“Alla scuola elementare Giuseppe è stato tra i primi ad avere l’insegnante di sostegno, ma cambiava tutti gli anni e il legame si rompeva a ogni mese di giugno. L’ho visto io stessa lasciare per ricordo una lacrima nel palmo della maestra Mimma. Proprio le mani sono state da sempre il soggetto preferito dei disegni che ha prodotto in gran numero fin da piccolo, era quella la sua attività prevalente in classe. Ritraeva i compagni nell’atto di scrivere, con un’attenzione particolare alle dita, il resto era solo abbozzato, la testa un ovale con pochi tratti distintivi.
Non ha mai imparato a difendersi, e se capitava per sbaglio nel mezzo di una baruffa restava lì candido e fermo, esposto ai colpi accidentali. Nessuno lo ha mai picchiato con intenzione. Aveva un taglio su uno zigomo, una mattina che sono andata a prenderlo a scuola. La maestra mi ha detto del pugno sferrato da un bambino che non mirava a lui. Giuseppe gli aveva preso la mano, l’aveva aperta e osservata a lungo, come alla ricerca del nesso tra la sua bellezza e il dolore che gli aveva procurato. Il compagno era rimasto immobile, a lasciarsi studiare”.
“Io non conoscevo nessuna fame e abitavo come una straniera tra gli affamati. Il privilegio che portavo dalla vita precedente mi distingueva, mi isolava nella famiglia. Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere. Invidiavo le compagne di scuola del paese e perfino Adriana, per la certezza delle loro madri.”
“Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.”
Donatella Di Pietrantonio, da “L’ Arminuta”