Unità che è anche continuità nel tempo, ché dagli albori della civiltà indiana, dei quali gli scavi fatti a Mohenjodaro e ad Harappa ci hanno dato imprevedute rivelazioni, fino ai tempi nostri vediamo le stesse idee e le stesse concezioni, ora più vive ora più languide, permeare, sia pure sempre arricchendosi di nuovi elementi, tutte quante le forme di vita e di pensiero di questo popolo. Se uno volesse trovare una parola sola per esprimerle potrebbe ricorrere alla parola Yoga. Poiché Yoga non significa già una tecnica psico-fisica, ma presuppone l’esperienza come base della vita spirituale. L’indiano, in altre parole, non ha voluto conoscere per conoscere, ma conoscere per vivere: e non già per vivere nel tempo, ma per vivere nell’eterno. L’India non ha conosciuto la lotta fra l’io ed il non io, intesi come due realtà, che tendono a fondersi e non trovano mai la via di trasmutarsi l’una nell’altra, ma ha superato o meglio negato la parvenza del divenire per perdersi nell’essere assoluto. Tutto ciò che diviene non è e non su quello si volge l’attenzione dell’uomo, ma piuttosto su quell’essere che a quel divenire soggiace e che quel divenire condiziona. La personalità umana è sogno: il fine del conoscere e dell’operare è l’âtman o il nirvâna, definizione l’una positiva, l’altra negativa della stessa indiscriminabile realtà nella quale il molteplice si annulla e il divenire cede all’essere o il tempo all’eterno. È evidente perciò che la mistica abbia avuto in India preminenza sulla scienza. La scienza parte dal presupposto che il mondo sia reale, ma per l’India il mondo è un sogno, anche per quei sistemi, come quelli tantrici, che lo consideravano come la veste o il velo o il gioco di Dio: perché è sempre un miraggio che bisogna raggiungere. Su tali basi non può sorgere e svilupparsi nessuna scienza degna di questo nome: la vera scienza dell’India è stata la psicologia mistica intesa ad indicare la via per cui l’uomo si annulli, con le proprie forze, nel tutto. E questo annullamento della personalità può ottenersi quando, per progressivo ascendere, l’uomo si smaterializzi e quindi si perda nell’infinita luce delle coscienza cosmica, che è perfezione di essere, intelligenza e beatitudine.
In India la liberazione non deriva da una lotta vittoriosa del bene sul male; il problema etico esula quasi dalla filosofia indiana la quale considera bene e male aspetti del contingente e del divenire, così come stima le esistenze paradisiache non desiderabili perché anch’esse soggette al fatale decadimento di tutto ciò che abbia una forma o rappresenti uno stato d’essere. La liberazione non è la soppressione del male, ma la soppressione del non conoscere. E non conoscere è ogni operazione dell’intelletto umano, perché ogni operazione dell’intelletto, creando i suoi fantasmi e le sue costruzioni, ci allontana da quell’indiscriminata coscienza cosmica che è la scaturigine e il presupposto di ogni pensiero particolare, ma nella quale questo pensiero particolare deve annullarsi e spegnersi.
Se le scuole si differenziano e discutono, la disparità delle opinioni si riferisce sempre alla costruzione logica ed alla impalcatura dialettica, ma l’esperienza che i varî sistemi descrivono è nel fondo sempre identica anche se il nome con cui viene designata è diverso.
Certo lo sviluppo di queste concezioni è stato lento: e non privo di contrasti ed interferenze con correnti di pensiero diverse. Non bisogna infatti dimenticare che se l’India è unità, quest’unità non è l’unità dell’uniformità, ma unità di sintesi, in continua formazione e sviluppo. E se anche quelle idee e concezioni sono divenute caratteristiche della cultura indiana, ciò non è avvenuto senza continue lotte e assimilazioni e compromessi persino.
Quando noi troviamo che i Veda ci parlavano di una vita ultraterrena ove le ombre dei padri sopravvivono alla morte del corpo e attendono l’offerta delle progenie superstiti non riusciamo a conciliare questa visione della vita con quella che più tardi dominerà l’India, voglio dire quella del Karman: una volta ammessa la legge del Karman non c’è più posto per una vita nel «regno dei padri»: l’uomo si crea da sè medesimo il suo futuro destino: muore per subito rinascere condizionando questa sua nuova vita con le azioni compiute: causalità morale così ferrea come quella che la scienza discopre nel mondo della natura. Da una parte una concezione che ricorda quella dei campi elisi, dall’altra una teoria ciclica. E siccome le civiltà si distinguono soprattutto nei riguardi del destino dell’uomo dopo la morte, questi due diversi aspetti ci indicano il confluire di due civiltà sul suolo dell’India. Difatti da una parte possiamo identificare il filone indoeuropeo più o meno rappresentato dalla tradizione vedica e dall’altra l’elemento indigeno preariano ed anariano sia esso stato dravidico od austroasiatico o, com’è più probabile, coesistenza di questi due strati.
Poco alla volta l’India aborigena ha preso il sopravvento sulla cultura degli invasori: e questi hanno finito con l’accettare molta parte dei culti, le credenze, le concezioni del paese su cui s’erano stabiliti. Le deità vediche Indra, Varuna, Agni stesso, passano poco alla volta in sottordine: le deità femminili, gli spiriti del suolo, le deità ctoniche, il mondo degli animali e delle piante, delle piante soprattutto, vengono in primo piano. E su queste credenze monta su dalle più antiche e profonde tradizioni dell’India lo Yoga, prima inteso come tecnica fisico-psichica capace di procurare poteri taumaturgici, poi, a mano a mano che la cultura si affina e la religiosità diventa più spirituale e pura, come disciplina del corpo e della mente. Con l’apparire e predominare di questo elemento, col prevalere della teoria del Karman, col diffondersi dei culti di deità concepite sempre presenti per l’uomo e perciò venerate con quella raccolta e affettuosa devozione che anticipa le scuole più tarde della bhakti, l’India storica si è formata, il suo pensiero si è individuato e definito; non chiuso tuttavia perché la civiltà indiana è sempre stata pronta ad accogliere ed assorbire non solo questi elementi scaturenti dal più vetusto patrimonio culturale, ma anche quelli che affluivano da ogni parte a mano a mano che le vicende storiche la mettevano in contatto con altri paesi ed altre visioni di vita. A leggere questo volume che s’è pubblicato in onore di Ramakrishna non pare che tutti gli studiosi indiani siano d’accordo su questo duplice elemento che lotta nella tradizione indiana. Ancora essi sembrano nella maggior parte essere sotto il fascino del mito indoeuropeo e molti si ostinano come il Venkateswara a volere intendere Mohenjodaro e Harappa come centri di cultura vedica. Teoria che tuttavia il Majumdar (vedi vol, III, pag. 2) non accetta. La cultura indiana non è cultura tutta indoeuropea, come non è neppure tutta anariana, ma è la sintesi di tutte e due, più potente forse la prima nel foggiare la concezione sociale, nel determinare il posto che l’individuo occupa nella famiglia e nella società, più vitale ed efficace la seconda nello sviluppo filosofico, religioso ed artistico. Dalla fusione di queste due correnti potentissime è sorta quell’unità che è la cultura indiana. La quale ha preso un po’ da tutti, specialmente dall’Iran e dalla Grecia. Da quello l’idea del monarca universale e il modello dei palazzi reali; da questa traverso gli stati indo-greci fondati da Alessandro Magno ed i suoi successori il tipo figurato del Buddha, il movimento e la naturalezza nella scultura, e l’astrologia importata dalla scuola di Alessandria.
L’India dunque non è stata mai chiusa: nulla di più errato che la concezione ancora tanto comune in Europa che l’India sia stato il paese della stasi. Mutamento continuo, traverso il quale tutto ciò ch’era estraneo veniva lentamente assorbito, riplasmato, adattato allo spirito indiano; anche l’islamismo, la più rigida ed intollerante delle forme religiose, non si è sottratto a questo destino. L’islamismo è stato ripensato in India in forma indiana. Solo sul suolo indiano è concepibile un imperatore come Akbar, e solo in India i poeti musulmani potevano scegliere per argomento dei loro canti leggende e simbolismi tratti dalle religioni degli infedeli. Musulmani furono molti poeti che cantarono con garbo e passione insolita gli amori di Radha e Krishna, che esprimono nei moti intensi della passione le ascese mistiche dell’animo: e furono persino i musulmani che misero in onore nel Bengala le astrazioni delle scuole esoteriche.
Ma l’India non ha preso soltanto: ha anche molto dato. Due paesi al mondo possono vantarsi di aver raggiunto tanto alta cultura e così universale da poterla spargere per continenti interi informando quasi delle proprie creazioni lo spirito di popoli disparatissimi: l’Italia e l’India; ché, come ho avuto occasione di dire altre volte, anche nei riguardi dell’Asia si può parlare di un umanesimo, che è appunto l’umanesimo buddhistico: quella nuova intuizione dell’uomo e dei suoi valori universali che il buddhismo scoprì e poco alla volta diffuse attraverso un glorioso apostolato su tutto il suolo dell’Asia. Il verbo del Buddha trasmigrò ma con lui trasmigrò anche questo nuovo concetto dell’uomo, ed informò le più nobili creazioni dell’arte e del pensiero dall’Iran al Mar di Cina, dalle steppe della Mongolia all’Insulindia. Gl’Indiani possono dunque a ragione parlare di una Magna India, la quale ha conservato, o nella quale è riflesso quello che v’è di più eterno nell’anima indiana, l’essenza imperitura del suo contributo allo spirito umano. Il tentativo coraggioso del Ramakrishna Mission merita dunque il nostro più vivo compiacimento; il lettore intelligente potrà, attraverso queste esperienze, per necessità frammentarie, ricostruire nelle grandi linee lo sviluppo di una cultura più grande, più ricca e più duratura.”
Giuseppe Tucci, “Ramakrishna Paramahamsa”, “Asiatica”III, 1937