“Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.”
Primo Levi
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Kumar Stane, “Bambino di ?aban” – 1943 Campo di concentramento di Gonars, Italia (Udine)
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Ricordare
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Lettera alla madre
“Fili elettrici, alti e doppi,
non ti lasceranno mai più rivedere tua figlia, Mamma.
Non credere alle mie lettere censurate,
ben diversa è la verità; ma non piangere, Mamma.
E se vuoi seguire le tracce di tua figlia
non chiedere a nessuno, non bussare a nessuna porta:
cerca le ceneri nei campi di Auschwitz,
le troverai lì. Ma non piangere — qui c’è già troppa amarezza.
E se vuoi scoprire le tracce di tua figlia
cerca le ceneri nei campi di Birkenau:
saranno lì — Cerca, cerca le ceneri
nei campi di Auschwitz, nei boschi di Birkenau.
Cerca le ceneri, Mamma — io sarò lì!
Monika Dombke (uccisa a Birkenau nel 1943), “Lettera alla madre”
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Svolinski Karel, “Occhi tristi”, 1940 – Campo di concentramento di Terezín, Cecoslovacchia
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Che infamia
“Che infamia
Che i giorni scorrano senza alcun senso
Che anziché il riso — io conosca soltanto lacrime
Sono avvilita, sono angosciata
Per aver perduto ogni speranza da così tanto tempo
Come accettare la grettezza umana?
Come pensare alla morte — quando il mondo mi sta chiamando!
Non ho ancora vent’anni
Sono giovane!
Giovane,
GIOVANE!
Vita sciupata, che infamia…”
Halina Nelken, (Uccisa ad Auschwitz nel1944)
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Shemà
“Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo,
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi:
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.”
Primo Levi, “Shemà”, da Se questo è un uomo”, 1956
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Szajna Jósef, “Appello”, 1944 – Campo di concentramento di Buchenwald, Germania
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Brandhuber Jerzy Adam, “Esecuzione”, 1946 – Campo di concentramento di Owiecim (Auschwitz) Polonia
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Il sole sorge sul campo di Auschwitz
“Il sole sorge sul campo di Auschwitz,
Splendente di un bagliore roseo
Stiamo tutti in fila, giovani e vecchi,
Mentre nel cielo scompaiono le stelle.
Ogni mattino stiamo qui per l’appello
Ogni giorno, con la pioggia o con il sole
Sui nostri volti sono dipinti
Dolore, disperazione, tormento.
Forse proprio ora, in queste ore grigie,
A casa mia piange un bambino
Forse mia madre sta pensando a me…
La potrò mai rivedere?
In questo momento è bello sognare ad occhi aperti,
Forse proprio ora il mio innamorato mi pensa
Ma — Dio non voglia — se
Andassero a prendere anche lui?
Come su uno schermo argentato
L’azione continua splendida
Poco lontano arriva qualcuno
In una limousine nuova e brillante.
Scendono con lentezza e con grazia,
Le “Aufseherinnen” (1) indossano abiti blu.
Ci trasformiamo immediatamente in pilastri di sale,
Numeri, nullità inanimate.
Ci contano con arroganza sprezzante
Loro — la razza più nobile
Sono i tedeschi, la nuova avanguardia
Che conta la marmaglia a strisce, senza volto.
All’improvviso, come per una scossa elettrica, rabbrividiamo
Al pensiero che simile a un razzo ci balena in testa
Costei deve essere anche una moglie o una madre
Una donna… E anche io sono una donna…
La pellicola sensazionale si svolge lentamente
“Achtung!” Sistemare la fila!
Questo è un momento davvero speciale,
Si avvicina il “Lagerkommandant”.
È possibile che il mondo sia tanto pericoloso?
Un fischio e, in un attimo, il silenzio
Fra di noi pronunciamo una preghiera quieta
Ma c’è qualcuno che ci può sentire?
Il sole è di nuovo alto nel cielo,
Brillanti e rosei sono i suoi raggi.
O Dio caro, Ti chiediamo
Arriveranno giorni migliori?
Krystyna Zywulska
(1) Sorveglianti
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Brandhuber Jerzy Adam, “Contro il filo”, 1946 – Campo di concentramento di Oswiecim, Polonia
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Il violinista di Auschwitz
A Jack-Yaacov Strumsa – superstite di Salonicco
“Ogni mattino
anche quando per caso
non c’è stato nessun incubo
quando non mi son destato
in un sudore freddo,
quando non mi sono alzato nello spavento,
nel terrore delle SS.
Proprio ogni mattino.
Il motore ronza sommesso
i luoghi scorrono via veloci
il viale, i semafori
la strada s’inerpica,
su per la collina,
il cancello aperto.
Ogni mattino
Yad Va’Shem ?
il Memoriale dell’Olocausto.
Lo stesso borbottio
le stesse voci
le stesse note
la stessa musica
la marcia
la piccola città in fiamme.
La musica guida la mia auto,
mi trascina come una calamita
come un cavo
come la catena di un argano
a Yad Va’Shem.
La Tenda della Memoria
il Lume Perpetuo
candele
la Sala dei Nomi
foto, occhi,
denti, dentiere d’oro, capelli umani.
Qui stanno le camere a gas,
i forni,
i crematori
e gli ebrei in informi abiti a strisce
che spostano corpi.
Donne nude che cercano invano
di celare la loro vergogna
sul ciglio della fossa comune.
Mancano soltanto
il fetore, il fumo e la musica.
Cosa significano il rumore,
la cadenza dei passi
“Links, sinistra, sinistra…!”
La frusta, gli spari,
“Il lavoro rende liberi”
sull’arco sopra il cancello.
E tutt’intorno
mura, cani, e filo spinato;
elenchi di nomi e di numeri
e c’è una mano ? Yad, mani.
Nella parata, chi viene, chi va
da dove, per dove?
Là io suonavo il violino,
fui selezionato
per l’orchestra
che ogni giorno accompagnava, con la musica,
gli ebrei spinti
nelle camere a gas
sull’orlo dell’abisso ?
al luogo da cui nessuno fa ritorno,
nessuno torna indietro
è soltanto rimosso, cadavere
per gli inceneritori.
Non v’è più bisogno di correre
nessun motivo di terrore
ma quella melodia echeggia ancora nella mia testa.
E così arriverò
qui, oggi ieri
domani,
davanti alla foto dei suonatori:
un’orchestra che guida
la processione infinita di quelli che camminano
nella Valle dell’Ombra della Morte.
Sì, ora sono un nonno
dai capelli bianchi;
rimane ben poco di me
ma i miei tratti somigliano ancora,
un po’, al violinista, a me,
là sulla foto
di Auschwitz.
E può accadere
che un visitatore di Yad Va’Shem mi osservi,
fissi la parete, e resti sorpreso.
Come se vedesse qualcuno
al di là di uno spartiacque ?
un’apparizione che, per lui,
appartiene all’altro mondo;
che, per me, è
quel mondo che fu.
Mattino dopo mattino
giorno dopo giorno
arriverò qui,
con quella musica che mi perseguita,
a quelle immagini sulla parete
a quel fetore nelle narici
che solo io posso avvertire.
Questo è il mio luogo, gli appartengo.
Non sono una “statua vivente”:
son vivo.
Di questo monumento
sono una parte.
Questo Yad Va’Shem ?
Mano e Nome ?
e corpo:
il mio.”
Moshé Liba, “Il violinista di Auschwitz”, da “The Auschwitz Poems”, 1999
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Omersa Nikolaj, “Punizione”, 1945
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Il coro dei superstiti
“Dopo Auschwitz non c’è teologia:
dai camini del Vaticano si leva fumo bianco,
segno che i cardinali hanno eletto il papa.
Dalle fornaci di Auschwitz si leva fumo nero,
segno che gli dei non hanno ancora deciso di eleggere
il popolo eletto.
Dopo Auschwitz non c’è teologia:
le cifre sugli avambracci dei prigionieri dello sterminio
sono i numeri telefonici di Dio
da cui non c’è risposta
e ora, a uno a uno, non sono più collegati.
Dopo Auschwitz c’è una nuova teologia:
gli ebrei morti nella Shoah
somigliano adesso al loro Dio
che non ha immagine corporea né corpo:
Essi non hanno immagine corporea né corpo.
Yehuda Amichai, “Dopo Auschwitz”
“Anche tu vieni condotta via, un paio d’occhi
che indossano lo sguardo come un’armatura.
Tu assisti a tutto. Non devi soffrire
la vergogna fisica, gli indumenti
che ti vengono tolti, il tuo corpo
messo in piedi in mezzo ad altri corpi piangenti. In un modo o nell’altro, ne esci indenne.
Nell’orlo del cappotto ti cuci un urlo
da dispiegare poi in un paese libero.
Tess Gallagher, “L’invito”, da “Viole nere”
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Delarbre Léon, “Il grande Georg, Kapo generale della Werk II: uno dei più bruti al servizio dei tedeschi” – 1944 Campo di concentramento di Dora, Germania
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Memoria
“Gli uomini vanno e vengono per le strade della città.
Comprano libri e giornali, muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso,
Ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto,
solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre.
E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani erano quelle
che spezzavano il pane e versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo
a guardare il suo viso per l’ultima volta.
Se cammini per strada, nessuno ti è accanto.
Se hai paura, nessuno ti prende la mano.
E non è tua la strada, non è tua la città.
Non è tua la città illuminata: la città illuminata è degli altri,
degli uomini che vanno e vengono comprando cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra
e guardare in silenzio il giardino nel buio.
Allora quando piangevi c’era la sua voce serena.
Allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.
Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;
e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.”
Natalia Ginzburg, “Memoria”(Questa poesia è stata scritta in memoria del marito Leone, torturato e ucciso dai nazisti nel carcere di “Regina coeli” il 5 febbraio 1944)
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Matoušek Ota, “Al lavoro”, 1943-45 – Campo di concentramento di Flossenbürg, Germania
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Fuga di morte
“NERO latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti.
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastini
fischia ai suoi ebrei e fa scavare una tomba nella terra
ci comanda ora suonate alla danza
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti
Lui grida vangate più a fondo il terreno voi e voi cantate e suonate
impugna il ferro alla cintura lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
spingete più a fondo le vanghe voi e voi continuate a suonare alla danza
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti
Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco
lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell’aria
e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e la mattina beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
aizza i suoi mastini contro di noi ci regala una tomba nell’aria
gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco
i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith”
Paul Celan, “Fuga di morte”
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Alherbert Bernhard, “Pronti per il crematorio”, 1945 – Campo di concentramento di Gusen, Austria
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Nel vero anno zero
“Meno male lui disse, il più festante: che meno male c’erano tutti.
Tutti alle case dei Sassoni – rifacendo la conta.
Mai stato in Sachsenhausen? Mai stato.
A mangiare ginocchio di porco? Mai stato.
Ma certo, alle case dei Sassoni.
Alle case dei Sassoni, in Sachsenhausen, cosa c’è di strano?
Ma quante Sachsenhausen in Germania, quante case.
Dei Sassoni, dice rassicurante
caso mai svicolasse tra le nebbie
un’ombra di recluso nel suo gabbano.
No non c’ero mai stato in Sachsenhausen.
E gli altri allora – mi legge nel pensiero –
quegli altri carponi fuori da Stalingrado
mummie di già soldati
dentro quel sole di sciagura fermo
sui loro anni aquilonari. dopo tanti anni
non è la stessa cosa?
Tutto ingoiano le nuove belve, tutto –
si mangiano cuore e memoria queste belve onnivore.
A balzi nel chiaro di luna si infilano in un night.”
Vittorio Sereni, “Nel vero anno zero” (il titolo allude al film neorealista “Germania anno zero“, del per la regia di Roberto Rossellini), da “Strumenti umani”
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Lonek Bohumil, “Morto vivo”, 1945 – Campo di concentramento di Mauthausen, Austria
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Un cappottino rosso cuore
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Barbieri Agostino, “Camere a gas”, 1945
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E la Germania e la Francia portano un libro e una spada fiammeggiante,
sulle navi l’Inghilterra percorre un sentiero d’argento e d’azzurro,
e la Russia è un’ombra che incombe, una fiamma arde sul suo focolare,
e noi, noi siamo nati dal patibolo e dalla forca!
Questo cuore che scoppia, trasudare di morte, senza lacrime gli occhi,
e al palo della tortura il gemito eterno che il vento, ululando, consuma,
e la mano scarna – le vene come vipere verdi – la povera mano
che lotta contro la morte fra roghi e capestri.
L’inferno ha bruciato la barba canuta, gli artigli del diavolo l’han fatta a brandelli,
l’orecchio mutilato, le ciglia strappate; gli occhi, velati, si offuscano:
Oh, voi ‘ Quando giunge l’ora fatale, qui ed ora, io voglio alzarmi,
voglio essere il vostro arco trionfale attraverso il quale passano le pene e i tormenti!
Non bacerò la mano che agita il turgido scettro dei pieni poteri,
non bacerò il ginocchio di bronzo, ne il piede d’argilla del dio d’un tempo crudele;
Oh, potessi – io, fiaccola ardente – levare la voce
nell’oscuro deserto del mondo: giustizia! giustizia! giustizia!
Caviglie. Ho trascinato catene, risuona il mio passo di prigioniero.
Labbra. Serrate, sigillate da cera incandescente.
Cuore. Una rondine in gabbia che supplica di volare.
E sento la mano che trascina su un mucchio di cenere il mio viso piangente.
Solo la notte è in ascolto: ti amo popolo mio, vestito di stracci:
come il figlio di Gea, terra dei pagani, si trascina spossato verso la madre,
tu ora buttati in basso, sii debole, abbraccia il dolore,
un giorno il tuo piede di viandante, stanco, calpesterà il capo dei potenti!”
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Brandhuber Jerzy Adam, “Ritorno dal lavoro”, 1946 – Campo di concentramento di Auschwitz, Polonia
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Engov Božo, “Morte”, 1945 – Campo di concentramento di Dachau, Germania
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Io ne ho memoria
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Spalmach Gino, “Oltre i reticolati”, 1944 – Campo di concentramento di Wietzendorf, Germania
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I disegni sopra riportati sono tratti da “K.Z. (“Konzentration Zenter” ) Disegni degli internati nei campi di concentramento nazifascisti”, a cura di Arturo Benvenuti, 1983
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Disegno di Antonella Martino
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Cosa c’è nel museo di Auschwitz
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Nell’immagine in evidenza: Lo Yad Vashem, il Memoriale dell’Olocausto e degli eroi, il cui nome riprende le parole pronunciate da Dio nella promessa fatta al suo popolo: «Io darò loro, nella mia casa e tra le mie mura, un monumento (yad) e un nome (shem) più che se fossero figli e figlie; io darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato» (Isaia, 56,5).