Andava ogni tanto a rotolarsi in un prato circondato da montagne, dove non c’era che una casa di pietra disabitata.
Gli piacevano le farfalle.
Si fermava ad osservarle mentre cavalcavano, immobili, i tarassici, le ilici, le genziane, le rincorreva senza fargli male.
Le farfalle lo conoscevano e venivano a fargli il solletico sul muso.
Dopo aver giocato per qualche ora con le farfalle il cane tornava a inabissarsi tra le luci senza Dio e le case senza speranza.
Si nutriva dei rifiuti di un ospedale, ogni tanto trovava una gamba, un rene, mangiava perfino i calcoli, le ulcere.
Ma nel giorno delle farfalle beveva soltanto.
Dove c’erano le farfalle l’acqua era pulita.
Poi, per giorni, per settimane, il ricordo delle farfalle lo accompagnava e lo rallegrava.
Il cane era vecchio, gli costava sempre più sforzo arrivare, al modo di viaggiare dei cani, tra pericoli crescenti, al prato delle farfalle.
– E se andassi a morire là, tra le farfalle? Anche di fame, purché tra loro. Partì per l’ultima volta, salutando gli altri cani che dividevano con lui la vita grama del randagio tra gli uomini, e arrivò, impiegando più tempo e più sforzo, al prato delle farfalle.
Era la loro stagione, i fiori c’erano, la casa era sempre disabitata, l’acqua pareva pulita, ma dov’erano le farfalle? Il cane non voleva morire senza averle rivedute, cercava dentro i fiori, si poneva in vedetta sulle rocce.
Mattino e poi sera: dov’erano le farfalle? Il cane andava su e giù, sempre più magro e stracco, cercandole.
Finché una voce si alzò dalla terra: – è inutile che cerchi.
Le farfalle non abitano più qui.”