Pensieri

Alexandros Panagoulis, un uomo

27.11.2021
“S’agapò tora ke tha s’agapò pantote.”
“Cosa significa?”
“Significa: ti amo ora e ti amerò sempre.”
“Ripetilo.”
Lo ripeto sottovoce.
“E se non fosse così?”
“Sarà così.”
Tento un’ultima vana difesa.
“Niente dura per sempre, Alekos. Quando tu sarai vecchio e…”
“Io non sarò mai vecchio.”
“Sì che lo sarai. Un celebre vecchio coi baffi bianchi.”
“Io non avrò mai i baffi bianchi. Nemmeno grigi.”
“Li tingerai?”
“No, morirò molto prima. E allora sì che dovrai amarmi per sempre.”

“Non mi aiuti, allora, mi consegni agli sbirri! Tanto a che serve…” “Soffrire, battersi? A vivere, ragazzo mio. Chi si rassegna non vive: sopravvive.”
Poi: “Cos’hai in mente, ragazzo?”
“Una cosa e basta: un po’ di libertà.”
“Sai sparare, mirare giusto?”
“No.”
“Sai fabbricare una bomba?”
“No.”
“Sei pronto a morire?” “Sì.”
“Uhm! Morire è più facile che vivere ma ti aiuterò.”

“Qualcosa scivolò nella mia borsa che divenne molto pesante. ”Alekos, che cosa ci hai messo dentro?” ”Ferma, non guardare, non toccare. Due frammenti della scalinata.” ”Due frammenti della scalinata?!? Non volevi che rubassi un sasso e hai preso due frammenti della scalinata?!?” Risatina compiaciuta: ”Ah, cosa non farei per te! Ladro mi rendi, ladro!” (…) ”Bene. Vediamo cosa hai rubato.” Tirai la lampo della borsa, con ansia gioiosa, e subito il mio sorriso si spense. Dentro non c’erano frammenti di marmo, ma due scatolette di latta color verde mela. ”Alekos, che roba è?” ”Tabacco. C’è anche scritto: Golden Virginia, hand rolling tobacco.” (…) Sollevai un coperchio, la carta stagnola, e subito ogni dubbio svanì. Conoscevo bene quella pietra ruvida, gialla. Potevo illustrartene tutte le caratteristiche e le proprietà. Ciò che avevi messo nella mia borsa come un giocattolo o un dono era il tritolo. Due belle saponette di tritolo.

“L’abitudine è la più infame delle malattie perché ci fa accettare qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portar le catene, a subire ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto.
L’abitudine è il più spietato dei veleni perché entra in noi lentamente, silenziosamente, cresce a poco a poco nutrendosi della nostra inconsapevolezza, e quando scopriamo d’averla addosso, ogni fibra di noi s’è adeguata, ogni gesto s’è condizionato, non esiste più medicina che possa guarirci.”

”Cosa vuoi farne Alekos?” Mi rispondesti con una domanda: ”Dimmi, l’amore cos’è?”. ”Forse è portare in borsa due saponette di tritolo.” ”Brava. Portarle o affidarle. Te le ho affidate di proposito, per dimostrarti che l’amore è amicizia, è complicità. L’amore è una compagna con la quale si divide il letto perché si divide un sogno, un impegno. Io non voglio una donna con cui essere felice. Il mondo è pieno di donne con cui si può essere felici, se è la felicità che si cerca. Infatti ho avuto tante donne che a pensarci bene cinque anni di prigione sono stati un riposo. Però non ho mai avuto una compagna. E voglio una compagna. Una compagna che mi sia compagno, amico, complice, fratello. Sono un uomo in lotta. Lo sarò sempre. Lo sarei ovunque e comunque. Anche in paradiso. Non so concepire un modo diverso per vivere e per morire. (…) Il tritolo non c’entra. Il tritolo è un momento nell’esistenza di un uomo in lotta. Del resto non mi piace il tritolo. Non mi piace la violenza, qualsiasi forma di violenza: non sarei mai capace, io, di far saltare un autobus di bambini come fanno alcuni in nome della patria o di qualche altra fottuta ideologia. (…)” ”Cosa vuoi farne, Alekos?” ”Cosa? Ascoltami, cinquecento grammi di tritolo sono una miseria. Però si possono fare moltissime cose con cinquecento grammi di tritolo. Basta un detonatore, una miccia, un po’ di fantasia. E una compagna che ci aiuta. Ho bisogno di te. Mi servi.” ”Per andare a spasso e raccattare scatole di Golden Virginia senza dare nell’occhio?” ”No, per molto di più. Per non essere solo. Se mi aiuti, ti dico cosa voglio farne.” Quella voce. Quegli occhi. C’era un demone in quella voce, in quegli occhi: una passione lucida, fredda, incontrollabile, da ossesso che in nome della sua fede può commettere qualsiasi assurdità, rovinare la propria vita e quella degli altri. (…) ”Mi aiuterai?” ”Certo.” ”Bene. Hai presente l’Acropoli…?”

Il piano dell’Acropoli era una gloriosa follia. Consisteva nell’occupare il recinto archeologico all’ora in cui viene chiuso al pubblico, poi nell’innalzare la bandiera rossa sul Partenone, non perché ti piacesse il conformismo della bandiera rossa ma perché il rosso dava fastidio alla Giunta e spiccava bene sul bianco dei marmi, infine nel tenere il Partenone in ostaggio con la minaccia di farlo saltare in aria. ”Alekos, due saponette di tritolo non basterebbero neanche a far saltare in aria una colonna!” ”Naturalmente. Ma loro non lo sanno che abbiamo due saponette e basta. E appena ne avrò fatta esplodere una a scopo dimostrativo…” ”Non ti crederanno.” ”Mi crederanno. Perché mi credono capace di tutto, anche di distruggere il Partenone.” ”Lo distruggeresti davvero?” ”Neanche morto.”

Oriana Fallaci, da “Un uomo”, 1979

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Esistiamo?

“Esistiamo?
Sì.
Quando al pensiero mettiamo limiti
Quando al volere diamo forza


Quando nell’oggi gettiamo inquietudini
Quando nel domani seminiamo speranze


Quando nel nulla vediamo valori
Quando negli idoli dimostriamo fede


Quando come animali accettiamo l’esistenza

No
Poiché non troviamo la ragione della presenza
Spirando sul cammino della ricerca”

Alexandros Panagoulis, da “Altri seguiranno”, 1973

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La tinta

“Ho dato voce ai muri
gli ho dato voci
perché mi facciano un po’ di compagnia
I secondini cercano e ricercano
dove ho trovato la tinta
I muri della cella
tengono il segreto
i mercenari frugano e rifrugano
E lo stesso non trovano la tinta
Non gli è venuto in mente
di frugarmi le vene”

Alexandros Panagoulis, “La tinta”

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Anni di lotta contro Papadopoulos e contro il regime greco dei colonnelli, condanna a morte, carcere, torture, più di tre anni trascorsi nella “tomba” di Boiati…

Si muore ogni giorno che si chiede rifugio all’ignoranza, che si accetta la paura per guida. Ogni volta che si dimentica il passato, che si vede il presente con occhi appannati, che non si ha interesse per il futuro e che si respira solo per morire.

Perché questo significa essere un uomo:

Significa avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell’umanità. Significa amare senza permettere a un amore di diventare un’àncora. Significa lottare.
E vincere.

Alexandros Panagoulis

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Nelle foto: Alexandros Panagulis e Oriana Fallaci e La prigione di Boiati, che Panagoulis definì “la tomba”: una costruzione di due metri per tre,  dove rimase chiuso per cinque anni subendo le peggiori sevizie fisiche e psichiche. Qui Panagoulis compose alcune delle sue poesie più struggenti, scrivendole  sulle pareti col suo stesso sangue, prima di riuscire ad ottenere della carta, ma soltanto dopo ripetuti scioperi della fame.

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