“I vizi capitali fanno la loro prima vaga comparsa in Aristotele che li qualifica: “abiti del male”. Essi, al pari delle virtù, derivano dalla ripetizione di azioni che, iterate, formano nel soggetto un “abito” o, come dice Aristotele nell’Etica a Nicomaco, una “seconda natura”, che inclina l’individuo in una certa direzione. Di qui l’importanza dell’educazione, il cui scopo è di allenare il giovane all’acquisizione di abiti buoni.
I vizi capitali
1. Ira
“Adirarsi è facile, ne sono tutti capaci, ma non è assolutamente facile, e soprattutto non è da tutti adirarsi con la persona giusta, nella misura giusta, nel modo giusto, nel momento giusto e per la giusta causa.”(Aristotele, Etica a Nicomaco, 1109 a.)
Per questa sua componente irrazionale, l’ira, come ci ricorda Aristotele, non è da confondere con l’odio
Le donne più degli uomini piangono di rabbia e si sentono colpevoli sia per la rabbia, sia per il fatto di non saper reagire adeguatamente. E in questa inadeguatezza c’è anche un leggero tratto di immoralità che Freud ha indicato nell’ “evitamento”, per cui, invece di esprimere direttamente la loro rabbia, le donne preferiscono ricorrere ad attacchi psicologici come la maldicenza o l’ostracismo sociale, e nello “spostamento” che consiste nello sfogare la propria rabbia su una persona diversa da quella che l’ha provocata e che non si ha il coraggio di affrontare.
2. Accidia
E chi mai l’avrebbe detto che tra i vizi capitali avremmo trovato la noia che i medievali chiamavano “accidia” e che Pascal descrive come:
“La risultante dell’alterazione degli umori in presenza di deprecabili azioni morali tipiche di chi, avendo abusato del piacere, si trova nell’impossibilità di desiderare?“
Fino ad arrivare alle conclusioni di Flaubert: “Mi sento vecchio, usato, nauseato di tutto. Gli altri mi annoiano come me stesso. Ciò nonostante lavoro, ma senza entusiasmo e come si fa un compito. Non attendo altro dalla vita che una sequenza di fogli di carta da scarabocchiare in nero. Mi sembra di attraversare una solitudine senza fine, per andare non so dove. E sono io stesso a essere di volta in volta il deserto, il viaggiatore e il cammello.“
Si tratta di quello stato affettivo che gli inglesi chiamano melancholy o spleen, i francesi ennui, gli psichiatri neuroastenia e Pietro Citati: “Gas inavvertito in ogni angolo dell’Occidente”.
E la noia ha il sapore di chi ha la sensazione di aver perso qualcosa che ha solo toccato e mai posseduto. Ma non è questa la condizione più nobile dell’uomo? Quella di toccare senza possedere le cose più alte?
3. Invidia
Qui i Greci (e in generale il mondo antico) erano molto più saggi di noi. Essi evitavano di attribuire le virtù e i successi agli individui, perché li interpretavano come dono degli dèi. Invidiare il beneficiato dal dio equivaleva a offendere il dio stesso, e questo era un atto di empietà.
4. Superbia
“Quando ti elogiano non insuperbirti. Sappi piuttosto che quando ti elogiano non sei ancora sulla tua strada, bensì su quella di un altro.”
(F. Nietzsche, Umano troppo umano.)
5. Avarizia
“Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all’osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi eccetera, tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro che né i tarli né la polvere possono consumare.” (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844)
Il desiderio dell’avaro non va mai al di là del denaro, perché agli occhi dell’avaro il denaro non è un mezzo per qualcos’altro, ma un fine in sé, anzi la forma pura del potere che il denaro possiede alla sola condizione di non essere speso.
Così ragiona l’avaro (e secondo Marx anche il capitalista) per il quale l’avere è il fondamento del suo essere, la garanzia della sua identità: “Io sono ciò che ho”. Per lui la proprietà privata (dal latino privare che significa “portar via agli altri”) non è finalizzata all’uso, ma al possesso.
6. Gola
Perché è così difficile darsi una misura nell’assunzione del cibo? Perché gusto e olfatto sono i sensi più arcaici che mettono in moto le zone più primitive del nostro cervello, quelle su cui i nostri ragionamenti, i nostri propositi, la nostra buona volontà hanno una scarsissima incidenza.
Col cibo si combatte l’angoscia del niente e si ripara il vuoto esistenziale, ristabilendo il contatto con i propri punti di riferimento corporei. In un certo senso, come tutte le malattie, anche la bulimia ha un ruolo funzionale, anzi terapeutico: ci si ammala un po’ per non morire
L’aroma della cucina materna o quella del paese natio hanno un potere di evocazione che suscita nostalgie senza pari, quando quel piatto particolare non lo ritroviamo più. E non c’è né caviale, né foie-gras, né cassoulet de crètes de poularde bressanne con tartufi del Périgord a scaglie che possano compensare il triestino della perdita della minestra di rape o il brianzolo della fetta di pane secco spalmata di lardo. Non è solo una faccenda di olfatto e di gusto, ma di emozione, di evocazione e di memoria.
Dopo la desessualizzazione dei corpi, oggi regolati più dall’igiene che dal piacere, ci stiamo avviando verso la deprivazione del gusto.
7. Lussuria
Quando la donna era inchiodata alla natura e l’uomo libero di mettersi in scena nella storia, la differenza sessuale era marcata dall’appartenenza ai due diversi scenari. Oggi che l’emancipazione femminile ha confuso gli scenari viene a galla un’altra verità: che i sessi sono meno diversi di quanto si pensi, anzi tendono a confondersi se non a scambiarsi, perché nessuno di noi è per natura legato a un sesso. L’ambivalenza sessuale, l’attività e la passività, per non dire la bisessualità e la transessualità sono iscritte nel corpo di ogni soggetto, e non come differenza legata a un determinato organo sessuale.
Umberto Galimberti, da “I vizi capitali e i nuovi vizi”
Nell’immagine: “Sette peccati capitali”, attribuito a Hieronymus Bosch, 1500-1525 circa