“Quando nello spazio non si era ritirato
ancora il Nulla di questo Universo,
io credo che Dio cercasse qualcosa,
come rimedio alla ferita della noia.
In un istante girò intorno allo spazio,
e non trovò nulla tranne se stesso:
volle un’Essenza della sua Essenza: –
e la sua Essenza fu la sua eco.
Poi ritornando, triste e addolorato,
dal sordo Silenzio e dal cieco Nulla,
anche da loro volle qualcosa, ed essi
diedero se stessi, cioè non diedero nulla.
Quando Egli trovò l’Immensità così vuota,
provò un profondo, crudele dolore:
e sul Silenzio e sul Nulla
pianse dal cuore la sua disperazione.
Cadendo, le sue lacrime lo esaudirono,
formando ogni stella nel cielo: –
e come al Poeta anche a Dio,
per creare, fu necessario piangere.”
Daniel Varujan, “Il pianto di Dio”
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“È costruita con il cipresso.
e con il sangue colorata:
la dondola la tempesta inferocita.>
Dalla volta pendono
perle, perle di turchese: –
sono le lacrime del cielo,
cadute, ghiacciate dal freddo.
Nell’umidità, nel fumo oscuro,
di cui la capanna è piena,
si dondola piano la culla antica,
come l’antica vendetta della mia anima.
È l’abisso dove l’armeno
partorisce i suoi draghi ribelli,
dove i baci, le rose rossastre
emanano odore di sangue.
Nessun delicato seno materno
vi apre il suo cielo:
là diventano madre le tenebre,
e i fulmini mammelle.
E in mezzo ai vagiti, al pianto
il ragazzo pallido cresce
tra le braccia dell’amico, del caso
cresce.
E forse domani egli sarà
un guerriero dagli occhi di fuoco, nuvola fulminante:
-A noi la mangiatoia dà un Gesù,
invece la culla armena un Insorto…”
Daniel Varujan, “La culla degli Armeni”
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“Voglio che non canti la morte il canto del cigno,
Ma canti la vita scorrendo
Voglio che non in mare si riversino le piogge inutilmente,
Ma nei campi
Che si senta non il pianto materno, ma quello infantile,
E non sul serio
E se a qualcuno il sangue deve diventare acqua,
Che diventi almeno
Vino.
Soffrire per i tradimenti? Che soffrano
Gli idioti, ce ne sono tanti in giro.
Desiderate stirare? Ecco, stirate un abito,
E non il cuore con il ferro da stiro.
Chi bollare?
Vitelli e vitelloni, e non l’onore dell’uomo,
Benché in ciò non ci sia niente di nuovo.
Si può cantare –
Purché non gridino: «E smettila una buona volta»,
E anche abbracciare –
Affinché entrambi muoiano per arresto cardiaco.
E stimare –
Purché non puzzi di lusinga a un chilometro di distanza.
E fabbricare –
Purché sembri non fatta da mani umane un’opera di mani comuni.
Cadere stecchito –
Un carro armato nemico sulla strada, non un veicolo antincendio.
Che posso fare con desideri
Così grandi?
Lasciatemi seguitare
Essere amato –
Soltanto da solo. E soltanto una volta.
Pensate che io voglia l’impossibile?
Sono sogni infantili?
Allora che generino senza dolore, come annusano i fiori,
Combattano – senza una goccia di sangue,
Che sia un incendio senza fuoco.
Che siano contagiati l’un l’altro soltanto dalla salute delle anime,
(Chi non lo vorrebbe? Chi non lo sognerebbe?)
Serve la liturgia?”
Sevak Rafaelovič Kazarjan Paruyr – da “Voglio”
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Il 29 maggio 1915, il governo dei “Giovani Turchi” (affermatosi nel 1909 e il cui nome ufficiale era “Comitato dell’unione e progresso”) emana la legge Tehcir: lo scopo è quello di cancellare le diverse comunità presenti nell’impero turco (armeni, assiri, ebrei, greci) per creare, in nome dell’ideologia panturca, uno stato etnicamente e culturalmente omogeneo. Per gli Armeni comincia la tragedia del “Medz Yeghern” (il “Grande crimine”): tutti i loro beni vengono espropriati e con l’aiuto dei tedeschi l‘intera popolazione viene deportata, a marce forzate, nel deserto di Der es Zor, dove ben pochi arriveranno vivi. Il genocidio, che conta più di un milione e mezzo di vittime, non ha ancora ottenuto alcun riconoscimento da parte della Turchia.
Nelle immagini: in basso, “Tsitsernakaberd”, sulla “Collina delle Rondini”, a Yerevan, il memoriale del genocidio armeno. In alto, il monte Ararat, sacro agli Armeni, ma oggi appartenente alla Turchia.