“Gli uomini hanno iniziato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia. Mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’universo intero. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in un certo senso, filosofo: il mito infatti è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia”.
(Aristotele, “Metafisica”, I, 2, 982b, 12)
Non voglio entrare nel merito di come possa o debba essere interpretato questo brano: l’hanno già fatto persone ben più “titolate” di me.
Mi intriga però il termine usato da Aristotele: “thauma“, che non significa propriamente “meraviglia“, ma si estende a comprendere anche l’angoscia, il terrore, lo sgomento. Perché in fondo – ammettiamolo – la meraviglia contiene anche un pizzico di inquietudine. Ben lo sapevano i Greci, “popolo tragico per eccellenza“, come li definiva Nietzsche.
Così era “thauma” lo spettacolo dei tripodi forgiati da Efesto e fissati a ruote d’oro “perché da soli entrassero ai concilii degli immortali, e poi, mirabil cosa,
ritornassero all’aula” (Omero, “Iliade, XVIII, 377).
È un “thauma” la fitta nebbia con la quale Poseidone nasconde Enea agli occhi di Achille, per portarlo in salvo (Omero, “Iliade”, XX, 344).
È, ancora, “thauma pelorion“, un “essere stupefacente“, il ciclope Polifemo che compare davanti agli occhi attoniti di Ulisse e dei suoi compagni (Omero, “Odissea, IX, 190).
Anche Eschilo, nelle sue “Eumenidi”, definisce le Erinni “thaumastos lochos“, un'”orda stupefacente” (Eschilo, “Eumenidi”, v. 46).
A volte sono i fenomeni naturali a suscitare meraviglia e sbigottimento, come l’Etna innevato che vomita fuoco (Pindaro, “Pitica” I, v. 26); altrove sono malattie come l’epilessia, che i Greci definivano “morbo sacro” per la sua “thamasiotes“, ossia per la paura provocata dalle sue manifestazioni, violente quanto improvvise (Ippocrate, “De morbo sacro”, I, 9).
Insomma, si direbbe proprio che la meraviglia abbia una natura bipolare.
Il che trova conferma nella sua divinità di riferimento: Taumante, che, secondo la versione di Esiodo, era figlio del mare (Ponto) e della terra (Gaia). I suoi fratelli erano un mostro marino, Ceto, un dio marino capace di assumere qualsiasi forma, ossia Nereo, e poi Forco, legato ai pericoli nascosti negli abissi e infine Euribia, “colei che ha un cuore di selce“, come la definisce Esiodo, ma che possiede tanta forza da poter padroneggiare la violenza del mare.
Dall’unione di Taumante con Elettra, una delle figlie di Oceano, nacquero non solo le Arpie “dalle belle chiome“, ma col volto di donna e il corpo di uccello, ma anche Iride, personificazione dell’arcobaleno, messaggera degli dei e quindi eterno tramite tra umano e divino (Esiodo, “Teogonia”, vv. 265-269).
Curiosamente, però, di Taumante non si racconta né si conosce nient’altro. “Omen nomen” – dicevano i romani. Ogni nome contiene un destino o forse un presagio e, a quanto pare, alla meraviglia appartiene l’ineffabilità.
Resta, però, il fatto innegabile che nelle sue profondità si nasconde un po’ di tutto: la morbida solidità della terra e il mistero multiforme del mare; l’incanto e l’abisso. E c’è la condanna dell’arcobaleno, che sconta la sua sfida al cielo prostrandosi al suolo.
La meraviglia è una sensazione decisamente troppo complessa, multiforme, contraddittoria, perfino camaleontica. Complicata da comprendere, ancora più complicata da gestire.
Per questo ne abbiamo timore?
Per questo non proviamo più meraviglia?
Per questo, anche quando riusciamo a provarla, abbiamo paura di dimostrarlo?
Del resto, chi ha tempo per la meraviglia…
L’uso, il consumo, la fretta, sono killer veloci e silenziosi, che la divorano con la stessa forza distruttiva con cui il Nulla assedia il pianeta di Fantàsia.
E poi c’è l’abitudine. Quella ragnatela sottile, gommosa, che si appiccica addosso, che impedisce di guardare e di ascoltare perfino ciò che abbiamo visto e sentito per una vita intera. Ma che non abbiamo il coraggio o il desiderio di guardare con occhi nuovi.
“Non è detto che domani il sole sorgerà ancora” – scriveva David Hume.
Certo non per noi, non per il nostro sguardo annoiato.
Forse un po’ è anche colpa della tecnologia, altra fonte di divertimento e di noia, quanto basta per immunizzarci.
Eppure “l’uomo – a detta di Arthur Schopenhauer – è l’unico essere al mondo che sia capace di provare meraviglia“. Era, forse non lo è più.
E pensare che nel Medioevo i “mirabilia” servivano ad orientare i viaggiatori verso i patrimoni d’arte custoditi dalle grandi città, soprattutto da Roma. “Mirabilia urbis“, venivano definiti, includendo un po’ di tutto ciò che poteva guidare ed appassionare i “romei“, i pellegrini cristiani che si recavano a Roma. C’era la descrizione dei monumenti, delle reliquie, ma c’era anche il racconto mitico del suo passato leggendario. Ad eterna gloria, come si suol dire, e soprattutto ad incantare chiunque arrivava e non aveva abbastanza occhi per contenere tanto splendore.
“Padre, aiutami a guardare” – direbbe Eduardo Galeano nel suo “Libro degli abbracci“.
La provavano già, i viaggiatori antichi, quella che sarebbe stata identificata come la “sindrome di Stendhal“?
“Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte” – la definì la sua scopritrice, Graziella Margherini, o meglio, la psichiatra che le dette un nome. Perché in realtà il primo a sperimentarla sulla sua pelle era stato proprio lo scrittore Stendhal, che, mentre visitava la Basilica di Santa Croce a Firenze, era stato colto da una vertigine improvvisa che aveva rischiato di farlo stramazzare per terra.
“Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati“. (Stendhal, da “Roma, Napoli e Firenze”)
Dunque avevano ragione i Greci: la meraviglia può travolgere, può far male, può provocare un corto circuito psicologico, una vertigine?
Per carità, meglio prendere le distanze da questi “bungee jumping” mentali che destabilizzano le nostre tiepide esistenze…
“Di che cosa soffriamo? – si chiedeva Michel Foucault – Di scarsità: canali stretti, striminziti, quasi monopolistici, insufficienti”.
Eppure per molti filosofi la meraviglia è stata una buona fonte di ispirazione. Per Cartesio, per esempio, che non esitava a definirla “la prima delle passioni“, addirittura fonte di tutte le altre. Hobbes gli faceva eco, se non altro perché vedeva nella meraviglia la porta capace di aprire l’unica tra le passioni ad essere propriamente umana: la curiosità.
“Magari loro non soffrivano di sindrome di Stendhal!” – obietterete voi. Possibile, ma in fondo neanche noi, non tutti almeno.
E non tutti abbiamo paura di sorprenderci. Anzi, molti di noi sarebbero disposti ad ammettere che “il naufragar m’è dolce in questo mare“, non a caso uno dei versi più amati, ricordati e citati.
Peccato, però, che un altro cecchino si nasconda nell’ombra: quello strano mix di ipocrisia, supponenza, presunzione, malcelato senso di superiorità che ci impedisce di ammettere e di dimostrare la nostra meraviglia. Vecchi e navigati lupi di mare della più vieta tuttologia, resistiamo impavidi alla meraviglia, non perché non la proviamo, ma perché non possiamo umiliarci a tal segno da dimostrare all’altro lo stupore di quel “fanciullino” di pascoliana memoria che, ammettiamolo, sonnecchia in ognuno di noi.
Povera vecchia cara meraviglia, che ne sarà di te?
Maddalena Vaiani
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Nell’immagine: illustrazione digitale di Christian Schloe