Affabulazioni

Di sera, un geranio

09.01.2022

“S’è liberato nel sonno, non sa come: forse come quando s’affonda nell’acqua, che si ha la sensazione che poi il corpo riverrà su da sé, e su invece riviene solamente la sensazione, ombra galleggiante del corpo rimasto giù.
Dormiva, e non è più nel suo corpo; non può dire che si sia svegliato; e in che cosa ora sia veramente, non sa; è come sospeso a galla nell’aria della sua camera chiusa.
Alienato dai sensi, ne serba più che gli avvertimenti il ricordo, com’erano; non ancora lontani ma già staccati: là l’udito, dov’è un rumore anche minimo nella notte; qua la vista, dov’è appena un barlume; e le pareti, il soffitto (come di qua pare polveroso) e giù il pavimento col tappeto, e quell’uscio, e lo smemorato spavento di quel letto col piumino verde e le coperte giallognole, sotto le quali s’indovina un corpo che giace inerte; la testa calva, affondata sui guanciali scomposti; gli occhi chiusi e la bocca aperta tra i peli rossicci dei baffi e della barba, grossi peli, quasi metallici; un foro secco, nero; e un pelo delle sopracciglia così lungo, che se non lo tiene a posto, gli scende sull’occhio.
Lui, quello! Uno che non è più. Uno a cui quel corpo pesava già tanto. E che fatica anche il respiro! Tutta la vita, ristretta in questa camera; e sentirsi a mano a mano mancar tutto, e tenersi in vita fissando un oggetto, questo o quello, con la paura d’addormentarsi. Difatti poi, nel sonno…Come gli suonano strane, in quella camera, le ultime parole della vita: – Ma lei è di parere che, nello stato in cui sono ridotto, sia da tentare un’operazione così rischiosa?
– Al punto in cui siamo, il rischio veramente…
– Non è il rischio. Dico se c’è qualche speranza.
– Ah, poca.
– E allora…
La lampada rosea, sospesa in mezzo alla camera, è rimasta accesa invano.
Ma dopo tutto, ora s’è liberato, e prova per quel suo corpo là, più che antipatia, rancore. Veramente non vide mai la ragione che gli altri dovessero riconoscere quell’immagine come la cosa più sua.
Non era vero. Non è vero.
Lui non era quel suo corpo; c’era anzi così poco; era nella vita lui, nelle cose che pensava, che gli s’agitavano dentro, in tutto ciò che vedeva fuori senza più vedere se stesso. Case strade cielo. Tutto il mondo.
Già, ma ora, senza più il corpo, è questa pena ora, è questo sgomento del suo disgregarsi e diffondersi in ogni cosa, a cui, per tenersi, torna a aderire ma, aderendovi, la paura di nuovo, non d’addormentarsi, ma del suo svanire nella cosa che resta là per sé, senza più lui: oggetto: orologio sul comodino, quadretto alla parete, lampada rosea sospesa in mezzo alla camera.
Lui è ora quelle cose; non più com’erano, quando avevano ancora un senso per lui; quelle cose che per se stesse non hanno alcun senso e che ora dunque non sono più niente per lui.
E questo è morire.
Il muro della villa. Ma come, n’è già fuori? La luna vi batte sopra; e giù è il giardino.
La vasca, grezza, è attaccata al muro di cinta. Il muro è tutto vestito di verde dalle roselline rampicanti.
L’acqua, nella vasca, piomba a stille. Ora è uno sbruffo di bolle. Ora è un filo di vetro, limpido, esile, immobile.
Come chiara quest’acqua nel cadere! Nella vasca diventa subito verde, appena caduta. E così esile il filo, così rade a volte le stille che a guardar nella vasca il denso volume d’acqua già caduta è come un’eternità di oceano.
A galla, tante foglioline bianche e verdi, appena ingiallite. E a fior d’acqua, la bocca del tubo di ferro dello scarico, che si berrebbe in silenzio il soverchio dell’acqua, se non fosse per queste foglioline che, attratte, vi fan ressa attorno. Il risucchio della bocca che s’ingorga è come un rimbrotto rauco a queste sciocche frettolose frettolose a cui par che tardi di sparire ingojate, come se non fosse bello nuotar lievi e così bianche sul cupo verde vitreo dell’acqua. Ma se sono cadute! se sono così lievi! E se ci sei tu, bocca di morte, che fai la misura!
Sparire.
Sorpresa che si fa di mano in mano più grande, infinita: l’illusione dei sensi, già sparsi, che a poco a poco si svuota di cose che pareva ci fossero e che invece non c’erano; suoni, colori, non c’erano; tutto freddo, tutto muto; era niente; e la morte, questo niente della vita com’era. Quel verde… Ah come, all’alba, lungo una proda, volle esser erba lui, una volta, guardando i cespugli e respirando la fragranza di tutto quel verde così fresco e nuovo! Groviglio di bianche radici vive abbarbicate a succhiar l’umore della terra nera. Ah come la vita è di terra, e non vuol cielo, se non per dare respiro alla terra! Ma ora lui è come la fragranza di un’erba che si va sciogliendo in questo respiro, vapore ancora sensibile che si dirada e vanisce, ma senza finire, senz’aver più nulla vicino; sì, forse un dolore; ma se può far tanto ancora di pensarlo, è già lontano, senza più tempo, nella tristezza infinita d’una così vana eternità.
Una cosa, consistere ancora in una cosa, che sia pur quasi niente, una pietra. O anche un fiore che duri poco: ecco, questo geranio…
– Oh guarda giù, nel giardino, quel geranio rosso. Come s’accende! Perché?
Di sera, qualche volta, nei giardini s’accende così, improvvisamente, qualche fiore; e nessuno sa spiegarsene la ragione.”

Luigi Pirandello, “Di sera, un geranio”, da “Berecche e la guerra”, 1934 (pubblicata per la prima volta sul “Corriere della Sera”, 6 maggio 1934)

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