“Il commissario di bordo di nome faceva Vincenzo (per gli amici Cecè) e di cognome Collura. Per la verità, Cecè Collura il commissario di bordo non l’aveva mai fatto, anzi, a parlare papale papale, non aveva mai messo piede su una nave da crociera nemmeno mercantile, a voler essere onesti fino in fondo. Come passeggero, a non qualificare come “navigazione” una trentina d’attraversamenti dello Stretto di Messina, aveva al suo attivo qualche viaggio d’andata e ritorno col traghetto Napoli-Palermo. E basta. Non era omo d’acqua, ma di terraferma. Infatti, quando gli toccava viaggiare, pigliava sempre il treno, l’aereo gli faceva scanto macari a taliarlo fermo all’aeroporto. Ancora qualche mese avanti, Cecè Collura commissario lo era stato, ma di polizia, fino a quando si era guadagnata una bella revorberata al fegato durante una sparatoria con alcuni rapinatori di banche.
Dopo l’ospedale e la convalescenza, gli avevano concesso sei mesi di riposo.
Un suo parente, che aveva interesse nel gruppo armatoriale, aveva avuto l’alzata d’ingegno di fargli la proposta di passare una parte del periodo di riposo quale commissario di bordo. Non avendo conto da rendere a mogliere e trovandosi momentaneamente libero da legami fimminini, si era sottoposto a un corso accelerato per avere un’infarinatura di quello che andava a fare e si era imbarcato.
Aveva però domandato e ottenuto di essere affiancato da un vice di lunga spirenzia. Come poté vedere da subito, questo vice, un quarantino triestino, il misteri suo lo sapeva fare. Quando arrisolveva il problema di un crocierista, di regola si rivolgeva a Collura: “Lei è d’accordo, vero, commissario?”. E Cecè, dopo averlo taliato negli occhi per vedere se c’era una minima traccia d’ironia, calava la testa in segno di assenso.
Imparò rapidamente dal triestino il modo migliore di comportarsi coi passeggeri. Da commissario di polizia poteva di tanto in tanto concedersi dei toni bruschi, evasivi, distaccati: qui questa gamma gli era negata, era totalmente al servizio di quelli che avevano pagato il biglietto. Avevano pagato e pretendevano. Nel giro delle prime ventiquattro ore, il suo vice abilmente placò malumori, ascoltò recriminazioni, promise fulminee soluzioni. Poi il tempo lungo della navigazione su un mare che pareva una tavola contagiò tutti, finirono urti e attriti, principiarono nuove conoscenze. E fu proprio una delle nuove conoscenze di Cecè, la signora Agata Masseroni maritata, a farlo imbattere in una situazione perlomeno stramma.
La coppia Mc Givern, la coppia Donadoni e la coppia Distefano avevano posto, nel più lussuoso dei tre ristoranti, al tavolo del commissario il quale, durante i pasti, doveva amabilmente intrattenere gli ospiti. Cecè ci provò a operare una sostituzione, ma il suo vice gli fece notare che quello era un compito che spettava di diritto al commissario, tutta una tradizione crocieristica sarebbe stata irrimediabilmente sconvolta se al posto del titolare si fosse appresentato il vice. Mister McGivern, che possedeva qualche pozzo nel Texas, alle nove di sira spaccate si andava a corcare, poco appresso lo seguiva la coppia Donadoni (lui novantino, lei ottantina) mentre la coppia Distefano, cinquantina, aveva la passione del ballo e perciò mangiavano di prescia per poi scomparire per abbandonarsi al loro vizio preferito. Così restavano faccia a faccia la signora Agata Masseroni, che non aveva mai gana di sonno, e Cecè. Alla seconda serata, la signora Agata spiò al commissario: “Mi accompagna a sentire Joe Bolton?”.
E chi era? Cecè fece uno sforzo e finalmente s’arricordò che c’era un cantante che avrebbe dovuto intrattenere i passeggeri.
A bordo i cantanti erano quattro, i prestigiatori due, gli animatori otto, più un esercito di orchestrali.
La signora Agata isò gli occhi al cielo.
“Divino, mi dicono. Stamattina tutti ne parlavano. E allora che fa, commissario, mi accompagna?”
Arrivarono che Joe Bolton stava esibendosi a una platea non tanto giovanile, l’età media dei presenti oscillava attorno alla cinquantina. E si poteva capire, perché quello cantava canzoni degli anni 60. Cantava? Dopo averlo sentito per una mezzorata, Cecè si pose la domanda. Voce Joe Bolton non ne aveva, però suppliva, in qualche misterioso modo riusciva a convincere tutti che, solo se avesse voluto, avrebbe potuto tirare fora un do di petto capace di spaccare un lampadario. Non lo faccio, pareva dire, per discrezione e per eleganza. E tutti gli davano fiducia. E applaudivano freneticamente, soprattutto le fimmine con l’occhio inumidito.
“E’ un fascinatore” – concluse Cecè – “Quello, se ci si mette d’impegno, è capace di convincerci che la luna è quadrata”.
Qualche ora appresso, mentre nella sua cabina stava per pigliare sonno, gli tornò in mente il cantante. Se lo rappresentò: doveva essere un sessantino che si teneva bene, non alto, distinto, gli occhi di un azzurro intensissimo, folti cappelli rossicci striati di bianco, baffetti sottili. Alt. Baffetti.
Che faceva Joe Bolton coi suoi baffetti? Fattasi la domanda, Cecè si diede la risposta: “Che vuoi che facesse? Tra una canzone e l’altra se li accarezzava come tutti”. Eh, no – fece l’altro Cecè che dialogava con lui -. Non li accarezzava, li premeva sul labbro superiore. “E questo che viene a dire?” – si spiò Cecè -. “Lui se li accarezzava accussì”. Stammi a sentire, Cecè – gli rispose l’altro Cecè -, se il gesto fosse stato normale, non ti avrebbe colpito. Sii coraggioso e affronta la verità: quell’uomo aveva i baffi finti e incollati male. E la vuoi sapere tutta, Cecè? Il tuo occhio di sbirro non ha fallato: portava una parrucca e aveva lenti a contatto. Basta picca a trasformare una persona.
Molte altre furono le domande che Cecè quella notte si fece, ma una più di tutte insistente: perché uno che vuole camuffarsi i baffi non se li fa crescere invece di mettersene un paio finti? La risposta non poteva essere che questa: Joe Bolton non aveva avuto il tempo di farli crescere oppure perché non avrebbe potuto, prima dell’imbarco, farsi vedere così trasformato. La matina appresso, appena trasì nel suo ufficio, spiò al triestino:
“Joe Bolton è un nome d’arte, vero? Come si chiama in realtà?”
Gli parse, ma certamente si sbagliava, che il suo vice avesse fatto un gesto di sorpresa. Il triestino azionò il computer, attrezzo col quale Cecè aveva scarsa confidenza. Apparse la foto del cantante, identica a Joe Bolton in carne e ossa. La differenza era che si chiamava Paolo Brambilla, era nato a Milano nel 1939 e di mestiere faceva il cantante. Seguiva l’indirizzo. Cecè notò che non era segnato il numero di cabina.
“Mah, mi pare in una cabina a quattro, con gli altri cantanti”.
C’era qualcosa che non quatrava. E non quatrava soprattutto l’atteggiamento del suo vice, tra l’evasivo e l’imbarazzato. Decise di non parlare col triestino dei suoi dubbi. La sera, dopo la cena, fu lui stesso a proporre alla signora Agata di tornare a sentire il cantante. S’ingollò il repertorio di Bolton fino alla mezzanotte passata, quando la signora Masseroni in McGivern già da tempo aveva raggiunto il petrolifero letto coniugale. Seguì discretamente Joe Bolton al bar, dove il cantante si scolò due whisky propiziatori al sonno, lo seguì ancora mentre quello imboccava il corridoio delle cabine extralusso. Lo vide aprire la porta con la chiave, entrare, richiudere. Rimase ammammaloccuto.
Possibile che Bolton avesse tanto denaro da potersi concedere una cabina di quel tipo? No, c’era un’altra spiegazione: certamente lì ci stava una qualche ricca signora alla quale il cantante concedeva i suoi favori.
L’indomani, a primo mattino, trasì dal suo ufficio, il vice non era ancora arrivato, e spiò all’addetto di guardia:
“Chi occupa la cabina numero 10?”.
L’addetto consultò il computer.
“Nessuno. Risulta vuota”.
Eh, no. Non gliela stavano contando giusta. E ora veniva fora che Joe Bolton poteva contare su coperture e complicità. In quel momento trasì in ufficio il triestino.
“Le devo parlare. Da solo” – fece brusco Cecè. Andarono nel retroufficio.
“Ora lei mi dice tutto su Joe Bolton. E cerchi di non pigliarmi in giro, l’ha già fatto abbastanza”.
“Mi perdoni, commissario, Lei ha ragione. Ma ho avuto ordini precisi. Nessuno poteva pensare che il suo fiuto di poliziotto l’avrebbe fatta sospettare”.
“Ne parli col comandante, se crede”.
“Certo che gli parlo!” – s’infuriò Cecè, agguantando la cornetta del telefono interno. Appena sentì il nome di Joe Bolton, il comandante disse a Cecè di salire immediatamente sul ponte comando.
“Questo Bolton, che in realtà si chiama Brambilla…” – esordì fora dalla grazia di Dio.
“Chiamarsi Brambilla non è un reato, le pare?” – L’aggelò placido il comandante.
“Non sarà un reato, ma francamente lui è un tipo equivoco. Lo sa? Porta parrucca, lenti a contatto e baffi finti. Si è truccato perché non vuole farsi riconoscere, sicuramente ha qualcosa da nascondere”.
“E’ vero. Guardi, commissario, potrei dirle che tutto è in ordine e che della faccenda rispondo io.
Tanto il signor Bolton è previsto sbarchi al prossimo scalo. Ma voglio rendere omaggio al suo sguardo acuto. Lo sa chi si cela dietro al nome Brambilla?”. “Perché, macari quello è falso?” – spiò allibito Cecè.
“Sì, lo è. Il vero nome di Bolton-Brambilla è… “. Lo fece, il nome. E Cecè Collura sbiancò.
“Ma come?” – balbettò appena si fu ripreso – “Un miliardario! Uno come lui! Uno che è stato
Il comandante isò una mano a interromperlo.
“Lei lo sa quali sono stati i suoi inizi? Cantava, come adesso, sulle navi da crociera. Ha voluto ritrovare un pochino della sua giovinezza. Vogliamo condannarlo per questo?”
Cecè allargò le braccia, salutò, niscì. Ma subito fora dalla cabina del comandante l’attraversò un pensiero. Lui era un finto commissario di bordo. Joe Bolton era un finto cantante. Quanti altri “finti” c’erano a bordo? E quella crociera era vera o virtuale?”
Andrea Camilleri, da “Le inchieste del commissario Collura”