mi chiamo Fatima e le scrivo questa lettera da oltre mare, perché sono una figlia di immigrati emigrata a mia volta e, spesso, mi chiedo perché.
Tra un paio di mesi compio 25 anni, ma dentro mi sento vecchia come se ne avessi il quadruplo. Questo succede quando si fa fatica a trovare bellezza in ciò che ci circonda, quando la rabbia si consuma e si trasforma in indifferenza fradicia di rassegnazione.
Due anni fa ho sentito il petto schiacciato da un’amarezza che non trovava rimedio nelle promesse di chi stava guidando la nazione.
Due anni fa mi ritrovavo avanzo avariato di un’italianità che non ho né ereditato, né guadagnato, ma di cui la mia penna si è innamorata in prima elementare.
Due anni fa dicevo basta. Basta ad una terra che ho amato fino allo sfinimento, fino a sentirla seduta sul cuore, fino a vederla madre d’ogni mia parola d’amore, fino a non riconoscerla più.
Ho fatto armi e bagagli e mi sono trasferita un po’ più a nord del continente, affamata come ogni giovane dovrebbe essere, ma anche delusa come nessun giovane dovrebbe essere. Ho dovuto ricominciare, proprio come avevano fatto i miei genitori agli inizi degli anni ‘90, non appena le loro mani calde di separazione hanno aperto la porta di un piccolo appartamento tra le pianure emiliane, solo che io sono più fortunata perché ho un passaporto che mi risparmia metà delle fatiche e metà delle esclusioni.
Inizialmente mi son dovuta accontentare. Ho dovuto patire la miseria che ogni straniero incontra tra l’alba e il tramonto d’una fetta di mondo che non lo conosce. Ho avuto freddo, ho avuto paura e poi, solo alla fine e lentamente, ho avuto nostalgia. Nostalgia di un paese che capisce la lingua con cui penso e con cui sogno, ma che si ostina a rimanere cieco e sordo di fronte alle sofferenze di chi non ha i mezzi e gli strumenti.
Ogni mattina percorro la stessa strada per dirigermi a lavoro e, in ogni ristorante o bar che supero, ci sono almeno due italiani che, nel fiore dei loro anni, hanno dovuto lasciare casa per necessità, trasferendosi sotto la pioggia inglese che non riesce a lavare via ciò da cui scappiamo e che ci macchia la mente.
Quando il mio sguardo incrocia quello di qualsiasi italiano, ci riconosciamo: tra le nostre pupille, voracità e sconforto fanno a gara e ancora non sappiamo chi vincerà. Qualcuno mi dice che ho fatto bene ad andarmene , mentre qualcun altro mi esorta a tornare, perché c’è bisogno di gioventù coraggiosa per costruire qualsiasi cosa si voglia costruire, che bisogna combattere per potersi lamentare in caso di sconfitta e poter esultare in caso di vittoria. Il fatto è che nessuno di noi sa più chi sono i buoni e chi i cattivi, per chi votare, con chi stare e se varrà davvero la pena.
Signor Ministro, siamo così tanti qui e un po’ dappertutto, noi figli di un’Italia che rimane bella sempre da sempre, ma che pecca in egoismo continuamente.
Quando La sento gridare alle masse che il nemico arriva dal mare, quando La vedo puntare il dito su un barcone di gente persa e dispersa, quando parla di “noi e loro”, quando accenna alla “sostituzione dei popoli”, quando descrive molti di quelli che somigliano ai miei genitori come “delinquenti”, quando dice che bisogna chiudere le frontiere, quando vede la minaccia nello sguardo di un rifugiato, quando rinnega le esigenze primordiali di ogni essere umano e il suo diritto di essere tutelato, quando parla di difesa senza conoscere il vero nemico, quando raduna le folle e fa propaganda, quando incita all’odio e quando gioca con gli stereotipi come si gioca a carte, a me vengono in mente tutti questi figli dell’Italia a cui lei non pensa perché è troppo preoccupato a voler controllare chi arriva, senza accorgersi di chi se ne va e del perché lo fa.
Le dirò una cosa, Signor Ministro, io non sono stata molto fortunata nella vita, ma se c’è una cosa di cui son grata è l’empatia e posso dire con assoluta certezza che la Sua politica ne è priva.
Mi domando se a fine giornata si sente in pace con Se stesso, se quando guarda gli occhi di suo figlio non vede anche gli occhi di tutti quelli che sono morti in nome della chiusura dei porti. Mi chiedo se la Sua coscienza non trema nemmeno un po’ quando si ricorda di avere le redini di milioni di persone che ci stanno sperando profondamente.
La verità é che l’Italia è condannata per i Suoi errori e per quelli di chi L’ha preceduta. È sufficiente dirlo, ammetterlo, esorcizzarlo e poi individuare un’ipotetica soluzione, una mezza via che, Le assicuro, non ha nulla a che vedere col colore della pelle o con le moschee o il cibo etnico.
Signor Ministro, mi fa male il cuore perché quando ripenso a mia madre ed a mio padre, al sacrificio che hanno fatto per garantirmi l’opportunità di vivere e studiare, alle loro odissee e al fatto che i miei nonni moriranno senza che io li abbia vissuti, mi accorgo che siamo punto e a capo. È come se per trent’anni si fossero impegnati a creare un regno in una sabbia mobile, avida e ingorda che non riconosce né onestà né umiltà.
Questa lettera è un grido di aiuto, è una supplica, è un rimprovero, è una storia, è un lamento e un’arma e mi auguro che Lei non si offenda né se ne rincresca, sicché il paese in cui sono nata e cresciuta è dimora di partigiani e della libertà di espressione, per poter dare voce anche a chi sente di averla persa da tempo ormai.
Signor Ministro, io mi chiamo Fatima e ci siamo incontrati un po’ di tempo fa. Aveva detto che “quelle come me” sono benvenute, perché siamo “integrate”, ma io oggi voglio dirle che lei sta contribuendo a disintegrare ogni frammento di opportunità futura per tutti gli italiani, che siano essi giovani o anziani, ricchi o poveri, bianchi o neri.
Non permetta alla sua memoria di dimenticare ciò che è stato e contribuisca a salvare ciò che sarà, senza odio né paura.