fortuna
“Per anni, godere dell’errore
e del suo emendamento,
poter parlare, camminare libera,
non vivere mutilata,
non entrare o sì nelle chiese,
leggere, udire musica che ami,
esser la notte come il giorno un essere.
Non essere sposata per contratto,
stimata in capre,
subire il potere di parenti
o lapidazione legale.
Non sfilare mai più,
non patire parole
che iniettino nel sangue
limature di ferro.
Scoprire da te stessa
altro essere inatteso
nel ponte dello sguardo.
Essere umano e donna, né più né meno.”
Ida Vitale, poetessa, traduttrice e saggista uruguayana
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Immagine dal web
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What were you wearing?
“Cosa indossavo?
(Com’eri vestita?)
Questo:
a partire dall’alto
una maglietta bianca
di cotone
a manica corta
e girocollo
Questa era infilata
in una gonna di jeans
(anch’essa di cotone)
che finiva appena sopra le ginocchia
e con una cintura in vita
Sotto tutto questo
c’era un reggiseno di cotone bianco
e mutande bianche
(anche se probabilmente non abbinate)
Ai piedi
scarpe da tennis bianche
il tipo di scarpe con cui giochi a tennis,
e per finire
orecchini d’argento e lucidalabbra
Questo è ciò che indossavo
quel giorno
quella notte
il quattro luglio
del 1987
Potreste chiedervi
perché è importante
o perché io mi ricordi
ogni capo di abbigliamento
con questa precisione
Vedete
mi hanno fatto questa domanda
tante volte
Ho ricordato
molte volte
questa domanda
questa risposta
questi dettagli
Ma la mia risposta
così attesa
così prevista
in qualche modo sembra vuota
visto il resto dei dettagli
di quella notte
durante la quale
a un certo punto sono stata stuprata.
E mi chiedo
quale risposta
quali dettagli
potrebbero dare conforto
a voi
che mi rivolgete queste domande
che cercate conforto
laddove
ahimè
nessun conforto
può essere trovato?
Se solo fosse così semplice
se solo potessimo
mettere fine allo stupro
semplicemente cambiando i vestiti
Ricordo anche
cosa indossava lui
quella notte
anche se questo
in verità
nessuno
me l’ha mai chiesto.
Mary Simmerling, “What were you wearing?”
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Giulia Cecchettin (Foto Ansa)
Giulia, massacrata dal fidanzato con 22 coltellate,  l’11 novembre 2023
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Il sesso è un modo per trascendersi nell’altro
“Il sesso è un modo per
trascendersi nell’altro
e separarsi
bellissima espressione terrena
ma per me
il sesso è stato fanciullezza
trascinata a morte
lui diceva
che avremmo giocato
poi chiudeva sempre la porta a chiave
il gioco lo sceglieva sempre lui
quando gli dicevo di smettere
diceva che me l’ero cercata
ma cosa ne sapevo io
degli orgasmi involontari
del consenso
e della scelta
a sette, otto, nove, dieci anni.”
Rupi Kaur, da “Home body. Il mio corpo è la mia casa”, 2022
La prossima volta che lui
“La prossima volta che lui
ti fa notare la
ricrescita dei peli
delle tue gambe ricorda
al ragazzo che il tuo corpo
non è casa sua
lui è un ospite
avvisalo di non
rendersi
malaccetto
mai più.”
Rupi Kaur, da “Milk and honey”

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Foto dal web
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Se domani non torno
“Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma.
Se non ti dico che vengo a cena. Se domani, il taxi non appare.
Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in una borsa nera.
Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia.
Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata.
Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata.
Mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata.
Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato, che erano i miei vestiti, l’alcool nel sangue.
Ti diranno che era giusto, che ero da sola.
Che il mio ex psicopatico avesse delle ragioni, che ero infedele, che ero una puttana.
Ti diranno che ho vissuto, mamma, che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria.
Lo giuro, mamma, sono morta combattendo.
Lo giuro, mia cara mamma, ho urlato forte così come volavo alto.
Ti ricorderai di me, mamma, saprai che sono stata io a rovinarlo quando avrai di fronte tutti quelli che urleranno il mio nome.
Perché lo so, mamma, non ti fermerai.
Ma, per quello che vuoi di più, non legare mia sorella.
Non rinchiudere le mie cugine, non privare le tue nipoti.
Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia.
Sono loro, saranno sempre loro.
Combatti per le loro ali, quelle ali che mi tagliarono.
Combatti per loro, che possano essere libere di volare più in alto di me.
Combatti per urlare più
forte di me.
Possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.
Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima.”
Cristina Torres-Cáceres, “Se domani non torno”
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Immagine Pixabay
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Viola
“Il mio nome è Viola,
bella,
bella come quando la paura passa.
Porto il nome di tutti gli avi
e il profilo del paese basso che mi vide nata.
Porto occhi scuri e capelli tanti di tutte le mie donne.
Andai via da lui,
sulla forza delle spalle due figli, pochissime cose e una serie di nutrite infamie.
Ero lontana
ma dietro la porta del nuovo tempo
l’untore scrisse la lettera scarlatta
E mi trovò.
Mi trovò il suo coltello.
Su quell’altare mi sono offerta subito.
Per chiudere gli occhi,
stanchi come pietre,
per salvare i corpi dei bambini
e ripetere loro
di amare
di amare
di amare.”
Silvia Pasanisi, da “Dietro la porta” – Fonte: Lo spazio di Atena
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Foto di Beatrice Orsini
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Giulia
“Mi chiamo Giulia
di me so che non ho mai avuto quattordici anni
e che ho un vestito bianco
da prima comunione.
Voi ce l’avete un corpo,
ancora adesso,
voi che mi avete cosparso di morte,
respirate,
vi coprite d’aria
aria chiusa
alla luce compiacente di un cortile chiuso a sbarre orizzontali e verticali.
Io
ho sei piedi di terra che mi girano sopra
e la mano di un uomo sul cuore.
Ma’,
non è stata colpa mia,
mi hanno preso tutto all’improvviso,
io non volevo mà.
Avevi forza a dire tu
“Stai attenta”.
Scusa mà.
Non volevo
e non volevo morire
Il giorno dopo, poi,
avrei avuto
tutti pieni e in fila i miei quattordici anni
e tutti,
tutti mi avrebbero abbracciato.”
Silvana Pasanisi – Fonte: Lo spazio di Atena
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Erika Kuhn (artista messicana)
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Alessandra
“Alessandra,
il mio nome è Alessandra,
sono nata nel solstizio d’estate.
Morta
ventitré anni dopo
con sette mesi di alba in corpo.
L’avrei chiamata Alba, sì,
ora però io e lei abitiamo lontano,
nel tempo di mezzo di un dio che non governa le cose.
Alla quinta botta nel basso ventre
Ho visto le voci di tanti venirmi in contro,
separare da me quello che amavo.
Lui,
lui aveva le mani obbligate
obbligate dal ritmo convulso sul mio corpo,
fino a finirlo
in una calda forma di sangue.
I tanti,
quegli stessi,
prima non c’erano.
Nessuno credeva alle mie parole mai dette.”
Silvia Pasanisi – Fonte: Lo spazio di Atena

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La rabbia della sopravvissuta
“Sono stufa di testimoniare il mio dolore –
giornalisti che mi chiedono di cantare una ninnananna per
i miei figli morti, da mandare in onda durante le commemorazioni,
funzionari governativi che usano la mia storia come propaganda
durante le elezioni, attiviste che mi forzano a parlare
dello stupro solo per dimostrare che le donne sono oppresse,
ricercatori che dicono che stanno registrando la storia quando
non fanno altro che girarmi il coltello nella piaga.
È la mia storia, non la vostra. Dopo che avete spento
i registratori io rimarrò in casa a piangere.
Perché la gente non capisce? non sono un eroe,
né sono Dio, e non sopporto parlare di perdono.
Per anni sono andata a ogni veglia. Ho pianto a ogni
funerale. Continuavo a chiedere: Perché? Ma non
capirò mai. Ora a malapena sopravvivo piantando
cetrioli, e lei mi ha interrotto, credendo
in un mondo diverso dove regna la giustizia, guardando
i figli che mi restano mentre dormono. Risparmiatemi la vostra disperazione
e comprensione. Non potete resuscitare i morti, sfamare
i miei figli affamati, portarmi dignità e rispetto.
Prendetevi la storia e andatevene via. Non tornate mai
più, non ne voglio sapere.”
Choman Hardi (scrittrice iraqena), da “Considering the Women”, traduzione di Paola Splendore per “La crudeltà ci colse di sorpresa”
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