“A me è successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente, non volevo, in fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo, per egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se era rischioso. Anche se tu non vuoi, anche se, infine, la tua felicità non dipende da me. E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro. Verresti?
E’ difficile, lo ammetto, scrivere come io mi senta, nonostante il sole che impaziente bussa alla finestra, lo scalciare del cane che sogna accanto ai miei piedi, e il tuo nome in bilico sulla bocca umida del ricordo della tua saliva. Non ho passi né pelle che si riscaldi a quel contatto. Oggi un altro pezzo di me è andato via. Chissàddove. Lessi una frase che diceva che amare qualcuno significa innanzitutto comprenderlo, l’altrove oltre il quale continuiamo a esistere senza soffocare e fagocitare. L’altrove dove io ti trovo, ti custodisco e non ti perdo.
Dopo una lunga pausa, nella stanza bianca, con il traffico dell’una che scorreva oltre la finestra, inconsapevole di quella imbarazzata intimità, mi spiegò paterno tra l’iride e la pupilla: deve sforzarsi di vedere il pezzettino dell’altro. Ma suonava come una domanda. Sì, la domanda che un terapeuta sa bene dover formulare sotto forma di consiglio, spinta fin sotto la costola. (Ho visto il tuo pezzettino? Erano castelli, e stanze appartate, e infinite autostrade, e prati, e mari agitati, e vicoli senza uscita. Eri tu. Il tuo pezzettino, nascosto gelosamente sotto la tua giacca. Me lo mostreresti? Il tuo pezzettino intendo…)
Quella non-domanda mi parve rivelatrice: nonostante la distanza delle tue azioni dalla maniera in cui vivo e sono abituata a sentire, ho capito che dovevo rispettare le tue decisioni, quella polifonia di emozioni con braccia e gomiti che si muovono diversamente dalle mie. “Il dolore è mio” ringhiasti. E scrivo lettere in cui ti aggredisco, aggredisco la tua distanza e cerco di mangiarmela, ma è tutto violento. Violenta questa voglia di riafferrarti e non lasciarti andare via. È la geografia delle nostre esistenze, la terra e i suoi modi che hanno svezzato e orientato il nostro amare differente. Nonostante mi ferisse ho ritagliato il mio spazio nei tuoi ‘domani’, in quel dolore che masticavi sempre più ferocemente e che, chissà perché, credi abbia bisogno della mia assenza. Così ho ingoiato parole come cocci di vetro ben appuntiti, ho rimandato le domande al mittente, ho asciugato accenni di lacrime su gote troppe assottigliate, e sorriso a chi mi sta intorno, dissimulando dolore.
Non so come si faccia a starti accanto, a dirti parole giuste, ad amarti da qui, dove hai messo la striscia gialla, un punto inarrivabile, mobile, liquido. Scivola in fondo.
A volte nel bel mezzo di un pranzo o davanti a una vetrina quel rigurgito doloroso mi sorprende. Una vertigine emotiva che ho imparato a gestire. È così chiaro quello che mi hai detto qualche minuto fa che non lascia scampo: “non lo so se ci vedremo…”. Così, verrò nella tua città facendo finta che sia un altro il motivo, e non tu. In fondo è stato sempre così nell’ultimo periodo. I tempi di riconciliazione dei corpi pelle a pelle si erano dilatati così tanto che anche le voci metalliche dietro al telefono sembrano sempre più estranee. Ma poi accadeva di rincontrarsi e rimarginarsi nulla nell’altra. C’era però anche rabbia nella tenerezza, e necessità di possessione nell’assenza, mi dirai. Possessività, quella è una parola che con te non va usata. Dai non scappare.
Ho bisogno di te. Forse non dircelo è stata la menzogna che ci siamo scambiate. Forse non dirselo è stata la bugia peggiore che potevamo dirci. In silenzio, intendo, da sole dissimulando amore, macinando distanza fino a non scorgersi più. Senza te io posso esistere. O no? Vedi, ecco quel dubbio, quella domanda, io avrei dovuta ascoltarla quel giorno in aeroporto, quando addossata a una delle tante pareti anonime infestate da cartelloni pubblicitari, in lacrime mi guardavi andare via. Mi chiedevi di restare, ma quando ti ho chiesto perché sei rimasta in silenzio. Sono andata via, soffocata dentro il mio cappotto pensavo di fare quello che ‘non mi hai chiesto’. Non mi voltai. Non girarti Orfeo.
Poi, una manciata di tempo e pelle dopo, la tua voce spezzata al telefono alla vigilia di Natale. Il dolore, l’attesa, l’avvilimento del non essere lì nel momento esatto in cui la tua voce si faceva crea. Sarei venuta subito con ogni mezzo, anche in autostop pur di starti accanto e fare da fazzoletto alle tue lacrime da bambina, avrei leccato ogni crepa e soffiato sulle tue ginocchia sbucciate in quell’addio che è come una macchina del tempo per il tuo dolore. Una famiglia con una neonata mi avrebbe dato un passaggio, partenza alle 4:00 del mattino del primo gennaio. A metà tra il vecchio e il nuovo, il passato e il presente, in macchina con sconosciuti per ore e milachilometri. Lo farò. L’arrivo è in una regione vicina alla tua di sera, ma non mi preoccupo, saprò arrangiarmi. Prepara la valigia, prepara l’anima. Ho paura. Ci vediamo all’ingresso dell’autostrada, mi dice la donna al telefono che ha voluto inviata la mia carta di identità, e chiesto un riassunto della mia vita per accertarsi che non fossi una squilibrata. Il 31 dicembre è in pieno svolgimento. Tutti festeggiano, io non sono andata alla festa, no mi spiace non mi va, lo so che non cambia nulla se rimango in casa, ma mi sembra di mancarle di rispetto, e poi non ho voglia di festeggiare… (non c’è nulla da festeggiare) sapendoti sola e spezzata in un altrove senza me, sì stanotte mi metto in viaggio con una famiglia di sconosciuti che ho contattato su Blablacar, dico al mio amico prima di salutarlo . In casa sono sola, con le finestre chiuse, le tapparelle serrate e il cane che abbaia ai fuochi d’artificio che fanno tremare tutto. Sembra ci sia una guerra lì fuori. Tu non rispondi al telefono, ti chiamo, tu non rispondi al telefono, ti scrivo, mi dici che non sai se vuoi vedermi, ti chiamo non rispondo, ti scrivo, mi dici che non sai nulla, ti chiamo, ti scrivo, tu non rispondi. Ho paura, non è questione di orgoglio, giuro. Così non me la sento di essere rifiutata, se mi guardi vedrai come tremo e sia instabile. Mi scusi, ma purtroppo ho visto che quando arriveremo nella vostra città non ci sono coincidenze e non saprei davvero come raggiungere “la tua città”, grazie per la disponibilità, grazie (respiro, respiro, respiro. Non respiro) …gra..gra-zie e buon anno.
Partirò cinque giorni dopo.
Ti avrei offerto la mia voce per pronunciare l’addio a tua madre. Traccio sul foglio traiettorie che ti sfiorano, sarò nella tua città senza la tua ombra addosso. Andrò da un’amica, farò degli incontri di lavoro e imboccherò il gate girandomi senza scorgerti, senza averti rivista per l’ultima volta. Se non vorrai vedermi, smetterò di capirti. Sarà una risposta abbastanza eloquente, lo sarà almeno per me. E nonostante ti penserò ogni giorno, e ogni giorno mi preoccuperò per te. E nonostante ci sentiremo di tanto in tanto per sapere come stai, io ‘non ci sarò più’. Avrò imparato quella lezione che per tanto tu mi hai impartito: quel binomio di Io-e- giustadistanza. Imparerò a gestirla quella vertigine, imparerò a non cadere e cedere. Pensavo di avere smesso di amarti, poi tutto è tornato, come spesso è accaduto in questi anni. Una notte ti ho chiamata, avevo intenzione di dirtelo e dirti che mi sarei presa cura di te, che non sarei andata via come ho fatto in passato. Ma tu non hai risposto. Questo grande dolore che ti fagocita, questa perdita che hai subìto nella tua vita non ti ha avvicinata a me. Il lutto spesso diventa necessità di scelta, ci ricorda del tempo e fa da spartiacque tra cosa sia importante e cosa no. Ora ho capito su quale lato del foglio io sia. Imparerò ad accettarlo. Prima che tu dica pronto, vorrei dirti un’ultima volta che Ti amo.
Ps.: e tutto quello che segue, gran parte, è quello che avrei voluto dirti e che spesso in silenzio ti dico… (o che avrei voluto tu dicessi a me, che è anche più doloroso). E non vorrei mai che tu scoprissi questa pagina e queste parole, perché ti conosco, e so che ti infastidirebbero, ti direbbero tutto il contrario di quello che c’è dentro, le troveresti come un’invasione di spazio e un “metterti con le spalle al muro”. Sì, così mi diresti. “
Vorrei portarti con me. Resisteresti poco, al freddo senza l’afa estiva ma sarebbe un’esperienza diversa, no? Poi ti riporterei indietro, come è giusto che sia. Ma per un po’ ti porterei con me. Ti racconterei le cose che non avrò il tempo di finire di dirti. Solo per quello, per trovare il modo che duri di più. Ti farei guardare il mare freddo, così apprezzeresti il tuo. Ti farei una foto e la lascerei nel cassetto per le volte che avrò voglia di guardarti con i capelli scompigliati e il sorriso accennato. Mangeremo e dormiremo poco perché non ci sarebbe il tempo; tutto quello che vorresti cercherei di dartelo. Ti farei esprimere un desiderio e lo esaudirei. Solo uno, perché tre non sarei capace. Ti farei almeno un paio di domande scomode, perché così ti fideresti di me; perché così, se ti telefonassi almeno una volta, sussulteresti un pochino e quando deciderai di andare via, ci sarà almeno una volta in cui vorrai tornare. Vorrei che ti fossi innamorata di me, per chiedermi di restare. Ma forse tu impieghi tanto per innamorarti e allora è per questo che vorrei portarti con me: per farti innamorare.
Verresti?
No, non verrei. Perché dovrei? Non credo che mi riporteresti indietro, non voglio che tu faccia di tutto per me. Il suono è simile a quello della tua voce, non della mia: vorrei che lo capissi e te ne rendessi conto. Le tue parole sono esigenti e mi si stringono al cuore. L’unisono tra di noi non funziona. Il moto di due anime in una non esiste. Non vorrei foto di questo momento, né motivi per lasciare che non finisca. È doloroso da ricordare. Cosa c’è di poetico in una sensazione moritura? Se lo volessi, non farei in modo che arrivi la fine. Perché è questo il punto: io sto facendo in modo che l’ultimo secondo di tutto accada, capisci? Permettimi di dire di no. Permettimi di non esserti accanto. Permettimi di decidere di non esserci come vuoi tu. Pensare che sia per due, per renderti i pensieri più facili; lo sai che mi stai raccontando una bugia mentre mi chiedi “verresti?”
Certo che lo sai.
Venire? Cosa potrebbe dire? Cosa saremmo?
La mia automobile scivola da sola verso casa mentre rileggo le tue parole. Cerco di trovare interpretazione, tentando di valicare le frasi così come sono – cunei – e trovarci l’intenzione inespressa di dire dell’altro. Cerco titubanze, virgole, mi soffermo sui dettagli. Ma io di dettagli non capisco nulla. Non so come sono fatti, in verità. Potrei rimanere attaccato alla balaustra a due mani, mangiare tutte le merendine della macchinetta accanto all’ingresso del gate pur di restare a guardare il fiume da un lato e la strada dall’altro. Fissare l’asfalto fino a farmelo entrare negli occhi e bucarmeli per non vedere la via di casa: questo dovrebbe accadere affinché io vada via da qui e mi rassegni alle tue parole. Credevo di non essere capace di rimanere in silenzio a guardare.
Sono solito pensare di me cose molto positive: grande cuore, grande testa, spirito d’iniziativa, forte indipendenza; pensavo di non essere capace di restare a guardare inerme. È una di quelle circostanze che non si addicono agli spiriti vincenti. È come ammettere di avere un buco scoperto e lasciare che qualcuno ci infili un dito dentro, stracciando carne e tessuti, graffiando vasi, fino a tingere di rosso i vestiti e non poter, così, celare l’affanno. Eppure io sono un tipo sveglio, non mi lascio abbindolare facilmente; ho sempre saputo tenerle a distanza e prosciugarne il necessario. Ecco, sì: non sono mai andato al di là del necessario con quasi nulla. Solo di foglie d’albero ne ho troppe, perché ne faccio collezione. Ne ho mangiate molte di merendine della macchinetta ma adesso, alla guida, con le mani poco convinte e smaniose, non ne ricordo il sapore singolo e anche gli incartamenti mi paiono tutti uguali. Non posso distinguere il caramello dal fiordilatte e questi dal cioccolato: ho un solo amalgama appiccicaticcio nella bocca.
Mi sembra strano sentirmi così sopra le righe. Mi sembra strano, ancora, sentire quegli occhi addosso. I tuoi e i miei insieme, che erano altro, lo sono stato lo so, lungo il fiume e poi sono irrimediabilmente scomparsi dopo un battito di ciglia. Un movimento fisiologico ne ha decretato la fine ed io lo vado cercando, adesso, mentre mi dirigo verso casa, seguo la scia per provare a seguirti.
Che pena. Sperare, intendo. È la pena di chi non sa rinunciare. Non so raccontare una volta in cui tu mi avevi detto di essere felice, in effetti. E nemmeno una volta in cui te l’ho detto io, d’altronde. Non credo minimamente di esserti venuto incontro per davvero, con foga ed eccitazione, per abbracciarti di sorpresa. Non mi viene in mente la prima volta che t’ho visto. So quand’è, con precisione, perché io ero al bancone di un bar con una ragazza che mi piaceva molto. E che ho abbracciato con slancio e voluto tante di quelle volte da essermene invaghito e addirittura innamorato a un certo punto. Ricordo d’averti preso in consegna nella mia mente, ma non d’averti visto. Non so nemmeno com’eri vestita. So solo che ti sei passata una mano tra i capelli, il gesto più comune che si possa recuperare nella memoria. Eppure io l’ho registrato. In realtà potrebbe essere falso. Potrei aver traslato la mano di un altro sulla tua e adesso cucirti addosso un movimento che non t’è appartenuto. Avevi un braccialetto che si compra al mare, di quelli di cotone colorato, che dicono porti fortuna e poi, un giorno, si spezzi per far avverare un desiderio. Di quelli che hanno tutti, eccetto me, poiché io non li sopporto: rimangono bagnati per ore, dopo la doccia, ed umidi sulla pelle. Mi sono chiesto quale potesse essere il tuo desiderio. È la prima cosa su cui mi sono interrogato guardandoti quella volta e pensandoti i giorni successivi. Se tu avessi un desiderio sopra tutti, se fosse legato a quel braccialetto o a un sentimento. Ho sentito il bisogno di saperlo, come se fosse il tuo nome. Avevi anche un anello costoso. Sottile, ma prezioso. Un anello facile, che non sorprende se lo regali. Non so perché l’avessi notato. Niente a che vedere coi tuoi occhi, mi rendo conto. A chiunque avessi chiesto di te nei giorni seguenti, continuavo a dire di non avere in mente i tuoi occhi: eppure sono meravigliosi. Non mi viene un’altra parola in mente. Dovrei inventarla ma non sono capace, tu lo sai. Posso fartelo intuire ma non so spiegarlo.
Non capisco perché non me li sono incollati addosso. Avevo notato di te solo i dettagli peggiori fra tutti gli altri; ciononostante ti cercavo già il giorno dopo. Mentre passeggiavo sotto casa tua, nelle sere a seguire, speravo di notare i tuoi movimenti alla finestra oppure con chi saresti uscita. Desideravo vederti da sola, che, una volta sull’uscio, ti guardassi intorno e vedendomi rimanessi piacevolmente compiaciuta. Avrei voluto essere io nei tuoi sogni, a ispirare i tuoi sonni e farti felice. Ma lo so di non potere. Eppure questa consapevolezza non m’ha fatto smettere di volerti portare via con me. Non capisco. Non capisco cosa vuoi dire. Mi pare assurdo che tu pensi di poter amarmi. Quanto abbiamo passato insieme? Non capisco perché tu voglia portarmi con te. Non sai nulla. Ti ho rubato anche un sorriso triste quella sera. È andata così: io ti ho guardata per un momento, mentre ti passavi le mani nei capelli, e stavi sorridendo, ma non alla persona con cui parlavi. Sorridevi, rivolta verso il basso come per un pensiero veloce da far svanire. E, rivolto di nuovo il tuo volto verso l’alto, ti ho sorpresa triste, come se quel pensiero felice andasse celato. Sorridi solo quando qualcuno o qualcosa ti fa ridere, ma non dovresti. A me piace, ma non dovresti. La felicità pare si auguri a tinte pastello e così mi tocca fare, con te, adesso: cercare di farti togliere dal viso i tuoi sorrisi tristi, come ho sempre fatto, d’altronde.
Potremmo essere in giro a passeggiare in una città qualunque, col caldo, mano nella mano e io dovrei accorgermi del tuo sorriso triste e allora darti un bacio o prenderti il viso e farti fare una smorfia che mimi la gioia. Sorrideresti e il mio desiderio di felicità per te sarebbe compiuto. La verità è che i tuoi sorrisi tristi a me piacciono, perché a te stanno bene, perché li sai trattare, li sai adoperare e mettere in fila senza che rompano le righe. Se lo facessi io sarei penoso.
Questo è il punto: faccio pensieri e desidero cose nuove. Non importa cosa so. Per la prima volta, non importa. Non so da dove vengono o come si chiamino e non potrei spiegarle a nessuno eccetto te, con un po’ di tempo, con un po’ di pause, con quei silenzi che non saprei riempire, all’inizio. Ma potrei imparare. Sono un pessimo romantico, lo ammetto. È per questo che non sono riuscito a farti innamorare. Lo so che è così. Ho immaginato che potessi bastare io, con i miei modi normali e l’aria spavalda. Fintamente sicura. E del tempo, per spiegarti quello che manca, per farti vedere che ne sarebbe valsa la pena, alla fine. Ho provato, che dire, a farmi scegliere. Ho sperato. Dovevo. Era una possibilità, capisci? Come fare a metterla via, a dimenticarla. Forse aspettando, forse non era il momento. Forse io e te abbiamo un altro tempo. Sono sicuro che con qualche giorno in più, ora in più, ti avrei portato via con me. È l’idea che almeno una volta succeda, no? Hai presente? Quell’idea invasiva e sotterranea che si inabissa o si palesa e lo fa una volta sola per tutte e se l’avverti non puoi far finta di niente se hai un po’ di senno. Come un sibilo fluttuante e sinuoso. A me è successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente, non volevo, in fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo, per egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se era rischioso. Anche se tu non vuoi, anche se, infine, la tua felicità non dipende da me.
E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro. Verresti?”
Italo Calvino, da “Prima che io dica pronto”, in “Gli amori difficili”, 1970