Non è così brutto essere tristi, credetemi.
Chi si intristisce scende dal suo piedistallo, cede alla fragilità, per un istante; abbandona l’orgoglio.
E in quel viaggio che compie dentro sé stesso, approfitta per pensare.
La tristezza è figlia e madre della riflessione. E anche dei migliori libri che ho letto, le migliori canzoni che ho sentito, i quadri più belli mai dipinti…
Confesso che di solito scelgo i miei amici tra i tristi. Non lo faccio apposta, mi viene naturale. Mi attira il loro sguardo perso, l’intelligenza delle loro assenze, il loro essere quasi sempre a corto di certezze.
Non crediate, però, che essere tristi voglia dire perderci in chiacchiere lacrimogene. Ridiamo spesso, anche di noi stessi. E guardiamo le donne, e ci illudiamo che loro ci guardino, e cantiamo, e ci ubriachiamo, e balliamo, e raccontiamo barzellette, e ci svegliamo in letti che non riconosciamo e, siccome facciamo dell’amore uno degli ultimi traguardi, cerchiamo che ogni volta sia, quantomeno, indimenticabile.
Essere tristi vuol dire sapere che l’allegria è un nostro diritto, ma che dobbiamo ogni volta conquistarlo.
E saper riconoscere nell’amico che ride al nostro fianco, dopo aver fatto una pagliacciata, quell’ombra che abbiamo visto tante volte aleggiare su di noi.
E mettergli quindi un braccio sulla spalla. Anche senza farlo. Senza dire niente.
Sapendo che in quel silenzio che ci affratella, ci stiamo salvando entrambi.”