Ruth Landes, antropologa nordamericana, arriva in Brasile. Vuole conoscere la vita dei neri in un Paese senza razzismo. A Rio de Janeiro la riceve il ministro Osvaldo Aranha. Il ministro le spiega che il governo ha intenzione di ripulire la razza brasiliana, sporca di sangue nero, perché il sangue nero è il colpevole del sottosviluppo nazionale.
Da Rio Ruth va a Bahia. I neri sono la grande maggioranza in questa città dove in passato ebbero il loro trono gli opulenti viceré dello zucchero e degli schiavi, e nero è tutto quello che qui vale la pena, dalla religione al cibo passando per la musica. E tuttavia a Bahia tutti credono, anche i neri, che la pelle chiara sia la prova della buona qualità. Tutti no: Ruth scopre l’orgoglio della negritudine nelle donne dei templi africani.
In quei templi sono quasi sempre donne, sacerdotesse nere, coloro che ricevono nei loro corpi gli dei venuti dall’Africa. Risplendenti e tonde come palle di cannone, loro offrono agli dei i loro grandi corpi, che sembrano case dove è piacevole arrivare e rimanere. In loro entrano gli dei e in loro ballano. Dalle mani delle sacerdotesse possedute il popolo riceve fiato e consolazione, e dalle loro bocche ascolta le voci del destino.
Le sacerdotesse nere di Bahia accettano amanti, non mariti. Il matrimonio dà prestigio, ma toglie libertà e allegria. A nessuna interessa formalizzare il matrimonio di fronte al prete o al giudice: nessuna vuol essere sposa sposata, signora di. Testa alta, ritmo languido: le sacerdotesse si muovono come regine della Creazione. Loro condannano i loro uomini al tormento incomparabile di essere gelosi degli dei.
Nel 1982, quando l’esercito devastò le montagne maya, quasi tutta la famiglia di Rigoberta fu sterminata, e il paesino dove il suo ombelico era stato sepolto perché mettesse radici venne cancellato dalle cartine.
Dieci anni dopo, lei ricevette il premio Nobel per la pace. E dichiarò: «Ricevo questo premio come un omaggio al popolo maya, sebbene arrivi con cinquecento anni di ritardo».
I maya sono persone pazienti. Sono sopravvissuti a cinque secoli di stragi.
Loro sanno che il tempo, come il ragno, tesse lentamente.
Florence era un’infermiera malata. Aveva contratto una malattia incurabile durante la guerra di Crimea. Ma dal suo letto londinese scrisse un’infinità di articoli e di lettere che pretendevano di rivelare la realtà indù all’opinione pubblica britannica.
• Sull’indifferenza imperiale rispetto alla fame nera:
«Cinque volte più morti che nella guerra franco-prussiana. Nessuno lo sa. Non diciamo nulla della fame nera a Orissa, quando un terzo della sua popolazione fu deliberatamente autorizzata a biancheggiare le campagne con le sue ossa.»
• Sulla proprietà rurale:
«Il tamburo paga per essere colpito. Il contadino povero paga per tutto quel che fa, e per tutto quello che il latifondista non fa e obbliga il contadino povero a farlo al posto suo.»
• Sulla giustizia inglese in India:
«Ci dicono che il contadino povero ha la giustizia inglese per difendersi. Non è così. Nessun uomo ha quello che non può usare.»
• Sulla pazienza dei poveri:
«Le rivolte agrarie possono diventare la normalità in tutta l’India. Non abbiamo nessuna sicurezza che tutti quei milioni di indù silenziosi e pazienti continueranno sempre a vivere nel silenzio e con pazienza. I muti parleranno e i sordi ascolteranno.»
Le madri di Plaza de Mayo, donne partorite dai loro figli, sono il coro greco di questa tragedia.
Inalberando le foto dei loro scomparsi, continuano a girare intorno alla piramide, di fronte alla Casa Rosada del governo, con la stessa ostinazione con cui peregrinano per le caserme e i commissariati e le sagrestie, rinsecchite da tanto piangere, disperate da tanto aspettare coloro che c’erano e non ci sono più, o forse ci sono ancora, o chissà.
«Mi sveglio e sento che è vivo», dice una, dicono tutte.
«Mi abbatto progressivamente nel corso della mattinata. Mi muore a mezzogiorno. Resuscita al pomeriggio. Allora torno a credere che arriverà e apparecchio per lui a tavola, ma torna a morire, e di notte cado addormentata senza speranza. Mi sveglio e sento che è vivo…»
Le chiamano «pazze».
Di solito non si parla di loro. Normalizzata la situazione, il dollaro vale poco e certa gente pure. I poeti pazzi vanno dal morto e i poeti normali baciano la spada e si sperticano in elogi e silenzi.
Con tutta normalità il ministro dell’Economia va a caccia di leoni e giraffe nella selva africana e i generali vanno a caccia di operai nei sobborghi di Buenos Aires.
Nuove norme di linguaggio obbligano a chiamare «Processo di Riorganizzazione Nazionale» la dittatura militare.
Cosa accadrebbe se una donna si svegliasse un mattino trasformata in uomo? E se la famiglia non fosse il campo di allenamento dove il bimbo impara a comandare e la bambina a ubbidire? E se ci fossero asili nido? E se il marito condividesse la pulizia e la cucina? E se l’innocenza diventasse dignità? E se la ragione e l’emozione andassero a braccetto? E se i predicatori e i giornali dicessero la verità? E se nessuno fosse proprietà di nessuno?
Charlotte Gilman delira. La stampa nordamericana l’attacca chiamandola «madre snaturata»; e con maggior ferocia l’attaccano i fantasmi che le abitano l’anima e la mordono internamente. Sono loro, i temibili nemici che Charlotte contiene, coloro che a volte riescono a vincerla. Ma lei cade e si rialza, e cade, e di nuovo si rialza e ricomincia a camminare. Questa tenace camminatrice viaggia senza requie attraverso gli Stati Uniti e per iscritto e a voce va annunciando un mondo alla rovescia.
Ma san Paolo aveva concesso tre diritti alle donne: ubbidire, servire e tacere. E il rappresentante di Sua Santità il Papa condannò Teresa per essere una femmina inquieta e vagabonda, disubbidiente e ostinata, che, spacciandole per devozione, inventava cattive dottrine contro san Paolo, che ordinò che le donne non insegnassero.
Teresa aveva fondato in Spagna vari conventi dove le monache facevano lezione e avevano autorità, e dove ciò che importava era la virtù e non il lignaggio, e dove a nessuna veniva richiesta la purezza del sangue.
Nel 1576 fu denunciata all’Inquisizione, perché suo nonno diceva di essere di ceppo cristiano ma era un ebreo convertito e perché le sue crisi mistiche erano opera del Demonio incarnatosi nel corpo di una donna.
Quatto secoli dopo, Francisco Franco si impossessò del braccio destro di Teresa, per difendersi dal Demonio nel suo letto di agonia.
Per quegli strani casi della vita, a quel tempo Teresa era ormai santa e modello della donna iberica, e i suoi pezzi erano stati mandati in varie chiese di Spagna, tranne un piede, che andò a finire a Roma.
Ma le donne di Maometto non portavano il volto coperto, e il Corano non menziona la parola «velo», anche se consiglia che, fuori di casa, le donne si coprano i capelli con un manto. Le suore cattoliche, che non ubbidiscono al Corano, si coprono i capelli, e in molti luoghi del mondo molte donne che non sono musulmane usano un manto, una mantiglia o un fazzoletto sulla testa.
Ma un conto è il manto, capo d’abbigliamento scelto liberamente, e un altro il velo che, per ordine maschile, obbliga a nascondere il volto della donna.
Una delle più acerrime nemiche del coprivolto fu Soukaina, bisnipote di Maometto, che non solo si rifiutò di usarlo ma lo denunciò a voce alta.
Soukaina si sposò cinque volte, e nei suoi cinque contratti di matrimonio si rifiutò di accettare l’obbedienza al marito.
Il fondatore dell’Islam, che col permesso di Allah aveva avuto dodici mogli, quasi tutte simultanee, lasciò nove vedove. Per proibizione di Allah nessuna si risposò.
Aisha, la più giovane, era stata la preferita.
Tempo dopo lei guidò una ribellione armata contro il governo del califfo Alì.
Ai nostri giorni, molte moschee impediscono l’entrata alle donne, ma a quei tempi le moschee furono i luoghi dove Aisha pronunciò le arringhe che accesero i fuochi dell’ira popolare. Poi, a cavallo del suo cammello, attaccò la città di Bassora. La lunga battaglia lasciò sul campo quindicimila caduti.
Quel macello inaugurò l’odio fra sunniti e sciiti, che continua a seminare vittime. E alcuni teologi decretarono che questa era la prova irrefutabile che le donne fanno disastri quando scappano dalla cucina.
Nel silenzio del giardino, a mezzogiorno, udiva delle voci. Le parlavano gli angeli e i santi, san Michele, santa Margherita, santa Caterina, e anche la voce più alta del Cielo: «Non c’è nessuno al mondo che possa liberare il regno di Francia. Solo tu».
E lei lo ripeteva, ovunque, sempre citando la fonte: «Me l’ha detto Dio».
E così questa contadina analfabeta, nata per fare figli, si mise alla testa di un grande esercito, che cresceva al suo passaggio.
La vergine guerriera, vergine per ordine divino o per la paura maschile, avanzava di battaglia in battaglia.
Lancia in resta, caricando a cavallo contro i soldati inglesi, fu invincibile. Finché non fu vinta.
Gli inglesi la fecero prigioniera e decisero che sarebbero stati i francesi ad occuparsi di quella matta.
Si era battuta per la Francia e per il suo re, in nome di Dio, e i funzionari del re di Francia e i funzionari di Dio la mandarono sul rogo.
Lei, rapata, incatenata, non ebbe avvocato. I giudici, il magistrato, gli esperti dell’Inquisizione, i vescovi, i priori, i canonici, i notai e i testimoni coincisero con la dotta università della Sorbona, la quale sentenziò che l’accusata era scismatica, apostata, bugiarda, indovina, in odore di eresia, errante nella fede e blasfema verso Dio e verso i santi.
Aveva diciannove anni quando venne legata a un palo nella piazza del mercato di Rouen, e il boia accese la pira.
Poi, la sua patria e la sua Chiesa, che l’avevano bruciata, cambiarono idea. Adesso, Giovanna d’Arco è eroina e santa, simbolo di Francia ed emblema della cristianità.
Alla testa del suo esercito ribelle, Luis Carlos Prestes aveva attraversato a piedi l’immenso Brasile da un capo all’altro, andata e ritorno dalle praterie del Sud fino ai deserti del Nordest, attraverso la foresta amazzonica. Nei tre anni di cammino, la colonna Prestes aveva combattuto contro la dittatura dei signori del caffè e dello zucchero senza mai essere sconfitta. Per questo Olga Benário lo immaginava gigantesco e devastatore. Restò sorpresa quando conobbe il gran capitano. Prestes era un ometto fragile, che diventava tutto rosso quando Olga lo guardava negli occhi. Lei, infervorata dalle lotte rivoluzionarie in Germania, militante senza frontiere, se ne viene in Brasile. E lui, che non aveva mai conosciuto una donna, fu da lei amato e fondato.
All’unisono cadono entrambi prigionieri. Li portano in due carceri diverse.
Dalla Germania, Hitler reclama Olga perché ebrea e comunista, sangue vile, idee vili, e il presidente brasiliano, Getúlio Vargas, gliela consegna. Quando i soldati vengono a prenderla nel carcere, i prigionieri si ammutinano. Olga mette fine alla rivolta per evitare una strage inutile, e si lascia portare via. Affacciato all’inferriata della sua cella, il romanziere Graciliano Ramos la vede passare, con le manette, con il pancione.
Sul molo, l’attende una nave che ostenta la svastica. Il capitano ha l’ordine di non fermarsi fino ad Amburgo. Là Olga sarà rinchiusa in un campo di concentramento, asfissiata in una camera a gas, carbonizzata in un forno.
Gli assassini la massacrarono a colpi di fucile e la gettarono nelle acque di un canale.
Per strada, lei perse una scarpa.
Una mano raccolse quella scarpa, gettata nel fango.
Rosa voleva un mondo dove la giustizia non venisse sacrificata in nome della libertà, e la libertà non venisse sacrificata in nome della giustizia.
Ogni giorno, una mano raccoglie quella bandiera.
Gettata nel fango, come la scarpa.
Ma erano altri i peccati che la puritana città di Ravenna non le poteva perdonare. Li aveva commessi dopo la sua incoronazione. Per colpa di Teodora, l’impero cristiano bizantino era stato il primo luogo al mondo dove
l’aborto era un diritto,
non si castigava con la morte l’adulterio,
le donne avevano diritto all’eredità,
le vedove e i figli illegittimi erano tutelati,
il divorzio della donna non era più un’impresa impossibile e non erano più proibite le nozze dei nobili cristiani con donne di classi subalterne o di religione diversa.
Millecinquecento anni dopo, il ritratto di Teodora nella chiesa di San Vitale è il mosaico più famoso del mondo.
Questo capolavoro di pietre preziose è anche il simbolo della città che la odiava e che adesso vive di lei.
Aspasia
Ai tempi di Pericle, Aspasia fu la donna più famosa di Atene.
Si potrebbe dire anche in un’altra maniera: ai tempi di Aspasia, Pericle fu l’uomo più famoso di Atene.
I suoi nemici non le perdonavano di essere donna e straniera, e per aggiungerle difetti le attribuivano un passato inconfessabile e dicevano che la scuola di retorica da lei diretta era un covo di giovinette facili.
Loro l’accusarono di disprezzare gli dei, offesa che si poteva pagare con la morte. Di fronte a un tribunale di millecinquecento uomini, Pericle la difese. Aspasia fu assolta, sebbene nel suo discorso di tre ore Pericle dimenticò di dire che lei non disprezzava gli dei, ma credeva che gli dei ci disprezzassero e rovinassero le nostre effimere gioie umane.
A quel tempo, Pericle aveva ormai cacciato la moglie dal suo letto e dalla sua casa e viveva con Aspasia. E per difendere i diritti del figlio che ebbe con lei, aveva violato una legge che lui stesso aveva promulgato.
Per ascoltare Aspasia, Socrate interrompeva le sue lezioni. Anassagora citava le sue opinioni.
«Che arte o potere aveva questa donna, per dominare i politici più eminenti e per ispirare i filosofi?» si domandò Plutarco.
Siccome la Storia era occupata a registrare le gesta dei guerrieri di Cristo, non è molto quel che si sa di lei. Si sa che un corteo lungo trenta isolati l’accompagnò al cimitero e che fu la prima donna a scrivere un trattato di ginecologia, ostetricia e puericultura.
«Le donne non osano mostrare a un medico uomo, per pudore e per innata riservatezza, le loro parti intime», scrisse Trotula. Il suo trattato raccoglieva l’esperienza di una donna che aiutava altre donne in faccende delicate. Loro le aprivano il corpo e l’anima, e le confidavano segreti che gli uomini non capivano né meritavano.
Trotula insegnava loro ad alleviare la vedovanza, a simulare la verginità, ad affrontare il parto e i suoi disturbi, ad evitare l’alito cattivo, a sbiancare la pelle e i denti e «a riparare l’oltraggio irreparabile degli anni».
La chirurgia era di moda, ma Trotula non credeva nel coltello. Lei preferiva altre terapie: la mano, le erbe, l’udito. Faceva massaggi affettuosi, prescriveva infusioni e sapeva ascoltare.
Parola più, parola meno, questo pretendeva Alexandra Kollontai, l’unica donna con rango di ministro nel governo di Lenin.
Grazie a lei, l’omosessualità e l’aborto smisero di essere dei crimini, il matrimonio non fu più una condanna all’ergastolo, le donne ebbero il diritto al voto e all’uguaglianza dei salari, e ci furono asili infantili gratuiti, mense comunali e lavanderie collettive.
Anni dopo, quando Stalin decapitò la rivoluzione, Alexandra riuscì a conservare la testa. Ma smise di essere Alexandra.
A venti si sposa, o la sposano, nonostante la sua nota incapacità per i lavori domestici.
A ventuno si mette a studiare, per conto suo, logica matematica. Non sono quelle le faccende più adatte a una signora, ma la famiglia accetta il suo capriccio, perché forse così può diventare ragionevole e salvarsi dalla follia alla quale è destinata per eredità paterna.
A venticinque inventa un sistema infallibile, basato sulla teoria delle probabilità, per guadagnare soldi alle corse dei cavalli. Scommette i gioielli di famiglia. Perde tutto.
A ventisette pubblica un lavoro rivoluzionario. Non firma col suo nome. Un’opera scientifica firmata da una donna? Quell’opera la fa diventare la prima programmatrice della storia: propone un nuovo sistema per assegnare compiti a una macchina che fa risparmiare le peggiori manovre agli operai tessili.
A trentacinque si ammala. I medici diagnosticano isteria. È cancro.
Nel 1852, a trentasei anni, muore. A quella stessa età era morto suo padre, lord Byron, poeta, che non vide mai.
Un secolo e mezzo dopo si chiama Ada, in suo onore, uno dei linguaggi di programmazione dei computer.
Un’altra esiliata
Alla fine del 1919, duecentocinquanta «stranieri indesiderabili» partirono dal porto di New York, con la proibizione di tornare negli Stati Uniti.
Fra di loro, andò in esilio Emma Goldman, «straniera estremamente pericolosa», che era stata arrestata varie volte per essersi opposta al servizio militare obbligatorio, per aver diffuso metodi anticoncezionali, per aver organizzato scioperi e per altri attentati contro la sicurezza nazionale.
Alcune frasi di Emma:
«La prostituzione è il più grande trionfo del puritanesimo.»
«C’è forse qualcosa di più terribile, di più criminale, della nostra glorificata e sacra funzione della maternità?»
«Il Regno dei Cieli dev’essere un luogo terribilmente noioso se ci vivono i poveri di spirito.»
«Se il voto cambiasse qualcosa, sarebbe illegale.»
«Ogni società ha i delinquenti che si merita.»
«Tutte le guerre sono guerre fra ladri troppo codardi per combattere, che mandano altri a morire per loro.»
Le arti plastiche erano regni proibiti agli esseri senz’anima.
Nel XVI secolo a Bologna c’erano cinquecentoventiquattro pittori e una pittrice.
Nel XVII secolo all’Accademia di Parigi c’erano quattrocentotrentacinque pittori e quindici pittrici, tutte mogli o figlie di pittori.
Nel XIX secolo Suzanne Valadon fu fruttivendola, acrobata di circo e modella di Toulouse-Lautrec. Usava corsetti fatti di carote e condivideva il suo studio con una capra. A nessuno sembrò strano che fosse lei la prima artista che osò dipingere uomini nudi. Doveva essere una suonata.
Erasmo da Rotterdam sapeva quel che diceva: «Una donna è sempre una donna, cioè: pazza».
Non a caso furono donne le vittime della caccia alle streghe, e non solo ai tempi dell’Inquisizione. Indemoniate: spasmi e grida, forse orgasmi, e per colmo dello scandalo, orgasmi multipli. Solo il possesso di Satana poteva spiegare tanto fuoco proibito, che dal fuoco veniva castigato. Dio ordinava che fossero bruciate vive le peccatrici che ardevano. L’invidia e il panico di fronte al piacere femminile non avevano nulla di nuovo. Uno dei miti più antichi e universali, comune a molte culture di molte epoche e di luoghi diversi, è il mito dell’utero dentato, il sesso della femmina come bocca piena di denti, insaziabile bocca di piraña che si alimenta della carne del maschio. E in questo mondo, in questa fine secolo, ci sono centoventi milioni di donne mutilate del clitoride.
Non c’è donna che non risulti sospetta di cattiva condotta. Secondo i boleri, sono tutte ingrate; secondo i tanghi, sono tutte prostitute (meno la mamma). Nei Paesi del Sud del mondo, una donna sposata su tre riceve botte come parte della routine coniugale, come castigo per quel che ha fatto o per quel che potrebbe fare: «Siamo addormentate», dice un’operaia del quartiere di Casavalle, a Montevideo. «Un principe ti bacia e ti addormenta. Quando ti svegli, il principe ti bastona.»
E un’altra: «Io ho la paura di mia madre, e mia madre aveva la paura di mia nonna».
Conferme del diritto di proprietà: il maschio proprietario afferma a suon di botte il suo diritto di proprietà sulla femmina, così come il maschio e la femmina affermano a suon di botte il loro diritto di proprietà sui figli.
E le violenze carnali non sono forse riti che celebrano quel diritto attraverso la violenza? Il violentatore non cerca né trova piacere: ha bisogno di sottomettere. La violenza marchia col fuoco un segno di proprietà sull’anca della vittima, ed è l’espressione più brutale del carattere fallico del potere, da sempre esemplificato dalla freccia, dalla spada, dal fucile, dal cannone, dal missile e da altre erezioni. Negli Stati Uniti viene violentata una donna ogni sei minuti. In Messico, una ogni nove. Dice una donna messicana: «Non c’è differenza fra essere violentata ed essere travolta da un camion, con la differenza che poi gli uomini ti chiedono se ti è piaciuto».
Le statistiche registrano solo le violenze denunciate, che in America Latina sono sempre molte di meno delle violenze avvenute. Per lo più, le violentate tacciono per paura. Molte bambine, violentate nelle loro case, finiscono sulla strada: fanno le donne di strada, corpi a buon mercato, e alcune trovano, come i bambini di strada, la loro casa sull’asfalto. Dice Lélia, quattordici anni, cresciuta allo sbando per le strade di Rio de Janeiro: «Tutti rubano. Io rubo e mi derubano».
Il disonore
Alla fine del 1979 le truppe sovietiche invasero l’Afghanistan.
Secondo la spiegazione ufficiale, l’invasione voleva difendere il governo laico che stava tentando di modernizzare il Paese.
Io fui uno dei membri del tribunale internazionale che a Stoccolma si occupò della faccenda, nel maggio del 1981.
Non dimenticherò mai il momento clou di quelle sessioni.
Dava la sua testimonianza un alto capo religioso, rappresentante dei fondamentalisti islamici, che in quel momento venivano chiamati «freedom fighters», guerrieri della libertà, e che adesso sono «terroristi».
Quell’anziano tuonò: «I comunisti hanno disonorato le nostre figlie! Gli hanno insegnato a leggere e a scrivere!»
Eva avrebbe iniziato chiarendo che lei non era nata da nessuna costola, che non aveva conosciuto nessun serpente, che non aveva offerto mele a nessuno e Dio non le aveva mai detto che partorirai con dolore e tuo marito ti dominerà. Che tutte queste cose sono solo bugie che Adamo aveva raccontato alla stampa.
Eduardo Galeano, da “Mujeres”, 2015
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Nell’immagine: Claudia Salvadori, “Sherazade”