Pensieri

Exercices négatifs. En marge du Précis de décomposition

12.11.2021

Il caso Sartre

 

In un paese estenuato da secoli di gusto, nulla è più inevitabile – e addirittura più divertente – che assistere all’apparizione di un Barbaro la cui vitalità trionfa d’una tradizione raffinata, e la cui capacità intellettuale si burla delle superstizioni del finito e dell’equilibrio. Allorché l’intelligenza francese, avendo sostenuto troppe prove, sembrava minacciata di sterilità, arrivò Sartre, come un rinnovamento sconcertante, per accaparrarsi tutti i campi, e con una tale avidità di cambiarne i termini e finanche i dati, che si scambiò un movimento di superficie per un rivolgimento, e una curiosità così ampia per qualcosa di profondo. Tanto vigore negli artifici dell’intelletto, tanta facilità nell’abbordare tutti i settori dello spirito e della moda, unita all’esasperazione di essere ad ogni costo contemporaneo, dovevano e devono incantare. Sartre è un conquistatore, il più prestigioso dei nostri tempi. Nessun problema gli resiste, non c’è fenomeno che gli sia estraneo, nessuna tentazione lo lascia indifferente: tutto gli sembra buono da affrontare e da vincere, dalla metafisica fino al cinema. È un impresario della filosofia, della letteratura, della politica, la cui riuscita ha solo una spiegazione e un segreto: la sua mancanza di emozione; non gli costa nulla affrontare qualunque cosa, giacché non vi mette alcun accento, essendo tutto unicamente il frutto di un’intelligenza avvolgente, immensa, attualmente la più notevole.

La filosofia esistenziale rappresentava un orientamento del pensiero, situato tra il sistema e l’ispirazione; il lirismo vi recitava la sua parte; essa traeva il proprio valore dall’impopolarità dei tormenti e delle sofferenze soggettive, inaccessibili al gran pubblico; richiedeva persino una sorta d’iniziazione a sventure rare e inutili, incompatibili con la salute e la storia. Kierkegaard dissimula dietro i concetti i suoi momenti di grande prostrazione, i terrori intimi, prossimi all’apocalisse e alla psichiatria; le impudicizie della malattia vi sono così ben velate, da assumere l’aspetto d’un canto astratto e d’una geremiade dotta; Giobbe e Hegel vi si ritrovano, ma sono le esclamazioni del primo che danno quella sensazione di vissuto, senza la quale diventa un’impostura parlare di disperazione e di morte. Heidegger raccoglie l’eredità di Kierkegaard da professore: ne deriva una costruzione magnifica, ma insipida, in cui le categorie restringono le esperienze esistenziali, [in] un catalogo d’angosce, [in] un archivio di disastri. Le tribolazioni dell’uomo come la poesia della sua lacerazione vi sono insegnate. È l’irrimediabile eretto a sistema, ma non ancora passato in rassegna né esposto come un articolo di successo. Qui s’inserisce l’apporto di Sartre, manifattura d’angoscia, ostentazione dei nostri ultimi turbamenti, messa in opera dei nostri scrupoli e delle nostre inquietudini. La sua intenzione non fu certo quella di banalizzare i grandi temi della filosofia esistenziale; del resto, L’essere e il nulla contiene pagine che superano, nel loro delirio terminologico, quelle più ripugnanti di Hegel e potrebbero appassionare solo gli intenditori, lusingati di evolvere nell’ignoto, e compiaciuti d’una valanga verbale che, soffocando le realtà autentiche, offre parole in cambio d’esperienze. La responsabilità di Sartre è, per così dire, unicamente storica; essa è riconducibile alla sua qualità, secondo noi suprema, di contemporaneo; ha fatto di tutto affinché le sue idee fossero sulle labbra di tutti; nessun altro ha sfruttato il proprio pensiero come lui il suo, né tuttavia vi si è identificato meno di lui. Nessuna fatalità lo perseguita: nato all’epoca del materialismo, ne avrebbe adottato il semplicismo conferendogli un’estensione insospettabile; del romanticismo filosofico, avrebbe fatto una summa di fantasticherie; sorto in piena teologia, avrebbe maneggiato Dio con un’abilità senza precedenti. Non vivendo alcun dramma, è capace di tutti. Mentre in un Kierkegaard e in un Nietzsche si sente che sarebbero stati gli stessi in qualsiasi epoca, che i loro abissi e le loro ossessioni erano delle verità di temperamento, indipendenti dalle sfumature di una civiltà, in Sartre si percepisce una mancanza di necessità interiore, che lo rende adatto a ogni forma spirituale. Infinitamente vuoto e meravigliosamente ampio, è il tipico pensatore senza destino, benché ne abbia uno, straordinario, ma puramente esteriore. La sua abilità e la sottigliezza ad affrontare a viso aperto i grandi problemi sconcertano: tutto è notevole, salvo l’autenticità. Se parla della morte, non ne ha il fremito; i suoi disgusti sono riflessi; le sue esasperazioni fisiologiche sembrano inventate a posteriori; egli [è] l’anti-poeta, profondamente parallelo ai sogni. Ma la sua volontà è talmente lucida ed efficace, che egli potrebbe esser poeta se lo volesse, e aggiungerei, santo, se ci tenesse. Un intelletto demiurgico che ricorda Valéry: ma costui era troppo artista; Sartre non patisce una tale limitazione… Egli non ha, per dirla come si deve, né preferenze, né pregiudizi…; le sue opinioni sono accidentali; dispiace che vi creda; solo il cammino del suo pensiero è interessante… Non mi stupirei di sentirlo predicare dal pulpito più che nel vederlo far professione d’ateismo, tant’è vero che sembra indifferente a qualsiasi verità, che le padroneggia tutte, e nessuna gli è indispensabile né organica… Un orientamento di pensiero, pomposamente chiamato «esistenzialismo», e che avrebbe dovuto essere il frutto d’un ripiegamento su se stessi, egli l’ha diretto [all’] esterno e, sostituendo il «noi» all’«io», ne ha fatto un principio di salvezza collettivo. Un libro appena intelligibile è diventato la Bibbia di tutti; pochi l’hanno letto, ma tutti ne parlano. È il destino della metafisica nell’epoca delle masse; il nulla circola; è sulla bocca di tutti… Rovescio della medaglia: a Sartre si richiamano il nichilismo da boulevard e l’amarezza dei frivoli… Incarnando così poco quell’esperienza interiore, la moltitudine ne fa, inconsciamente, il protagonista […]”

 

Il suicidio come mezzo di conoscenza

 

Per uccidersi occorre esser sorpresi dalla sventura, bisogna esser capaci di concepire le cose altrimenti. Solo un’anima candida invasa dalle delusioni, può risolversi a un atto così capitale. Chi non è avvezzo a credere alla vita, pienamente allenato a non attendersi nulla da essa, non oserà mai terminare con un gesto un’amarezza inveterata. Oramai ha acquisito un automatismo nella sventura; è salvo. Sa fin troppo bene che niente smentirà quella melma d’irreparabile in cui si è arenata la sua speranza, e che nel suo cuore gli esseri e le cose hanno deposto tutta la loro quintessenza d’orrore e putredine. Per farla finita con se stessi, è indispensabile aver immaginato la felicità per tanto tempo, essere disponibili alla novità, e a essere schiacciati dall’inaudito. Ma per un veterano della sventura non c’è nulla d’inaudito; per lui tutto è interminabile; le sofferenze si concatenano ma non finiscono mai; l’irreparabile, lungi dall’essere una rivelazione, è un sistema, il suo sistema. Così, egli ricusa la genialità del suicidio; per uccidersi bisogna sapere cosa uccidere. Ma quando si trascina la propria assenza e, con essa, non tanto i dispiaceri ma la loro idea, non si può liquidare nella carne l’astrazione di quel che non c’è, né annegare nel sangue l’ideale mancanza di consolazioni. Di cosa disfarsi, infatti, quando non si appartiene più a niente, quando non si può più mendicare alcuna illusione, quando le lacrime reclamano una prodigiosa iniziativa e immani risorse? Il suicidio richiede ancora entusiasmo, ispirazione: una giovane, intraprendente sventura, assetata d’azione e asservita ai riflessi.

Ma ve ne sono alcuni che, esitanti, a forza di riflettere si sono accasciati sulla soglia della loro stessa soppressione. Mille volte si sono uccisi col pensiero e mille volte hanno ricominciato a essere.

Hanno vissuto i loro giorni come delle vigilie e dei domani del suicidio. Ogni volta hanno ucciso qualcosa in essi; quel che resta costituisce la loro «vita».

Così, l’atto più importante che un individuo possa compiere, essi l’hanno convertito in esercizio, in mezzo di conoscenza. Tutto quel che sanno lo devono a quei momenti d’indeterminatezza e di viltà, a quelle tentazioni geniali e mancate. La percezione tagliente delle apparenze, in cui si agitano enigmi sciocchi e mostruosi, ha fatto accumulare loro così tanta infelicità nitida e perturbante, che essi passano la loro vita a dissiparla, a consumarla, non avendo altra ricchezza né gloria all’infuori di essa.

(Ogni individuo sente il bisogno di scusarsi del suicidio che non ha compiuto. Chi sarebbe tanto modesto da confessare di non aver mai avuto l’intenzione di uccidersi? Si rispetta l’orgoglio degli altri concedendo loro che si sono ricreduti all’ultimo momento. Per vivere in comune occorre dispensare un’assoluzione tacita alla vita altrui. La fierezza d’esistere è compromettente; tutti – a diversi gradi – la nascondono, essendo troppo forte e offensiva per gli altri. Essa non trapela che ai funerali…)

 

Incoerenze sul matrimonio

 

Non c’è istituto di cui si possa dire più male e più bene. Tutto vi è implicato, l’eternità come il bidet. Contratto di due impudichi; spasmo benedetto da sindaco e curato; regolazione dei sospiri; grugnito simultaneo fino all’agonia…

Ammiro tutti gli sposati: il loro coraggio o incoscienza mi sgomenta. Legarsi ufficialmente sino alla morte, mi dà la vertigine: è la più grande avventura che si possa intraprendere e, in rapporto alla quale, l’esplorazione dei poli è un mero svago. La vita assieme è sicuramente più glaciale…

L’assurdità di una tale impresa esigeva una correzione: perciò occorre riconoscere che l’idea più sensata, più ragionevole che l’uomo abbia concepito, è quella del divorzio. Solo quest’idea rende il matrimonio sopportabile, così come quella del suicidio, la vita. Due scappatoie senza le quali ogni istante sarebbe un martirio.

Il celibe è un essere senza mistero, egli ha capito, è prudente, nulla ha osato; ogni marito, al contrario, è un giocatore: ha rischiato tutto nell’avventura più quotidiana e desolante, nello sciocco eroismo del letto comune, della tomba comune. Lo spettacolo d’una coppia atterrisce, come ogni miscuglio d’audacia e abiezione. Portare un anello: ricorda un carcerato plaudito che esibisce trionfalmente la propria vergogna, è l’assentimento più terribile all’inganno.

Di fronte a quest’inganno, tuttavia, il celibe si annoia: non può ignorare l’immenso, sordido respiro che anima i matrimoni.

 

Emil Cioran, da “Exercices négatifs. En marge du Précis de décomposition”,  2005
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Nell’immagine: Il manoscritto di Emil Cioran,  con il titolo “Exercices négatifs” cancellato e sostituito con “Précis de décomposition”.

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