Linguaggi

Lettere poetiche

30.11.2021
“Una Lettera mi è sempre parsa come l’immortalità,
perché è la mente da sola,
senza compagno corporeo.”
Emily Dickinson
*****
A mio padre
(Frammento di una lettera mai tradotta)
“A mio padre
…lo so che la tua notte arriva prima ora
la vita vuole indietro tutti i suoi arretrati
lo so che ora il silenzio s’aggira per la stanza
e ti solleva i lembi del lenzuolo
che le finestre si richiudono a riccio
che certe sere la luna ti casca nel piatto
e ti spaventa
che bisogna avere occhi sulla nuca
vecchio mio
per schivare le trappole per strada
so che ora i tuoi sogni si guastano anzitempo
che è duro rimediare quelle cose banali di una volta
tanto semplici trite familiari
come guardarsi indietro
o cercare un momento frugando tra i capelli
che incrociare uno specchio
può risultar fatale
lo so che già da tempo sei in pieno inventario
tutto è passato in fretta
e ti darei una mano
e addirittura un braccio
ti appenderei al collo quel poco di coraggio
che mi resta
ti prenderei in spalla per non guardarti in faccia
per non farti l’affronto
delle lacrime
non avere paura
vecchio mio
è il vento che svolazza…”
Milton Fernàndez
*****
John Koch, “Autoritratto, padre e figlio”, 1955
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Ti avrei scritto molto tempo fa 
1
“Ti avrei scritto molto tempo fa ma prima ho atteso
di essere fuori dalla solitudine
ovvero fuori da quella contrada dove gli alberi
stanno in posizione orante,
in se stessi inginocchiati,
e i fiumi scorrono in se stessi,
essendo a un tempo corpo e anima,
impossibili da distinguere; ho atteso
che se ne andasse anche il ragno che
con una punta d’argento si era disegnato sulla spalla
e ora eccomi pronta a dirti
che non ti amo.
2
Sto su un tetto obliquo di lamiera verde,
in pieno sole; potrei scivolare
ma il cuneo del sole mi inchioda
e il cielo stesso dispone le nuvole perpendicolari a me,
tanto da incastonarmi nel suo ordine, e sono come un idolo
di oro verde, con un occhio più grande dell’altro
e un orecchio lungo — quelli che mi concepirono
erano asimmetrici — sto sul tetto inclinato
e ricordo la striscia obliqua dei capelli
sulla tua fronte, l’intera tua natura obliqua
in rapporto all’universo e a me,
l’angolo del tuo corpo che indicava un punto cardinale misterioso
— e dico che non ti amo.
3
Sul tuo silenzio avrei potuto costruire una città.
Nulla si smuoveva, edificavo a vuoto,
un vuoto scintillante di fulmini ispirati.
Una volta costruii perfino un pianeta
dai monti sericei, a forma di uccelli dormienti,
con tre cascate e in ognuna avevo confitto
sette pesci viola e da qualche parte, ricordo,
avevo sepolto in quel suolo inventato un oggetto
per noi, soltanto nostro,
ch’era l’essenza stessa del pianeta, la sua fonte di uranio. Oh
il tuo silenzio — ma forse ero io a non sentire,
forse in quel mentre tu cantavi o ridevi o urlavi
e il silenzio non era che una forma speciale
del tuo canto, del tuo riso, delle tue urla,
forse il tuo silenzio era in realtà quel pianeta sconosciuto, popoloso,
e io non costruivo in un vuoto scintillante
ma cercavo solo di proteggere qualcosa di esistente,
come si protegge un malato di malaria
con una coperta, con un’altra ancora, con il cappotto,
con quattro cuscini finché non scompare
— ma non ti amo.
4
Ti scrivo questa quarta lettere
in una stanza di legno, a un tavolo di legno,
legno dappertutto, incredibilmente tanto legno,
e dappertutto scritte, con l’inchiostro,
la matita chimica, la punta del coltello,
nomi, date, usignoli, treni,
chiavi. (Puoi aprire un
treno con la chiave e calpestare l’usignolo
intirizzito sui binari e apporre la tua firma con
tanto di data).
Ho paura.
Oltre la cornice di legno della finestra
palpita la manica scura dell’abete
notturno; una notte
mi aspettavi, era estate, sul letto avevi messo i miei libri.
Quando entrai, vidi me stessa,
forse non dovevo rimpiazzare
il mio corpo di libri, di carta, di legno,
il mio corpo effimero, così la penso ora,
ora che non ti amo.
5
Se tu cercassi di tirarmi addosso
il lunedì, il martedì, il mercoledì,
lunedì, martedì e mercoledì rimbalzerebbero
cadendo a terra senza suono,
giovedì e venerdì
non possono più ferirmi,
non possono lasciarmi neanche il segno
di un minuscolo ombrello giapponese, del vaccino,
giovedì e venerdì non hanno forze,
sabato non ha forze,
domenica — non so che cosa voglia dir domenica
— non ti amo.
6
Ora sto qui e mi guardo allo specchio.
Posso ringiovanire e invecchiare a piacimento.
Se voglio, posso assomigliare a un animale
o a una pianta, o persino
al progetto di una macchina volante.
Sopra le mie sembianze come lava
vulcanica colasti tu una volta, ma io no, io non divenni pietra,
la prova è quanto accade nello specchio,
le sue stagioni in connubio,
le mutazioni, e soprattutto la mia mano
che sorreggeva un tempo i tuoi occhi
perché non cadessero dalle orbite, come due gocce immense,
quella stessa mano scrive ora che,
ecco, non ti amo.
7
La settima lettera te la scrivo appoggiata a un muro grigio.
Ricordo la tua bocca obliqua,
il tuo abbraccio che mi soffocava,
tutto il fasto di quella sala da ballo
dove gli errori miei si innamorarono
a prima vista l’uno dell’altro,
il fatto che lasciasti cadere la clessidra e che, di colpo,
il tempo mi abbandonò,
e ricordo il gesto con il quale mi mandasti a morte.
Sono appoggiata al muro di un tribunale
ma dirò soltanto questo:
Non ti amo.
E ancora lo ripeterò: Non ti amo.
Solo questo. Non ti amo.
Non ti amo.”

Nina Cassian, poetessa rumena, pseudonimo di Renée Annie Cassian-Mătăsaru

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Jan Vermeer, “Donna in azzurro che legge una lettera” 1663 circa

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Al risveglio

“Al risveglio ho trovato
con la luce una lettera.
Ma non posso sapere
che dice: non so leggere.

E non voglio distrarre
un sapiente dai libri:
ciò che c’è scritto forse
non lo saprebbe leggere.

La terrò sulla fronte,
la terrò stretta al cuore.
Quando scende la notte
ed escono le stelle,
la porterò sul grembo
e resterò in silenzio.
E me la leggeranno
le foglie che stormiscono,
e ne farà il ruscello
col suo scorrere un canto
che a me ripeterà
anche l’Orsa dal cielo.

Io non lo so trovare
quel che cerco, o capire
cosa dovrei imparare,
ma so che questa lettera
che non ho letto, ha reso
più lieve il mio fardello,
e tutti i miei pensieri
ha mutato in canzoni.”

Rabindranath Tagore, “Al risveglio”

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Edmund Blair Leighton (1852-1922), “Donna che scrive” 

 

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Lettera ad Andersen

 

“Io la ringrazio
signor Hans Christian
per le favole molto infantili.

Per lo spazzacamino che amava la pastorella.
Per l’usignolo perché aveva un cuore vivo.
Per il vetrino della regina della Neve.
Per la triste sorte del soldatino di stagno.
Per la principessa sul chicco di pisello.

Per l’Ombra
che dappertutto mi accompagna
e per ogni brutto anatroccolo
il quale adesso sa
che diventerà
un cigno.”

Joanna Kulmowa, “Lettera ad Andersen”

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Frammento di una lettera a Diego Rivera

“Non me ne frega niente di quello che pensa il mondo.
Sono nata puttana.
Sono nata pittrice.
Sono nata fottuta.
Ma sono stata felice sulla mia strada.
Io sono amore.
Io sono piacere.
Sono essenza.
Sono un’idiota.
Sono un’alcolizzata.
Sono tenace.
Io sono, semplicemente
sono.
(E tu sei una merda)
Frida Kahlo, “Frammento di una lettera a Diego Rivera”
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Lettera a me stessa

“Io ti porterò dove schiudersi
è delicato, come un’ala di farfalla
non un bisturi ma voli accennati,
esitanti. Ci saranno lampioni serali
appena illuminati e un’aria fresca
di neve in estate.
Molti amici avranno le finestre accese,
amici silenziosi e musicali, amici.
Qualcuno verrà a prenderti alla stazione,
ti porterà la valigia e acqua fresca.
Sarai suono e anche passo di danza,
i piedi bendati saranno alati
sull’asfalto tiepido e ci sarà respiro
di tigli. Una mezzanotte
ti aspetterà in compagnia,
l’allegro di Mozart sul giradischi,
le finestre aperte e le lenzuola stirate,
bianche. Sembra la morte, vero?
Ti dico che certe volte la vita è così.
Amore che battezza la deriva.

Chandra Livia Candiani, “Lettera a me stessa”

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                                Foto di Shirin Neshat

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Lettera di una madre araba al figlio

“La libertà
è un grido
l’esplosione di una corda
in un petto che non ne può più
La libertà
è la madre della forza,
la Bella tra le belle,
dea della saggezza,
perché il mondo diventa sordo
ai gridi delle madri,
perché Il mondo
non prende più nelle sue braccia
la gazzella ferita
sfuggita alla pallottola del cacciatore…
Perché ci sono
Tra noi, figlio mio,
montagne,
mari,
venti
e notti senza colore
ritmate
da paure e speranze.
Sii figlio mio
la goccia d’acqua
che insieme alle altre gocce
formerà l’onda
che pulirà la costa del mondo
e addolcirà le rocce acuminate
Figlio mio sii il soffio
che si unirà all’aria
perché la tempesta
strappi le radici dell’ingiustizia
Sii la scintilla
di luce,
che il sole della libertà
illumini il tuo paese.
La tua vita mi è cara …
Come quella dei bambini di tutte le madri.
Io ti dedico
figlio mio
alla libertà”
Maram al-Masri, “Lettera di una madre araba al figlio”
*****
Jan Vermeer, “La lettera” o “Fantesca e signora che scrive una lettera” , 1667

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Solo occhi

“Caro perduto condivisore
di silenzi,
ti manderò una lettera
nel modo in cui l’albero manda messaggi
attraverso le foglie,
o il cielo con esclamazioni
di pura nuvola.

Quindi scrivo
in questo blu
inchiostro, colore
di segrete vene
ed arterie.
Qui è mattino.
Già il postino percorre

le strade innocenti,
pericoloso come Eolo
con la sua borsa di venti,
o come Ermes, il messaggero,
dio del sonno e dei sogni
che traccia la mia immagine
su questo francobollo.

Negli edifici pubblici
le lettere vengono pesate
e classificate come carne;
nelle stazioni ferroviarie
pesanti sacchi di posta
vengono nascosti come il bottino del ladro
dietro porte di vagoni merci.

E in un’altra città
il prestigiatore
terrà un ventaglio di lettere
davanti alla tua mano tesa-
“Prendi una carta…”
Tu devi rompere la busta
così come romperesti il pane.

Solo allora scuri fiumi
d’inchiostro fonderanno
e scorreranno
sotto tutti i ponti
che non costruimmo
tra noi.”

Linda Pastan, “Solo occhi”

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“La lettera che non ti ho mai scritto racchiude strali di inutile poesia.
È la speranza. il sogno, la tempesta,
un paesaggio che rassomiglia al mio silenzio.”
Olga Tamburini
*****

Lettera a mia figlia

“Un giorno, all’improvviso
mentre ti starai pettinando, in silenzio
o mentre ti infilerai una calza
ti verrà in mente un mio gesto
e ti ritroverai a sorridere pensandomi…

Un giorno, all’improvviso
pedalando veloce sotto le prime gocce
di una calda pioggia di settembre
sentirai un odore arrivarti al naso
e risvegliare un ricordo di mestoli e tegami
e mi vedrai davanti al fuoco, per un attimo

Un giorno, all’improvviso
farai qualcosa che facevo anch’io
proprio allo stesso modo in cui la facevo io
e te ne meraviglierai moltissimo
perché non avresti mai pensato
di potermi somigliare così tanto

Un giorno, all’improvviso
ti guarderai il dorso delle mani
e con il pollice e l’indice
ti pizzicherai la pelle , sollevandola
e conterai il tempo che impiega a stendersi
pensando a quando lo facevi alle mie mani

Un giorno, all’improvviso
ti ritroverai stanca, ad abbracciare un figlio
mi chiederai scusa per le volte che ho pianto
sapendo già che ti son state tutte perdonate
E ti mancherò da fare male

Ma sarò con te in ogni gesto
o nel muoversi delle foglie
nel frusciare di un gatto nel giardino
o nelle orme di un pettirosso sulla neve
come solo l’eterna presenza di una madre
lo può.”

Carolina Turroni, “Lettera a mia figlia”, 2014

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Lettera a …
“Da anni ti attendo in silenzio. Tu vieni
quando vorrai. So che verrai. Sei
la terra su cui poggio i piedi
il ramo da cui guardo il mondo.
Ma il giorno in cui mi sarai accanto
come una madre raramente amata
con l’agonia del figlio tra le braccia
non riuscirò a vederti. Ti sentirò soltanto.
A bocca spalancata e muta ti dirò eccomi.
Basta il movimento delle labbra. Le parole
non servono. Sorda ad ogni voce
umana o non umana
sollecita soltanto ai sospiri dell’anima.
I tuoi occhi volti all’indietro
nel non luogo della notte
mi riconoscono. Mi chiamerai per nome?
Quando verrai sarà un giorno tranquillo
simile a quello che mi ha visto nascere.
Nelle luci soffuse il parlare sottovoce
di uno sparuto coro accoglierà il tuo arrivo.
Un sommesso lamento qualche lacrima lenta.
Mi sarà data in dono
come Orfeo a Euridice
una rosa da custodire tra le mie mani sul petto.
E tu in piedi davanti al mio corpo
disteso sulla terra bianca delle lenzuola
somiglierai al mio sogno di donna
che mai mi ha stretto tra le sue braccia.
Quando verrai il tuo sorriso sarà l’invito
a rifugiarmi tra le tue. Sono fredde
ma mi faranno fremere perché è da tempo
che attendo di ricongiungermi
al buio caldo e umido del tuo corpo.
Vieni quando vorrai.
Sarai la serenità che ho atteso per aprire le ali.”
Marcello Comitini, “Lettera a…” – 06/01/2021
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Epistola ai poeti che verranno
“Forse domani i poeti chiederanno
Perché non celebriamo la grazia delle ragazze;
chissà domani i poeti chiederanno
perché le nostre poesie
erano lunghi viali da dove giungeva l’ardente collera.
Io rispondo: da ogni parte si udiva pianto,
da ogni parte ci circondava un muro di onde nere.
Doveva essere poesia
una solitaria colonna di rugiada?
Doveva essere un lampo perpetuo.
Io vi dico:
finché qualcuno patisca,
la rosa non potrà essere bella;
finché qualcuno guardi il pane con invidia,
il frumento non potrà dormire;
finché i mendicanti piangano di freddo la notte,
il mio cuore non sorriderà.
Uccidete la tristezza, poeti.
Uccidiamo la tristezza con un palo.
Vi sono cose più grandi
che piangere l’amore di pomeriggi perduti:
il rumore di un popolo che si sveglia,
quello è più bello del rugiada.
Il metallo risplendente della sua collera,
quello è più bello della luna.
Un uomo veramente libero,
quello è più bello del diamante.
Perché l’uomo si è svegliato,
e il fuoco è fuggito dal suo carcere di cenere
per bruciare il mondo dove stava la tristezza.”
Manuel Scorza, “Epistola ai poeti che verranno”
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Jonathan Wolstenholme
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Egregio Signor Tanto
“Egregio Signor Tanto,
sono lieta di sapere, dalla sua lettera di anni,
che ha trovato
finalmente, una stanza al buio tutta per sé –
in pieno centro, da quel che mi scrive –
immagino così possa proseguire i suoi studi sul canto –
interrogarsi, quando il sole è alto, sul disincanto –
al riguardo non posso più esserle d’aiuto – le nostre conversazioni
hanno dentellato le nostre direzioni
e oggi siamo in possesso di chiavi che aprono a voci che non si aspettano –
le auguro di sapere quando cominciare e di non ritrovarsi nel poco
– ne hanno sempre sofferto le sue mani –
e spero di rincuorarla dicendole che alle ossa non ha nessuna
malattia
–e nemmeno agli occhi –mi chiede se è in grado secondo me di prendere e dare
– ne è in grado –
ma le invio il referto dell’udito
–pare lo abbia del tutto perso e, suppongono, per un amore
pochissimo – al punto che tutt’oggi è impossibile
cercarglielo dentro
–non esiste nemmeno una cura al riguardo – non la reggerebbe
–escludono anche una trasfusione di senso –
al momento non esiste abbastanza sangue solo per lei –
dunque,
prego perché resti così com’è e se ne faccia tanto una casa
–un mondo – un’abbondanza nella biblioteca di Dio.”
Saragei Antonini, da “Egregio signor Tanto”, 2013
*****
Foto: Cordon Press
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Lettera a mia figlia
“Non è stato facile, credimi, attraversare il 1944
attraversare notti buie e senza rumori
mentre il vento muoveva la casa nell’universo.
Era una navicella che volava alta sulle brughiere
di un paese lontano, che attraversava macchie sconfinate
battute solo dal freddo e dalla neve.
Sarei tomato amore mio, diceva la notte, sarei lì con te
se i miei piedi non fossero volati via come foglie nel vento d’autunno.
Come niente avrebbe aperto la porta
avrebbe scricchiolato la scala di legno
avrei sentito il colpo dei suoi passi di uomo.
Avrei sognato.
Non è stato facile, con le granate che inchiodavano
i rami del pesco al terriccio dell’orto, diventare una donna.
E ho aspettato tanto prima di sedermi a bere un bicchiere di latte
o mentre uscivo la mattina presto incontro alla mia vita.
Si dice che ogni vita migliora quella precedente
ma anche la ripete nella sua parte più disperata
chi viene dopo e più sofferente, e, credimi, Alba,
una vita non è sufficiente per capire qualcosa
ma due sono necessarie per vedere almeno un sorriso
lampeggiare in fondo agli occhi, schiarire un poco la mia vita.
Io te lo lascio il mio giovane marito che non è tornato e quella strada
che altri percorreranno ma non lui: “un giorno – mi dirai – la Russia
mamma, uccide i suoi poeti, quelli più belli, i più giovani
i più emozionati, ma non dobbiamo preoccuparci, essi ritorneranno
cavalli, baci, corvi, cieli chiari, navi a volte persino torneranno
sotto false sembianze per insegnarci i loro nomi… cavallo Aleksandr…
bacio Sergej… corvo Osip… cielo chiaro Marina… nave Vladimir… “
Alba Donati (pseudonimo di Alba Franceschini), da “La repubblica contadina”, 1997
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Diego Rivera, “Agrarian Leader Zapata”, 1931
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Lettera ai poeti che verranno
“Forse un domani i poeti domanderanno
perché non celebriamo la grazia delle ragazze;
magari chiederanno
perché le nostre poesie
erano lunghi viali dai quali proveniva
ardente collera.
Io rispondo:
da ogni parte s’udiva piangere,
da ogni lato ci stringeva un muro di onde
nere.
La poesia avrebbe dovuto essere
una solitaria colonna di rugiada?
Doveva essere un fulmine perpetuo.
Io vi dico:
finché qualcuno soffrirà,
la rosa non potrà essere bella;
finché qualcuno guarderà il pane con invidia,
il grano non potrà dormire;
finché i mendicanti piangeranno di freddo la notte,
il mio cuore non sorriderà.
Uccidete la tristezza, poeti.
Uccidiamo la tristezza con un palo.
Non raccontare la storia d’amore dei gigli.
Vi sono cose più alte
del piangere l’amore dei pomeriggi perduti:
il rumore di un popolo che si risveglia,
quello è più bello della rugiada.
Il metallo risplendente della sua collera,
quello è più bello della luna.
Un uomo veramente libero,
quello è più puro del diamante!
Il poeta libererà il fuoco
dal suo carcere di cenere.
Il poeta accenderà il rogo
dove brucia questo mondo cupo.”
Manuel Scorza (scrittore e militante peruviano, più volte condannato all’esilio per il suo impegno politico a favore delle comunità indigene)
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