“Sono venuti su direttamente in camera e mi hanno preso. Allora mia madre ha staccato un mantello che era di mio papà e me l’ha buttato. Come arrivo a Ciano [Ciano d’Enza, in provincia di Reggio Emilia, dove operava un’unità del comando nazista, ndr.] , vedo quella scritta: “Con me parleranno anche i morti“… E lì è stata una cosa mostruosa. Non si riesce a spiegare quello che facevano lì dentro! I boia avevano delle tute che erano tutte insanguinate, come se avessero ammazzato non so quante bestie. In una stanza avevano ricavato quattro cellette: in una c’ero io, nell’altra c’era Jones [Jones Del Rio, ndr], nell’altra c’era Marco [Sergio Beretti, nome di battaglia “Marco”, ndr] e l’altro non so chi era. Quando venivano a prendere uno, dicevo: “Tornerà indietro?“. Poi, quando sentivo che aprivano, lo buttavano là e non dava più segno di vita. Dopo hanno portato via Marco e io: “Jones! Jones! Jones!“. Lo chiamavo e lui diceva sempre: “Non ho parlato, non ho parlato – diceva – Non ho parlato.” E poi hanno ucciso pure lui.
Io ho parlato di un fatto che mi è capitato lì dentro perché un professore, proprio in questi giorni, ha scoperto – lui mi ha tolto un seno, perché ho avuto un tumore; adesso mi sta curando l’altro – che proprio in questo mi manca il capezzolo e fa: “Cosa ha fatto, signora?” “Ma, sa, è una cosa vecchia“. Allora si è messo lì seduto e mi ha detto: “Mi racconti. Siamo qui soli io e lei.” Ho raccontato. Si è messo a piangere. Mi ha detto: “Io ne sentivo parlare, ma ero piccolino! Ma ce l’ho qui davanti, ma proprio qui davanti! Mio Dio, ma che cosa vi hanno fatto?!”
Avevano bastoni, manici di scopa e ce li infilavano da tutte le parti. Io non aprivo gli occhi, non li guardavo in faccia, perché ci hanno spogliato, anche internamente, ci hanno tolto tutto, non ci hanno lasciato niente. Niente ci hanno lasciato. Non piangevo, non volevo dargli soddisfazione. Chiudevo gli occhi, non guardavo. Loro sghignazzavano, avevano dei grembiuli tutti insanguinati, sembravano macellai. Però non ho mai parlato, mai parlato.
A un certo punto ho detto che dovevo andare in bagno. Io non lo so, dico sempre che qualcosa mi ha aiutato, perché ho preso, dove c’era la turca [il bagno alla turca, ndr], la catenella, ho spiccato il volo, ho fatto il salto, mi sono aggrappata, – ma con una forza! – con i piedi, non avendo scarpe, non avendo niente, per prendere quella sporgenza…E là ho detto: anche se mi butto giù, anche se mi ammazzo, almeno sono a casa mia. A quel punto non pensavi più di dire: mi salvo o cosa. Pensavi solo di uscire e finirla lì, senza andare a finire in un campo di concentramento. E poi tirarmi su è stata un’impresa, perché anche se c’era un po’ di neve, era stato un bel salto e poi la strettoia, il fatto di stringere fino in fondo questo pluviale, che era gelato….Perdevo sangue, avevo anche le mani insanguinate…”
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…Quel capezzolo glielo staccò con un morso un soldato tedesco. Ma lei non parlò. Mai. Neppure dopo un mese di sevizie inaudite. Aveva 19 anni Francesca Del Rio, nome di battaglia “Mimma”, quando fu arrestata. Aveva 19 anni ed aspettava un bambino.
La fede antifascista Francesca ce l’aveva nel sangue da sempre: l’aveva respirata in famiglia e poi patita dolorosamente quando il padre, aggredito e pestato a sangue dalle “squadracce fasciste”, era morto dopo un calvario di cinque anni. Allora Francesca era appena una bambina di 10 anni. Non ne aveva molti di più – appena 18 – quando decise di fare la staffetta per i partigiani della 144ª Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci”, con il nome di battaglia “Mimma”, che avrebbe sempre portato con fierezza e coraggio. Poi l’arresto (per la delazione di un sedicente amico di famiglia), le umiliazioni, le torture. Riesce a fuggire non sa neppure come; una di quelle fughe rocambolesche che di solito si leggono nei libri. Con una forza che neppure lei sa di avere, stremata com’è da giorni e giorni di torture, salta sulla finestrella di una latrina, si cala lungo la grondaia e si lascia cadere nella neve. Scalza, seminuda e coperta di sangue, riesce a raggiungere una casa di contadini a Grassano e, da lì, dopo essersi rifocillata, prosegue per Vetto, dove c’è il comando partigiano della 144^ brigata Garibaldi. Quella notte, la notte della fuga, “mi si congelarono i piedi e quando me li immersero nell’acqua per scongelarli urlavo di tagliarmeli, tanto era il dolore”.
Nonostante tutto, Mimma riprende la sua attività di partigiana, come sempre al fianco dei compagni e nonostante la gravidanza ormai avanzata. Il 9 aprile dà alla luce il suo bambino, che vuole chiamare Atos, con il nome di battaglia del suo compagno, che un giorno sarebbe diventato suo marito. Ma il piccolo non ce la fa e riesce a sopravvivere soltanto per poche ore.
E poi la Liberazione. Quando da San Polo d’Enza vengono finalmente scacciati i nazifascisti, i partigiani scendono dalle montagne e sfilano nel paese preceduti da una ragazza a cavallo: è lei, è Mimma. I soliti “ben informati” pensano che si tratti di un coup de théâtre orchestrato dai partigiani per celebrare la loro vittoria; certo sono ben lontani dall’immaginare che quella ragazza non può ancora camminare perché ha i piedi congelati.