“L’oggetto di queste riflessioni è un luogo comune. Nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l’una con l’altra e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche. Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista. Perché è così? E che cosa significa ciò, da un lato, per la natura e la dignità dell’ambito politico e, dall’altro lato, per la natura e la dignità della verità e della sincerità? […]
Ciò che rende questo luogo comune altamente plausibile può ancora essere riassunto nell’antico adagio latino: “Fiat justitia, et pereat mundus” (sia fatta giustizia, anche se il mondo può perire). A parte il suo probabile autore nel secolo XVI (Ferdinando I, successore di Carlo V), nessuno l’ha utilizzato se non come una domanda retorica: deve essere fatta giustizia se è in gioco la sopravvivenza del mondo? E l’unico grande pensatore che ha osato affrontare diversamente la questione è stato Immanuel Kant, il quale audacemente spiegò che «Il detto proverbiale […] in linguaggio semplice significa: “La giustizia deve prevalere anche se come risultato dovessero perire nel mondo tutti i furfanti”». Dal momento che gli uomini trovano che non varrebbe la pena di vivere in un mondo completamente privo di giustizia, questo «diritto umano deve essere ritenuto sacro, senza considerare il sacrificio richiesto all’autorità costituita […], senza considerare le conseguenze fisiche che ne potrebbero risultare».”
Hanna Arendt, da “Verità e politica”