Linguaggi

μύθος, il mito: l’arte di raccontare

05.12.2021
“La mitologia non è una bugia, la mitologia è poesia, è metafora.
E’ stato giustamente detto che la mitologia è la penultima verità
– penultima perché l’ultima non può essere espressa con delle parole.
E’ oltre le parole.”
Joseph Campbell
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Joseph Wright of Derby, “Penelope disfa la sua tela alla luce di una candela”, 1783
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Penelope
“Non è che non lo riconobbe alla luce del focolare;
non erano
gli stracci da mendicante, il travestimento – no;
segni evidenti:
la cicatrice sul ginocchio, il vigore, l’astuzia nello
sguardo. Spaventata,
la schiena appoggiata alla parete, cercava una scusa,
un rinvio, ancora un po’ di tempo, per non rispondere,
per non tradirsi. Per lui, dunque, aveva speso vent’anni,
vent’anni di attesa e di sogni, per questo miserabile
lordo di sangue e dalla barba bianca? Si accasciò muta
su una sedia,
guardò lentamente i pretendenti uccisi al suolo, come
se guardasse
morti i suoi stessi desideri. E “Benvenuto” disse,
sentendo estranea, lontana la propria voce. Nell’angolo
il suo telaio
proiettava ombre di sbarre sul soffitto; e tutti gli uccelli
che aveva tessuto
con fili vermigli tra il fogliame verde, a un tratto,
in quella notte del ritorno, diventarono grigi e neri
e volarono bassi sul cielo piatto della sua ultima rassegnazione.”

Ghiannis Ritsos, “La disperazione di Penelope”

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La tela

“Sta al suo telaio Penelope
Da molte lune ha iniziato l’impresa
e di giorno tesse ciò che di notte
scioglie, nodo su nodo
ché non sa cosa fare della tela
e la sua trama mal s’adatta all’ordito.
Penelope – belle braccia
figlia di Icario e Peribea di Sparta
anatrella pietosa
ceduta in cambio d’una corsa
a un re pastore, affascinante e infido
moglie senza sposo e senza quiete
attende, e affida agli dei il suo pavido cuore.
Confida nella celeste Atena, la stratega
tessitrice d’Olimpo, potente e battagliera.
Chiede saggezza Penelope
e uno scorcio di luce, finalmente
ché senno e discernimento occorrono
a una donna, se sola deve vivere
e gestire la necessaria sorte.
Finché un giorno, finalmente
come un baleno una luce si accende
tra i tremori del seno, e la mano
comincia a districare i gomitoli
per il disegno che nella mente
lesto s’affaccia, e vive.
Finalmente la tela si distende
la trama si fa più chiara
la mano veloce corre sul telaio
e intreccia fili perfetti di misura
e colore. Il disegno compare.
La regina finalmente sa dove
lo porterà, a quale compimento
ma a nessuno lo dice. Il cuore tace
e la voce obbedisce, premuta dentro il petto.
Nel chiuso della regal stanza
in solitudine, Penelope traccia
la sua mappa di vita, la strada del tesoro.
Né gli sciocchi Proci né Ulisse
tessitor d’inganni, a confonderla ancora.
E’ del suo destino che si tratta.
E’ la regina, e sua è l’isola e la vita
di chi si affida al suo valore.
Degli uomini ha imparato a fare a meno
e anche del letto condiviso. Il suo progetto
ha a che fare con destini di donne.
Le sue ancelle, le sorelle, il gineceo accogliente.
Ormai ha capito, la rete è sempre più precisa
e nessuno oltre a lei mai la vedrà.
Non cerca più consigli né futile consenso
Penelope trecce lucenti.
A nessuno sarà dato raccontarla.
Lei è la regina e Omero è cieco.”
Silvana Sonno, da “E’ l’amore delle donne come l’araba fenice”
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Evelyn De Morgan, “Cassandra”, 1878
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Monologo per Cassandra
“Sono io, Cassandra.
E questa è la mia città sotto le ceneri.
E questi i miei nastri e la verga di profeta.
E questa è la mia testa piena di dubbi.
È vero, sto trionfando.
I miei giusti presagi hanno acceso il cielo.
Solamente i profeti inascoltati
godono di simili viste.
Solo quelli partiti con il piede sbagliato,
e tutto poté compiersi tanto in fretta
come se mai fossero esistiti.
Ora rammento con chiarezza:
la gente al vedermi si fermava a metà.
Le risate morivano.
Le mani si scioglievano.
I bambini correvano dalle madri.
Non conoscevo neppure i loro effimeri nomi.
E quella canzoncina sulla foglia verde –
nessuno la finiva in mia presenza.
Li amavo.
Ma dall’alto.
Da sopra la vita.
Dal futuro. Dove è sempre vuoto
e nulla è più facile che vedere la morte.
Mi spiace che la mia voce fosse dura.
Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo –
guardatevi dall’alto delle stelle.
Sentivano e abbassavano gli occhi.
Vivevano nella vita.
Permeati da un grande vento.
Con sorti già decise.
Fin dalla nascita in corpi da commiato.
Ma c’era in loro un’umida speranza,
una fiammella nutrita del proprio luccichio.
Loro sapevano cos’è davvero un istante,
oh, almeno uno, uno qualunque
prima di –
È andata come dicevo io.
Solo che non ne viene nulla.
E questa è la mia veste bruciacchiata.
E questo è il mio ciarpame di profeta.
E questo è il mio viso stravolto.
Un viso che non sapeva di poter essere bello.”
Wislawa Szymborska, “Monologo per Cassandra”, da “Uno spasso”, 2009
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Orfeo e Euridice

“Gli dei mentivano. Non potevi tornare,
è certo.
Noi lo sapevamo.
Ma quante volte
tornai a quella carezza e
il tuo ultimo
sguardo.
Null’altro
potevo avere.
Volli assaporarlo
fino in fondo.
Non capirono.
Istante di eternità
che ancora una volta
ci rese complici,

oltre la morte.”

Dino Borcas, “Orfeo e Euridice”

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 Jean Veber, “Ulisse e Nausicaa”, 1888

 

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Nausicaa

“La vita non sempre fa male,
può stracciarti le vele, rubarti il timone,
ammazzarti i compagni a uno a uno,
giocare ai quattro venti con la tua zattera,
salarti, seccarti il cuore
come la magra galletta che ti rimane,
per regalarti nell’ora
dell’ultimo naufragio
sulle tue vergogne di vecchio
i grandi occhi, il radioso
innamorato stupore
di Nausicaa.”

Gesualdo Bufalino, “Nausicaa”

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John William Waterhouse, “Penelope and the Suitors”,1912

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Edipo e la Sfinge

“Molto tempo dopo Edipo, vecchio e accecato, camminava per le
strade. Sentì un odore familiare. Era
la Sfinge. Edipo disse, “Ho una domanda.
Perché non ho riconosciuto mia madre?” “La tua risposta
era sbagliata”, disse la Sfinge. “Ma era quella che ha reso
tutto possibile”, disse Edipo. “No”, lei disse.
“Quando ho chiesto: che cos’è che cammina a quattro zampe la mattina,
due il giorno, e tre la sera, hai risposto:
l’Uomo. Non hai parlato della donna.”
“Quando si dice Uomo”, disse Edipo, “sono comprese anche
le donne. Lo sanno tutti.”
Lei disse, “È quello che pensi tu.”
Muriel Rukeyser (poetessa e attivista politica), “Mito”
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John Collier, “Lilith”, 1887
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Lilith
“…Poi dio creò la donna a sua immagine,
la creò dalla terra grezza,
la creò dall’illusione di se stessa,
Lilith, nei cui occhi vedete il perduto amore
o l’amore abbandonato,
Lilith, preda e predatrice
che canta come una colomba per domare il leone,
che legifera per infrangere,
regina e minuzia al tempo stesso,
Lilith che abita il centro della terra
e la osserva, mentre adagio le gira intorno,
che possiede i cipressi, i crepuscoli,
e il lontano orizzonte del mare,
lei, soffice come una nuvola, cerea come una nuvola,
che non ha tempo per pianti estivi
né per lacrime autunnali,
che lega i suoi uomini e poi piange perché possano liberarsi,
lei, la sconosciuta
vestita da prostituta
lei, il cui passato sta nei sogni il cui futuro
già le brilla negli occhi
lei, forte nella sua femminilità, e quindi dolce
che soffre per amore suo malgrado
che divora il cielo, e come latte beve la luna
lei, per un istante tra le braccia
l’attimo dopo un’ombra lontana,
lei, luce dell’alba,
la cui nudità scorgono solo i ciechi
donna libera, donna in catene
donna libera persino dalla libertà,
punto dove l’inferno e il paradiso s’incontrano in pace
desiderio assoluto, e voglia di desiderare,
Lilith, albero chinato dal peso dei suoi fiori
Lilith, fulmine all’orlo dell’abisso
Lilith, tenera nella vittoria, potente nella sconfitta,
Lilith, senza certezze né bisogni
che parla per tutte le donne,
che vede senza mai scegliere
che sceglie senza mai sprecare
Lilith che parla per tutti gli uomini,
pronta a tradire il suo sesso,
pronta a tradire,
i cui mille tagli sono piu teneri di mille baci.
Lilith, la peccatrice devota,
poeta demone e demone poeta.
Trovatela in me, trovetela nei sogni,
trovatela e prendete da lei
quello che desiderate,
prendete ogni cosa,
prendete tutto:
nulla sarà mai abbastanza.”
Joumana Haddad
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Antigone
“Esci dalla penombra e cammina
davanti a noi un poco,
gentile, con il passo leggero
della donna risoluta a tutto, terribile
per i terribili
Distolta a forza
io so, come temevi la morte, ma
ancora più ti faceva orrore
la vita indegna
E non fosti indulgente
in nulla verso i potenti, e non scendesti
a patto con gli intriganti, e non
dimenticasti mai l’ingiuria e sui loro
misfatti non crebbe mai l’erba.”
Bertolt Brecht, da “Antigone. Variazione sul mito”

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John William Waterhouse, “Perseo e Danae salvati nell’isola di Serifos”

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Lamento di Danae
“Quando la <trascinavano>
nella cassa costruita ad arte,
il vento che soffiava e la furia del mare,
(Danae) si abbatté per lo sgomento,
e con le guance bagnate di pianto
intorno a Perseo passò il suo braccio
e disse: “ O figlio, che pena è la mia!
Ma tu dormi, piccolo cuore ignaro, e riposi
su (questo) triste legno: risplendi
nella notte inchiodata col bronzo
e nella tenebra cupa disteso.
L’acqua del flutto, che alta
passa sulla tua chioma, non curi,
né il rombo del vento, col bel viso
adagiato in un rosso mantello.
Ma se per te fosse terribile
ciò che davvero è terribile,
tenderesti il tenero orecchio alle mie parole.
Ma, ti prego, dormi, piccolo, e s’acquieti
il mare, e abbia tregua l’immane sventura.
E un qualche cambiamento si manifesti
da parte tua, o padre Zeus.
Se poi pronuncio una preghiera audace
e contraria alla giustizia,
concedimi il tuo perdono.”
Simonide di Ceo, “Lamento di Danae”, Frammento 13 Diehl, VI secolo a. C.
(Avendo appreso da un oracolo che sarebbe stato ucciso da un nipote, Acrisio, re di Argo, fa rinchiudere la figlia Danae in una torre di bronzo. Zeus, però, incantato dalla sua bellezza, la feconda trasformandosi in pioggia d’oro.
Danae mette al mondo un figlio, che chiama Perseo e che cerca disperatamente di nascondere agli occhi di suo padre.
Quando Acrisio scopre la verità, fa rinchiudere lei e il bambino in una cassa inchiodata, che viene gettata in mare.)
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John William Waterhouse, “Ariadne”, 1898
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Il dedalo
“Io ringrazio di tutto cuore
chi non mi ha amato — chi mi ha piantata
in Nasso, ché il mio asso nella manica
è un sasso fermo immobile,
è sabbia una volta troppo mobile
avvezza a mutare forma e volto.
Nella mia turchina tunica
mi accorgo ora mentre mi volto
indietro a guardarvi tutti in fila —
se un giorno sarò priva di morte
la mia sorte benedetta sarete
stati tutti voi. Sarete giusto la trafila
di tanti pianti tramutati in alti voli.”
Lara Pagani, “Il dedalo”
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Demetra in lutto
“Niente può consolarmi. Potete portare seta
per far sospirare la mia pelle,
dispensare rose gialle
come fa qualche vecchio dignitario.
Potete continuare a ripetermi
che sono insostenibile (questo lo so):
eppure, nulla tramuta l’oro in granoturco,
non vi è nulla di dolce per il dente che vi si frantuma.
Non chiederò l’impossibile;
a camminare si impara camminando.
Col tempo scorderò questo mio traboccare di vuoto,
potrò sorridere ancora a
un uccello, forse, che abbandona il nido
–ma non sarà felicità,
poiché quella, io, l’ho conosciuta.”
Rita Dove, da “L’imprevedibile esattezza della grazia”
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Evelyn De Morgan, “Demetra in lutto per Persefone”,1906
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Nell’immagine in evidenza: John William Waterhouse, “Psiche apre la porta del giardino di Cupido”, 1904

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