“La paura nella sua piena espressione ci raggiunge al culmine del timore. Allora, da essere lo sguardo che cerca la via di scampo, la voce che chiede aiuto, la paura ci getta nel buio e nel silenzio, là dove non v’è altra possibilità di comunicare.
La fiction audiovisiva, dovendo tenere viva l’attenzione dello spettatore, opera su diverse gamme di timore, inquietudine, rischio: grazie a loro la narrazione procede, i luoghi, le cose e i personaggi prendono corpo, assumono significato, richiedono partecipazione. Ma se un film dovesse davvero toccare il vertice della paura, allora dovrebbe “saltare” nel buio assoluto. È il senso di panico, di “oltremondo”, che nella sala cinematografica si provava di fronte allo strappo della pellicola di celluloide, all’improvvisa scomparsa dello schermo, della vicenda, della vita. Del testo.
Alla radice del sentimento della paura c’è la presenza della morte. Non il nemico in sé, ma l’effetto mortale di cui egli o l’evento è portatore. Dunque la paura è il violento rientrare nel proprio corpo, non più nel proprio istinto di sopravvivenza, ma proprio nella sopravvivenza, qualcosa che sta dopo la vita. Risucchio inatteso in un vortice che ha le stesse caratteristiche della morte: fuori dello spazio e del tempo. È come se l’accadimento che ci ha spaventato già ci avesse cacciato dal mondo. Attraverso la paura sentiamo gli effetti di una morte già avvenuta, l’anticipiamo. Siamo e ci siamo gettati nella sua irriducibile inconsistente materia. Nella paura, la morte non è più un evento possibile, lo sfondo della vita, ma semplicemente è. È già stata. È stata sempre. In essa noi siamo presenza e appartenenza allo stato puro.
Senza più memoria. Senza più contesto. Senza più legami. Senza più società. Senza nulla d’altro che l’attesa della definitiva conferma dell’accaduto.
Assoluta affermazione di sé rispetto a tutto il resto, il corpo che ha paura non sente se stesso – non prova dolore, persino quello fisico viene sommerso dalla
paura – ma il momento estremo della sua precarietà. Sente cosa significa non esistere più. Un’emozione spinta ai suoi livelli più esterni rivela il segreto dei suoi livelli più deboli, dunque non solo il timore ma anche la diffidenza.
Se riflettiamo quindi sulle resistenze psicologiche e sociali che suscita da sempre lo sviluppo tecnologico (…), capiamo che il motivo di quest’automatica
reazione di rigetto è dovuta alla paura di perdere il proprio corpo. A ogni svolta tecnologica, infatti, il nostro corpo – fatto non solo della sua viva carne ma delle protesi materiali e immateriali, immediate e remote, di cui dispone e in cui appunto ha modo di sentirsi corpo – perde se stesso perché sta rigenerandosi in una corporeità nuova. Sta vivendo dall’interno e non solo dall’esterno i mutamenti che della tecnologia – del consumo di tecnologia – sono la causa prima. Il timore per le innovazioni dipende dall’inconscia consapevolezza di avere già perduto la vita e di non potere più tornare indietro. Di essere nell’al di là.
I media si servono sempre più della paura. Se ne serve la televisione per raggiungere, toccare, la consuetudine del pubblico a provare l’emozione quotidiana della “piccola morte” prodotta dagli innumerevoli mutamenti della vita quotidiana, dalle sue tattiche di conflitto con gli altri e con le loro forme di potere.
Se ne serve il cinema per facilitare l’immersione dell’individuo in una dimensione sempre più vicina a tutto ciò che è arcano, inspiegabile come la nascita stessa del mondo, raccontando storie che sono veri e propri romanzi di formazione collettiva.
Partendo dall’effetto di morte prodotto dalla minaccia esterna, dal nemico invasore, dal procedere catastrofico dello sviluppo moderno e della sua potenza, questo cinema risolve la paura nel sentimento di pacificazione che lo spettatore raggiunge (nei modi sempre più realistici dell’immaginario fantastico contemporaneo) verificando in sé la sopravvivenza fisica e affettiva dell’eroe, la sua ricomposizione sociale e familiare. Soggetto “non più” ma “non ancora” vivo. Passato attraverso prove iniziatiche tanto esasperate da averlo in tutto ma non ancora in tutto mutato: come Sigfrido, che la saga dei Nibelunghi immagina bagnarsi nel sangue del drago per diventare immortale e tuttavia rinascere da quell’immersione con un “punto” del suo nuovo corpo – un vuoto nella sua nuova armatura (il corpo tecnologicamente esteso di cui abbiamo detto prima) – che ancora appartiene al passato, che ancora è presente nel già compiuto futuro del proprio mutamento.
Molti luoghi comuni del sapere – della pedagogia, della psicologia, persino della sociologia applicata ai media e delle istituzioni religiose e civili, delle ideologie conservatrici e progressiste – manifestano invece un giudizio fortemente negativo nei confronti del cinema della paura, delle atroci violenze individuali e sociali che esso esibisce e sfrutta. Questo giudizio si allinea con una critica parimenti negativa nei confronti del cinema e più in generale delle
culture dei consumi, imputando alla loro crescita intensiva effetti imitativi, alienazione, perdita di valori, crolli di senso civile, che sarebbero la diretta causa di devianza e violenza sociale. Assai raramente si cerca di ottemperare al buon senso e al buon gusto di queste posizioni calibrandole con una riflessione più articolata, più attenta al ruolo che l’immaginario votato alla rappresentazione del desiderio di violenza e di paura ha svolto e sta svolgendo nella società come sua specifica forma di metabolizzazione simbolica.”
Alberto Abbruzzese, “Paura”, in “Lessico della comunicazione”, 2003
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Nell’immagine: Schizzo non datato realizzato da Edvard Munch e che raffigura il soggetto de “L’urlo”.