Pensieri

Decolonizzare la mente

18.12.2021

“Se vuoi assoggettare i corpi, usa catene e cannoni. Ma i cannoni e le catene non bastano, ti serve qualcosa come una calamita, che da un lato respinge, dall’altro subdolamente attrae, a seconda di come la volti. Qualcosa che se allontanata retoricamente da te, rimane concretamente dentro di te. La conquista dell’Africa è stata fatta con i cannoni, ma per rendere eterna tale conquista dovevano intervenire sulle scuole, sulla formazione delle élites, trasformare la pluralità in una sorta di monoglottismo del capitale. Dovevano incantare l’anima e la mente, asservendole silenziosamente

Per questa ragione, si presenta con urgenza la necessità decolonizzarle, partendo dal mezzo più potente di cui si è servito l’imperialismo coloniale e ancora si serve l’imperialismo postcoloniale: il linguaggio. In Africa, il portoghese, il francese e l’inglese sono state le lingue del potere, le lingue del governo e di tutta l’amministrazione. Sono state le lingue della classe media e della borghesia e di chi poteva permettersi di “studiare”. La borghesia acculturata è così entrata di fatto a far parte di una comunità basata su uno standard europeo di cultura. Questo fatto ha avuto un impatto sull’assetto geopolitico e geoculturale dell’Africa. In questa prospettiva imperialista, studiare significa, allora, entrare in quel sistema linguistico e di valori, un sistema molto selettivo e riduttivo, che riproduce perpetuamente le stesse logiche di dominio da cui è partito. Premesse e conclusioni non differiscono e nel mezzo… c’è sfruttamento dell’altro, non meno che autosfruttamento di sé.

Mai come oggi, ila borghesia africana subisce l’influenza della lingua inglese, vietando ai propri figli di apprendere, parlare, scrivere in una delle lingue africane. La classe media pensa che i propri figli, i figli dei borghesi di oggi, saranno i borghesi di domani. La futura classe dirigente deve così perpetuare il monolinguismo, la sudditanza, lo svuotamento. La loro mente è colonizzata, una mente colonizzata dalla lingua dominante. Per questa ragione, il futuro dell’Africa mi preoccupa molto. Mi preoccupa l’abbandono, non più imposto con la sola coercizione fisica, ma da una sorta di disciplinamento delle anime.

Sono strategie sottili, che l’imperialismo conosce molto bene, perché l’imperialismo è un serpente, striscia e si insinua dove meno te ne accorgi.. Oggi questo imperialismo si è incanalato per vie che non sono solo quelle delle braccia o delle schiene ricurve dalla fatica. È un imperialismo che è arrivato a lambire la coscienza, trasformando in falsa coscienza quello che viene però proclamato come autocoscienza. Intendo dire, che di questo imperialismo è intrisa l’aria che si respira e sottrarsi, oggi, è difficile, per via delle catene immateriali che legano anima e mente.

La borghesia non dico piccola, ma piccolissima, i contadini, i braccianti e la gente povera hanno continuato a parlare nelle lingue africane, a pensare nelle lingue africane, a vivere con le lingue africane. Questo ha fatto sì che fosse mantenuta viva un’altra comunità, parlante le lingue locali. Questa comunità parlava ma non scriveva in queste lingue. La lingua dei colonizzatori è diventata una prigione linguistica, ma questo vale per tutti. Infatti, i conquistatori sono stati conquistati. Alienazione e conquista della nuova lingua hanno creato il dispositivo del dominio indiretto: la padronanza dell’inglese costituiva il titolo d’accesso all’élites dei domesticati… […]

La mia decisione di scrivere in lingua  gĩkũyũ la presi in prigione, in una cella di massima sicurezza. Venni arrestato il 31 dicembre 1977 e liberato il 12 dicembre del 1978. La ragione del mio arresto era legata al lavoro che stavo facendo, nel teatro di una comunità locale. Rappresentavamo un testo che avevo scritto e quel testo era in gĩkũyũ. Scrivere e fare teatro in una comunità locale era possibile solo servendosi della lingua di quella comunità. Il 16 novembre del 1977, il governo vietò la rappresentazione di Ngaahika Ndeenda (Mi sposerò quando vorrò), questo il titolo della mia pièce. Questo provvedimento e la successiva carcerazione mi portarono a riflettere, in maniera più approfondita, sul rapporto diseguale e asimmetrico fra lingue locali e lingua coloniale. Da questa riflessione nasce la mia decisione di scrivere in gĩkũyũ.

Gli scrittori che hanno fatto qualcosa per la loro lingua sono fonte di continua ispirazione per me. Penso a Dante, sul quale spesso ritorno. In epoca di latino imperante, Dante scelse il toscano e in quella lingua inscrisse il futuro. A chi gli rimproverava di non scrivere in latino, lingua dell’universale, Dante replicava – in latino – che il toscano era una scelta, una scelta consapevole, meditata, precisa. Anche io, nel mio piccolo, ho fatto la mia scelta. Posso parlare in inglese, come sto facendo ora, tenere lezioni, scrivere ancora saggi in inglese, ma non è questo il punto.

Il gĩkũyũ fa di me un combattente. Ho combattuto così contro le politiche del governo, violente, intolleranti o semplicemente dettate dall’inerzia. Ma la mia lingua ha fatto di me quello che sono: un guerriero consapevole, un combattente pragmatico che difende le sue scelte. Amo le lingue, la differenza nelle lingue. Da Petali di sangue in poi, ho deciso che la mia narrativa l’avrei scritta solo in gĩkũyũ. Lo stesso era accaduto per il teatro e la poesia. Questo non ha impedito la circolazione dei miei lavori, anzi. Proprio questo ha fatto sì che venissi tradotto, là dove prima “semplicemente” scrivevo.”

Tratto da Marco Dotti, “Decolonizzare la mente. Intervista con Ngũgĩ wa Thiong’O”, 26 luglio 2015

Ngũgĩ wa Thiong’O, scrittore e saggista keniota, scrisse il suo primo romanzo  su rotoli di carta igienica, mentre era chiuso in un carcere di massima sicurezza a Kariti. Una delle sue opere più importanti è Decolonising the Mind: The Politics of Language in African Literature (Decolonizzare la mente. la politica della lingua nella letteratura africana).

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