Linguaggi

Case, “bugie colorate”

06.12.2021

“Una casa può essere fatta di pareti o di abbracci.”

Fabrizio Caramagna

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“Ora mancano tutti, manca una casa
Solo prima di nascere l’ho avuta.”
Umberto Piersanti, da “Nel Tempo Che Precede”, 2002
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La casa dei venti

a Antonia W.

“C’è una casa in cui i venti tornano e non è lontana da qui.
Certi giorni è a portata di mano: ne senti i sospiri, i silenzi, i sì.
Appena fiuti la pioggia dietro il sole
lascia fuori il vento, tutto è alcova e altrove:
i tuoi capelli, il tuo sorriso negli occhi
l’ombra che sbraccia sulla parete e scivola nella notte
come un secondo corpo che non ci appartiene
il sangue che preme contro la pelle, nelle vene.
Questa casa di venti senza casa me l’hai lasciata negli occhi
solo a ricordarla, e non ha più finestre
che raccoglie le voci della strada, i pensieri degli uomini,
i sogni di chi torna e di chi arriva.
Dal tuo sorriso non deve più ripartire.”

Salvatore Ritrovato, da “La casa dei venti”

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Bugie colorate

“Le case in lunga fila
hanno facce arse dal vento, rosse:
bare di immobile aria
lo guardo ottuso, bidiota,
ammiccano al vento che soffia
un insulto gioioso sulle loro facce…
Vecchie zitelle
che inghiottono con dignità il loro odio
guardando l’andatura provocante
di donne giovani, alte, con le gonne svolazzanti.
Hanno facce arse dal vento, rosse,
tentano con dignità
di sorridere
una bugia rossa
per un attimo
in lunga fila
mentre soffia il vento.
Gli uomini vestono in blu, nero e grigio,
i tre colori del cielo.
Odio, amore e bontà si accalcano
nello spazio di una giacca
abbottonata con grazia.
Il cielo guarderà giù
dolcemente
e chiederà a questi uomini come e perché:
e le minuscole, indaffarate cose
che stanno sotto una giacca
nasconderanno il loro disappunto
e strisceranno via
con i loro abiti blu, neri e grigi…
Bugia tricolore
per tradire l’innocente, grande cielo
che guarda gentile…
Oh, l’intrusione turberebbe
i petti degli uomini
che strisciano via
corazzati di bugie nere e blu e grigie.”

Emanuel Carnevali, “Bugie colorate”

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La casa è disordinata

“La casa è disordinata.
Tutto gettato sulla tavola
Tutto lanciato sulle parole
Contro le pareti
Fluttuando nella bava delle ragnatele.
La casa è risolta
Abbandonandosi
Come un passero che vola per le sue ossa
E si posa.
Niente saprà che qui
La vita fu un disguido della mia ombra.”

Jorge Meretta, da “Ávese”, 2003

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Case

“Non voglio più costruire case
dentro cuori spezzati
cercare di aggiustare il tetto
che perde ancora lacrime
per qualcuno
e riparare assi di un pavimento
trascurato da altri.
Invece
andrò
nel mio cuore a forma di casa.
Con amore metterò ordine
nel caos
lasciato da altri
la adorerò al punto che nessuno
potrà mai più definirla infestata.
E infine
aprirò le porte
e mi darò il benvenuto a casa.”

Nikita Gill, “Case”

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Laurent Chéhère, dalla serie  “Le case volanti”

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Casa

 

“Dammi una casa
che non sia mia,
dove possa entrare e uscire dalle stanze
senza lasciar traccia,
senza mai preoccuparmi dell’idraulico,
del colore delle tende,
della cacofonia dei libri vicino al letto.

Una casa leggera da indossare,
in cui le stanze non siano intasate
delle conversazioni di ieri,
dove l’ego non si gonfia
a riempire gli interstizi.

Una casa come questo corpo,
così aliena quando provo a farne parte,
così ospitale
quando decido che sono solo in visita.”

 

Arundhati Subramaniam, “Casa”

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Confondimi con qualcosa che hai in casa

 

“Confondimi con qualcosa che hai in casa:
una tazza, un mestolo forato, o con l’incarto del pane
che io possa avere una grazia comune,
essere presa in mano o piegata e riposta,
esser gesto quotidiano, ricordo di giochi, di prove di fuochi,
di crosta nel latte,
un odore di soglia che avverti già sulle scale
o la presa alla cieca, la sicurezza persino banale
di trovarmi nello stesso posto, in uno stipetto;
esserti persino cara
in qualche momento, quando tutto ti è estraneo
e persino l’albero cambia forma
la chioma notturna diventa cava, grotta, e di fosforo diventano gli
occhi, in fretta, in fretta;
fammi sillaba piena, sensata,
trattami col senso che dà
una riposante maneggevole realtà:
son fatta di un solo mistero,
le spalle controvento,
le impronte cardiache,
segnaletiche, in fila indiana,
là dove smarrisci la tua parola
meridiana.”

 

Daniela Andreis, da “La casa orfana”, 2013

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Laurent Chéhère, dalla serie  “Le case volanti”

 

 

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Giorni d’inverno nella casa estiva

 

“Nella solitudine di questi giorni d’inverno
con gli alti fiori di aloe rossi
nel giardino, in casa non c’è nessuno
e io la abito.
Ci sono gli uccelli. E la luce del sud
nel giorno indeciso.
Viene la notte con gli occhi bendati
e cieca cade fuori dai muri
così fredda, così ampia.
Vivo nell’intimità della casa vuota,
e nelle stanze disabitate
posso sentire il suono attutito della vita,
toccare il tempo congelato,
gustare negli specchi un sapore dolce
la noia di un’immagine senza la gioventù.
E ci sono, però, il calore di una vita già indossata,
il segreto entusiasmo di essere stato.”

 

Francisco Brines, “Giorni d’inverno nella casa estiva”

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Laurent Chéhère, dalla serie  “Le case volanti”

 

 

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La stanza vuota

“A Carlos Edmundo de Ory in memoriam

Era uno dei tuoi giochi preferiti.
Cosa c’è in una stanza vuota?
domandavi. Noi restavamo in silenzio.

Cosa c’è in una stanza vuota?

Quelli che non conoscevano il gioco
dicevano magari: Niente, e tu dicevi: No.
Niente è niente, ho chiesto cosa.

Finché qualcuno diceva, ad esempio: Silenzio.
E tu dicevi: Sì.
E un altro diceva: Polvere.
E il gioco cominciava a decollare.

Orme di passi sopra il pavimento.
Un fantasma. Una presa. Il foro
d’un chiodo. La penombra.
Il quadrato che lascia sul muro
l’assenza di un quadro. Un filo.
Una lettera per terra.
L’impronta di una mano sulla parete.
Un raggio di sole che entra dalla finestra.
Una ragnatela. Un pezzetto
di carta. Un’unghia. Una formica smarrita.
La musica che arriva dalla strada
(c’è musica senza nessuno che la ascolti?).
Una macchia d’umidità o di fumo.
Scarabocchi o uccelli o nomi
o un disegno di Laura sulla parete.
E tu dicevi sì o no.
Tu lo sapevi. Eri l’inventore del gioco.
Tu già sapevi, Carlos, cosa c’è
nella stanza vuota dove sei appena entrato.

Era uno dei tuoi giochi preferiti.
– Cosa c’è in una stanza vuota?
– Un fantasma.
– L’hanno già detto.
– Sì, ma quello che dico io è un altro.”

 

Juan Vicente Piqueras, “La stanza vuota”

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Laurent Chéhère, dalla serie  “Le case volanti”

 

 

 

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Compravendita

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“Io vendo la casa con tutto quello che per casa si intende
Tu compri solo un tetto sopra la testa
Io vendo la soffitta piena di piccioni e fasci di luce
che a strisce gialle si insinuano tra le tegole
tu compri uno spazio adatto per gli oggetti superflui
Io vendo tutte le cene con gli amici le loro voci sonore
Tu compri abbastanza metri quadri dove poter sistemare
una cucina italiana dal design moderno
Io vendo la vista sulla collina viola
e trent’anni di raggi di sole moltiplicati per 365 giorni all’anno
senza contare quelli bisestili
tu compri una finestra rivolta a est
Io vendo latte di luna il suo argento fuso
versato sui tetti dei vicini
Tu compri soltanto una veranda adatta per asciugare i panni
Della camera da letto non voglio parlare
per educazione
Ma posso facilmente supporre quello che tu compreresti
Vendo anche il suono nervoso dei miei tacchi che andavano
avanti e indietro avanti e indietro
su e giù
giù e su
mentre aspettavo i suoi passi per le scale
nel soggiorno
Tu compri il parquet di quercia ben conservato
e mi chiedi
quanto costano i ricordi
a metro quadro?”
Jozefina Dautbegović (poetessa bosniaca), “Compravendita”
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La casa di un grande uomo
“Hanno scritto nel marmo a lettere d’oro: Qui abitò lavorò e morì un grande uomo.
Questi viottoli li ha cosparsi di ghiaia lui.
Questa panchina – non toccare – l’ha scolpita lui.
E – attenzione, tre gradini – entriamo dentro.
Fece ancora in tempo a nascere nel momento giusto.
Tutto quel che doveva passare, passò in questa casa.
Non in caseggiati,
non in metrature ammobiliate ma vuote, fra vicini sconosciuti,
ai quindicesimi piani,
dove sarebbe arduo trascinare scolari in gita.
In questa stanza meditava,
in questa alcova dormiva,
e qui riceveva gli ospiti.
Ritratti, poltrona, scrivania, pipa, mappamondo, flauto, tappetino consunto, veranda a vetri.
Da qui scambiava inchini col sarto o il calzolaio che gli cucivano su misura.
Non è come fotografie dentro le scatole, biro seccate in un barattolo di plastica, un vestito di serie in un armadio di serie, finestre più vicine alle nuvole che alla gente.
Felice? Infelice?
Non di questo si tratta.
Ancora si confidava nelle lettere, senza il pensiero che le avrebbero aperte.
Teneva ancora un diario puntuale e sincero, senza paura d’una perquisizione.
Più di tutto lo inquietava il passaggio d’una cometa.
La fine del mondo era solo nelle mani di Dio.
Riuscì ancora a morire non in ospedale, dietro un chissà quale paravento bianco.
Con ancora accanto qualcuno che ricordò le parole del suo borbottio”.
Wisława Szymborska, “La casa di un grande uomo” 
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Laurent Chéhère, dalla serie  “Le case volanti”
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Attesa
“Esci dalla statale a sinistra e
scendi giù dal colle. Arrivato
in fondo, gira ancora a sinistra.
Continua sempre a sinistra. La strada
arriva a un bivio. Ancora a sinistra.
C’è un torrente, sulla sinistra.
Prosegui. Poco prima
della fine della strada incroci
un’altra strada. Prendi quella
e nessun’altra. Altrimenti
ti rovinerai la vita
per sempre. C’è una casa di tronchi
con il tetto di tavole, a sinistra.
Non è quella che cerchi. È quella
appresso, subito dopo
una salita. La casa
dove gli alberi sono carichi
di frutta. Dove flox, forsizia e calendula
crescono rigogliose. È quella
la casa dove, in piedi sulla soglia,
c’è una donna
con il sole nei capelli. Quella
che è rimasta in attesa
fino a ora.
La donna che ti ama.
L’unica che può dirti:
“Come mai ci hai messo tanto?”
Raymond Carver, “Attesa”
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Casa di riposo, primo piano

“Per quanto staranno così
separati dalla propria armonia
note volate via
dallo stesso spartito,
per quanto vivranno così,
le nuche sulla federa sudata
il silenzio negli occhi
lo strepito delle mani accasciate
c’è tanto silenzio, qui, padre
la vita si alza in silenzio, qui, padre
respira salendo verso le tenebre
lo sforzo di un tronco strozzato dall’edera
e fuori sciama e chiama la gioventù fogliante
primavera mia
che ci sono finestre dove il sole
si affaccia come non desiderato
e azzurri che depongono
la loro azzurra dolcezza;
la speranza è nel gesto, papà,
senza radice e puro
dalla tua mano alla mia
dalla mia mano alla tua
lo splendore di un frutto maturo.”

Pierluigi Cappello, “Casa di riposo, primo piano”

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La mia casa a Pennabilli

“Adesso abito quassù
in una casa di montagna
e passo il tempo con delle foglie secche
che le metto in fila sopra uno scalino;
o vado a toccare quei fili d’acqua
che saltellano giù da una fessura di sassi
dove le trote stanno accovacciate al fresco
e Silvestro le prende con le mani
come fanno i gatti con le farfalle.
Mi piace anche fare dei conti
con un’aritmetica elementare:
due e due quattro sei e sei dodici
se vai a comprare sette uova e tre cadono
a terra, quante ne restano sane?
O altrimenti faccio delle righe sulla sabbia
del cortile, delle aste una dopo l’altra
per ricordare la sveltezza
delle gambe di una volta e l’aria
piena di lucciole e la bicicletta
e la fionda, gli aquiloni
e laggiù per ogni Ferragosto
il mare che stava disteso dietro montagne
di sabbia come una bestia buona
sotto le carezze del padrone.
Il pomeriggio sto seduto a guardare
la valle e la montagna in fondo
con tutti i campi che sembrano stracci
ad asciugare al sole e ogni tanto le strisce
rosse dei papaveri, dei mucchietti di case
come dei nidi di rondini appoggiati a terra
e la gente piegata a lavorare
piccola come la polvere e io seduto
con tutta ’sta roba dentro gli occhi
e con la memoria che è diventata bianca
e su questo lenzuolo ogni tanto passa
la voce della mia povera mamma
e l’odore delle mele cotogne
che stavano in cima all’armadio.”

Tonino Guerra, “La mia casa a Pennabilli”

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Il mio indirizzo

“Ho cancellato oggi
il numero della mia casa,
Ho strappato la targa
che portava
il nome della mia via
e quelle di tutte le altre.
Ma se tu assolutamente
vuoi trovarmi,
bussa alla porta
di ogni casa,
in ogni via
delle città di tutti i paesi
– tutto allo stesso tempo
è una cattiva sorte
e una benedizione –
e ovunque dove risplende
uno spirito libero:
sappilo, là è casa mia.”

Amrita Pritam, “Il mio indirizzo”, da “Di volta in volta e altre poesie”

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Edward Hopper, “La collina del faro”, 1927

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Il luogo è illuminato dal ricordo

“Alle nostre case nell’assenza dopo la guerra e l’abbandono”

1.
Tristezza è
visitare le rovine di casa tua in sogno
e fare ritorno senza polvere sulle mani

2.
Delicatezza è
innaffiare i fiori appassiti
nel giardino dei vicini
perché quelli di casa tua sono morti secchi sotto le bombe

3.
Distanza è
geografia della sopraffazione
che separa città lontane mille miglia
in una lasci i panni sul filo del bucato
nell’altra tendi la mano al vento
per raccoglierli.

4.
Alla mano sospesa sul campanello della vecchia casa
chi può dire
“Le case non sono di chi le ha lasciate”.

Widad Nabi

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Geometria

“Dimostro un teorema e la casa si espande:
le finestre in un balzo si librano sino al soffitto,
il soffitto con un sospiro va alla deriva.
Appena le pareti si sono spogliate di tutto
ma non della trasparenza, l’odore dei garofani
se ne va con loro. Io sono fuori, all’aperto,
e sopra di me le finestre si sono incardinate su farfalle,
dove si congiungono un raggio di sole riluce.
La loro meta è un punto vero e indimostrato.”
Rita Dove (poetessa americana), da “L’imprevedibile esattezza della grazia”, 2016 (Traduzione di Federico Mazzocchi)
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Io le so le case
“Io le so le case
che non abito più;
ci passo da fuori,
le guardo intimidita,
mancata per non so quale
fatalità
a un’altra vita.
Spersa, senza le chiavi,
saluto la vecchia me,
che chissà se
ora rotola
sul pizzicore dei tappeti
due palline,
o se seduta
su uno sgabello in cucina
ingoia contro voglia il senso
stopposo di un arrosto,
al posto
mio.
Io le so
le stanze senza quadri,
riviste da sotto;
so la tenda staccata,
l’aggiunta, la mancata
per un filo
e non c’è traccia
del benemerito trasloco, perché un poco
di me resta a bada.
Che sollievo che dai muri
non trasudi
una me distesa,
un pianto:
tutto conserva lo spazio
di qualche strazio, ma poi dimentica,
rivive, riaggiusta il lutto;
dove ho aspettato finisse tutto
ora qualcuno
inizia
a piegare un lenzuolo,
dà larghe pacche con i palmi
ai cuscini, ride come fosse
a casa sua.”
Beatrice Zerbini
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Operaa di Teo Nguyen
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Casa
Casa: morta ad un certo punto intorno al 1960 quando mia madre lasciò Taiwan. Morì ancora il 3 agosto 2015. I suoi polpastrelli tagliati via ogni volta. Nuovi mozziconi presero coscienza, diventarono capi di stato, più bassi e grassi.
Casa era, adesso, lo specchio del Rose Hills Memorial Park. Quanto ha viaggiato da Pechino a Taiwan a New York alla Pennsylvania al Michigan alla California al Rose Hills. Quando uno scrittore bianco chiama un personaggio una troia con gli occhi a mandorla, cerco mia madre. La chiamo per nome ma non ricordo la sua voce. Penso sia strabica. Mi avrebbe detto: Non ascoltare il lao mei, finiamo tutti nello stesso posto. Ma dov’è questo posto? Ci sono delle porte? Gattaiole? Ora ha dei fili spinati in gola, le parole sono morte. Tutte le nuove lapidi piatte dalla mia ultima visita, piccole barelle sul prato. Mi sdraio accanto alla sua lapide, chiudo gli occhi. Ora so molte cose. Anche con gli occhi chiusi, so che un uccello passa sopra di me. Nel gioco dell’impiccato, il corpo si forma mentre viene appeso. Come dire, crediamo mentre stiamo morendo.
Victoria Chang, da “Poesie per la fine”, 2024 – Traduzione di Adele Bardazzi
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Nell’immagine in evidenza: Dipinto di Nic Dempster, artista neozelandese

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