“Ieri notte ho provato la sensazione di cui ho letto senza trarne profitto: il flusso di paura nauseante, da annientare l’anima, nel mio sangue, che invertiva il suo corso per rispondere alla sfida della lotta. Non riuscivo a dormire, malgrado fossi stanca, e stavo distesa a sentire il dolore sfiorarmi i nervi e la voce interiore gemere: oh, non riesci a insegnare, non riesci a fare niente. Non riesci a scrivere, a pensare. E giacevo sotto il gelido flusso negativo del rifiuto, a pensare che quella voce era solo mia, parte di me, e che stava cercando di possedermi per poi abbandonarmi in preda alle mie visioni peggiori: avevo avuto la possibilità di combatterla e vincerla giorno per giorno, ma avevo fallito.
Non posso ignorare questo io omicida: esiste. Lo subodoro, lo sento, ma non lo chiamerò con il mio nome. Lo svergognerò. Quando dirà: non dormirai, non sai insegnare, andrò avanti lo stesso e gli romperò il naso.
Ho un buon io, che ama i cieli, le colline, le idee, i piatti appetitosi, i colori brillanti. Il mio demone vorrebbe ucciderlo imponendogli di diventare perfetto e spingendolo a darsela a gambe levate se non ci dovesse riuscire. Mi ostinerò a fare del mio meglio, con coscienza, non importa quello che diranno gli altri. Posso imparare a insegnare meglio. Ma solo a forza di tentativi ed errori. La vita è tutta dolorosi tentativi ed errori.
Io ho questo demone che vorrebbe vedermi scappare urlando se fossi sul punto di cedere, di fallire. Vuole farmi pensare di essere tanto brava da dover essere perfetta. O niente. Al contrario, io sono qualcosa: una persona che si stanca, che deve combattere la timidezza, che ha moltissimi problemi nell’affrontare il prossimo con disinvoltura. Se supererò quest’anno, ricacciando il demone a calci quando spunta fuori, rendendomi conto che sarò stanca dopo una giornata di lavoro e dopo aver corretto tesine e che è una stanchezza naturale, non qualcosa di cui farneticare nel panico, sarò in grado di guadagnare un centimetro alla volta nella vita, invece di scappare a gambe levate appena fa un po’ male.
Il demone vorrebbe umiliarmi, spedirmi a piangere in ginocchio davanti al preside del college, al mio direttore di dipartimento, a tutti: guardatemi, povera me, non ce la posso fare. Parlare agli altri delle mie paure le ingigantisce. Esibirò una facciata tranquilla e lo combatterò dietro le mura del mio io, ma non gli offrirò l’investitura sociale di un’apparizione pubblica, con me che intanto scappo per poi arrendermi. Mi manterrò intatta.
Ogni giorno registrerò un ostinato passo avanti o un momento significativo. Devo scacciare l’dea insinuante della bestia impaurita dentro di me, elaborato simbolo di fuga, e affrontare le giornate con forza mettendole in riga. Il demone della negazione mi tenterà un giorno dopo l’altro e lo combatterò come qualcosa al di fuori del mio io essenziale, che lotterò per salvare. Ogni giorno mi porterà un nuovo stimolo, sia esso il piacere semplice di osservare il corpicino scattante e peloso di uno scoiattolo, o il contatto nel profondo con l’aria e il colore, o la lettura e la visione di un oggetto sotto una nuova luce; una bella spiegazione o cinque minuti in classe per riscattarne quarantacinque brutti.
Combattere attimo per attimo per uscirne. Via da sotto quella nuvola nera che annienterebbe tutto il mio essere con la sua pretesa di perfezione. Io sosterrò la mia piccola smagliatura personale, prendendo la vita con graduale disinvoltura, caparbia all’inizio ma via via più felice. La prima vittoria è stata accettare questo lavoro; la seconda prendere e tuffarmici prima che il mio demone potesse dire di no, perché non ero abbastanza brava; la terza, andare in classe dopo una notte insonne e disperata; la quarta, l’aver affrontato ieri notte il demone, e avergli sputato in un occhio. Basta cedere alla disperazione, lamentarsi, lagnarsi: al dolore si finisce per abituarsi. E fa male. Questo mese finisce il mio primo quarto di secolo, vissuto all’ombra della paura: paura che mi venisse a mancare una qualche perfezione astratta. Ho spesso lottato, lottato e conquistato, non la perfezione, ma l’accettazione del mio diritto di vivere nei miei termini umani, imperfetti. Adesso è ora che mi costruisca dentro, che mi dia spina dorsale, anche se fallisco. Superare quest’anno, non importa se malamente, sarà la mia vittoria più grande. Se svenissi, restassi paralizzata o implorassi balbettando Mr. Hill perché non ce la faccio, probabilmente me la caverei; ma dopo come potrei guardarmi in faccia, vivere? Scrivere e comportarmi come una donna intelligente? Il trauma sarebbe peggiore, anche se la fuga mi appare dolcissima.”
Sylvia Plath, “Lettera a un demone”, da “Diari”, 1°Ottobre 1957