“Quando ci vedemmo per la prima volta, riflessi negli specchi dell’enorme salone dei banchetti del Centro Catalano di Santiago, avevamo tutti e due quattordici anni. Eravamo alla cerimonia di chiusura del corso di galateo a cui le famiglie cittadine della classe media iscrivevano i figli perché imparassero a star seduti a tavola, a usare in modo appropriato forchette e coltelli, e a non confondere il bicchiere dell’acqua con quello del vino rosso, del vino bianco o dello spumante. Ci insegnavano anche a ballare, valzer, pasodoble, cueca, ma fra tutti io preferivo gli audaci passi del tango perché il tubare dei bandoneón mi faceva sentire più uomo.
Il maestro di cerimonie ci fece sedere di fronte e dentro di me imprecai perché non ci aveva sistemato accanto impedendomi così di sfoggiare i miei modi da cavaliere, ormai perfetti, e cioè di scostare la sedia della dama tenendola per lo schienale e spingerla leggermente in avanti mentre la ragazza si accomodava. Dovetti accontentarmi di farle un lieve inchino, a cui lei rispose con un garbato cenno del capo.
Lei, ah lei!, aveva una lunga chioma castana che le scendeva fino a metà schiena e che sembrava un caldo accessorio del vestito di mussola bianca. Io, con lo smoking, lo sparato rigido e il papillon, avevo come tutti gli altri ragazzi una bell’aria da pinguino artritico.
Quando i suoi occhioni si posarono su di me, sentii che iniziavano a sudarmi le mani, che il papillon mi soffocava e che dovevo subito fare qualcosa. Allora presi il tovagliolo e, fedele alle istruzioni del professore di buone maniere, lo scossi perché si spiegasse e me lo posai sulla gamba destra.
“Che le prende, vuol ballare una cueca, una samba o un chamamé?” Chiese dal capo del tavolo il maestro di cerimonie.
Le ragazze soffocarono le loro risatine e arrossirono, i ragazzi sghignazzarono apertamente, io mi sentii morire, ma lei, senza togliermi gli occhi di dosso, prese il tovagliolo, lo scosse e se lo lasciò scivolare in grembo.
Il maestro di cerimonie ignorò quell’infrazione al protocollo e suonò una campanella dando inizio alle presentazioni. Quando fu il nostro turno, spinsi indietro la sedia con le gambe, mi alzai in piedi, dissi il mio nome e poi aggiunsi che frequentavo il liceo statale e che era un piacere conoscerla. Lei, dopo un leggero cenno del capo, disse che si chiamava Marly, che era allieva del Santiago College e che era molto lieta di fare la mia conoscenza.
La faccenda del Santiago College mi preoccupò. Era una scuola frequentata dalle figlie della borghesia, mentre il liceo statale era noto per il carattere rivoltoso e le tendenze rosse dei suoi studenti.
Quella parodia di cena andò avanti senza grossi incidenti. Nessuno fece rumore mangiando la minestra e nessuno fece stridere la forchetta sul piatto al momento di tagliare a pezzetti gli asparagi. Nessuno sbagliò posate con il pesce o con la carne e nessuno confuse i bicchieri. Lo stesso accadde con la conversazione. Marly disse che gli asparagi le sembravano deliziosi e io risposi che condividevo la sua opinione. Io dissi che gli specchi facevano apparire più grande la sala e Marly rispose che condivideva il mio interessante punto di vista. Ogni coppia si scambiò un migliaio di parole, ma nessuno disse assolutamente nulla di compromettente o di stonato. Con gioia del maestro di cerimonie, ci comportammo come dei gran cinici o come degli impareggiabili idioti.
Dopo il dessert annunciarono che potevamo passare nella sala da ballo. E stavolta ebbi modo di mettere in pratica le regole che mi erano state insegnate: le scostai la sedia, aspettai che posasse il tovagliolo sul tavolo e le offrii il braccio. Con la speranza di restarle al financo per ore, la condussi nel salone accanto.
Naturalmente tutti avremmo preferito ballare musica rock, però erano presenti anche i genitori e volevano vedere i progressi compiuti dai figli, così il maestro dette ordine di mettere un valzer e ballammo coi corpi ben dritti e separati. La mia mano destra le sfiorava appena la vita, ma sentivo l’intenso calore della pelle nascosta sotto la mussola. Finimmo il valzer, continuammo con un pasodoble, ma quando stavano annunciando una cueca, il nostro ballo nazionale, Marly con sorpresa di tutti si avvicinò all’inserviente che metteva i dischi, gli disse qualcosa all’orecchio e subito la sala fu invasa dalle note di una canzone di Leonardo Favio.
Il maestro di cerimonie, furibondo, diede ordine di far tacere quella musica volgare, ma dalla fila dei progenitori si alzò allora il vocione del nonno di Marly.
“Io pago per finanziare questo centro e mia nipote balla quel che vuole!”
“Din dan din don, son le cose dell’amor”, cantava Leonardo Favio e le coppie si avvicinavano, si toccavano si stringevano con disperazione del maestro di cerimonie che preferiva guardare altrove quando le ragazze si attaccavano al collo del loro compagno e noi ragazzi le abbracciavamo allacciando le mani dietro la schiena.
“Din dan din don, son le cose dell’amor”, mi cantava Marly all’orecchio, e io sudavo mentre le mie mani palpavano il duro inizio delle sue natiche.
Mentre ballavamo ci dicemmo la nostra età; condividevamo la passione per i Beatles, per Piero, per Leo Dan e naturalmente per Leonardo Favio. Io mentii quando le assicurai che neppure a me interessava il calcio. E non so se lei fu sincera quando dichiarò che le piaceva l’aroma della mia acqua di colonia e i film di Stanlio e Ollio. Ci raccontammo quanto bastava per fissare un appuntamento il giorno dopo, nei giardini della Biblioteca Nazionale, e capii che era valsa la pena di seguire le odiose trenta lezioni del corso accelerato da gentiluomo.
Quando tornai a essere me stesso, con il vestito da pinguino piegato con cura in una valigetta, uscii per strada con un sorriso da orecchio a orecchio e la voglia di saltare, di gridare, di cantare “din dan din don, son le cose dell’amor“.
L’appuntamento era alle cinque del pomeriggio, un’ora fatidica, come è noto. Marly non venne. Contai le palme, i gigli, i cestini della spazzatura, le panchine di ferro verde, la gente che usciva dalla biblioteca, i carrettini dei venditori di noccioline, i tambores delle venditrici di cialdoni e le colombe che cacavano sulla statua di Benjamín Vicuña Mackenna.
Alle otto di sera non sapevo più cosa contare.
Quel boccone amaro mi colmò d’incertezza e di rancore. La prima cosa che pensai fu: certo, una figlia di papà del Santiago College non si mette con un rosso del liceo statale. Che vada a fare in culo. Ma poi la immaginai in lacrime, chiusa in casa, sorvegliata da una famiglia odiosa e da un militare in pensione a servizio come portiere.
“Din dan din don, son le cose dell’amor“, di sicuro aveva preso l’influenza, poverina, e doveva essere a letto col naso congestionato e il mal di gola. Il giorno successivo disertai le lezioni e andai al Santiago College all’ora dell’entrata. Ma fu tutto inutile. Marly non si vide.
Dopo una settimana che ripetevo quotidianamente la scena di piazzarmi davanti al portone della scuola, mi resi conto che le allieve e quelli che le aspettavano all’uscita iniziavano a guardarmi con sospetto. Così, per evitare di essere cacciato via con la forza, decisi di compiere un gesto audace ed entrai a chiedere notizie dell’assente.
”E perché vuol vedere questa signorina Marly di cui non sa neppure il cognome?” mi domandò una donna che puzzava terribilmente di autorità.
“È che questa signorina ha smarrito un oggetto di valore e voglio restituirglielo. L’ho conosciuta al corso di galateo del Centro Catalano.”
La donna controllò una lunga lista e concluse che non c’era alcuna allieva di nome Marly.
La dimenticai. No, non la dimenticai, ma non lasciai nemmeno che mi rovinasse la vita. Ogni volta che vedevo mio padre ascoltare il suo programma di tango con occhi sognanti, mi dicevo che l’amore doveva offrire altre possibilità oltre alla sofferenza.
Non la dimenticai e il suo nome mi servì a inventare una storia d’amore con una figlia di papà del Santiago College che i miei amici presero per vera.
Passarono quattordici anni e la mia vita pian piano acquistò i tratti di una straordinaria avventura perché c’era un mondo che implorava dei cambiamenti sociali. Ricordo che la vidi una mattina d’inverno… Avevo diciott’anni ed ero un dirigente del movimento studentesco impegnato a tempo pieno sulle barricate del nostro sessantotto. Invocavamo una riforma che facesse dell’università un vero centro di agitazione sociale, che la aprisse agli operai, che la rendesse insomma il cuore del grande cambiamento e della rivoluzione. Tutto ciò naturalmente non piaceva granché al governo e la polizia si impegnava a fondo per far cadere tutto il peso della legge sulle teste di noi studenti. Gli inverni a Santiago sono orribili e quello del sessantotto lo fu ancora di più perché al solito inquinamento si aggiunsero i gas lacrimogeni e le pallottole.
Stavo intonando a squarciagola l’Internazionale
assieme a un gruppo di compagni, quando una voce di donna iniziò a cantare un’altra canzone.
“Din dan din don, son le cose dell’amor“.
Era lei. Anche se non portava il vestito di mussola bianca, ma dei jeans e un eskimo, e aveva mezzo viso coperto da un fazzoletto per smorzare l’effetto dei lacrimogeni, riconobbi immediatamente i suoi occhi.
Mi abbracciò come se ci fossimo visti appena due giorni prima e io risposi al suo abbraccio. La polizia caricò, finimmo le pietre, corremmo per evitare le manganellate e ci ritrovammo seduti faccia a faccia al tavolino di un caffè.
“Din dan din don, son le cose dell’amor“, canticchò mentre girava il cucchiaino.
“La ragazza del Santiago College. Scusa, la compagna del Santiago College” dissi.
“Ora milito nei Giovani Comunisti” replicò.
“Ti chiami ancora Marly?”
Per tutta risposta si alzò dalla sedia, si chinò verso di me e mi dette un lungo bacio sulla bocca.
Uscimmo abbracciati. Ogni due o tre passi ci fermavamo e ci baciavamo con ansia. Non fece alcuna obiezione quando le mie mani si infilarono sotto l’eskimo per palpare la durezza dei suoi seni, né quando le scesero sui fianchi ricordando la durezza delle sue natiche. Parlammo della causa, della lotta, dell’assemblea a cui avremmo partecipato al pomeriggio.
“Sei andato all’appuntamento?” chiese all’improvviso.
Le risposi di sì, ma non feci parola della settimana che avevo passato seduto davanti al Santiago College e della delusione che avevo sentito scoprendo che non aveva mai studiato lì.
All’assemblea, che si teneva nella facoltà di pedagogia, ci sedemmo in ultima fila. Là, fra un bacio e l’altro, applaudimmo i delegati del MIR, i comunisti e i socialisti, fischiammo i filocinesi e alzammo la mano quando si votò per continuare lo sciopero e la lotta nelle strade.
Quella sera decidemmo di dormire all’accademia. Come molti altri, anch’io andavo sempre in giro con un sacco a pelo perché noi dirigenti avevamo il dovere di essere da tutte le parti a qualsiasi ora.
Ci sistemammo nella sala prove della scuola d’arte drammatica. Il nero delle quinte dava un certo tocco di romanticismo alla candela che avevamo acceso. Bevemmo qualche sorso di vino, ci accarezzammo, ci baciammo, la spogliai, mi spogliò e continuammo con le carezze, “din dan din don, son le cose dell’amor“, al calduccio del sacco a pelo.
“Ti chiami Marly, epoi?” chiesi mordicchiandole un orecchio.
La sua lingua si intrecciò alla mia. Erano baci stregati, come dice un tango.
“E poi? Voglio sapere il tuo nome” insistetti, ma proprio in quell’istante entrarono a cercarmi due delegati.
“Mi dispiace, ma ci sono dei problemi più importanti dell’amore “ dichiarò uno di loro.
“Non berti tutto il vino. E non ti addormentare” le dissi mentre mi vestivo.
“Din dan din don, son le cose dell’amor“, rispose lei.
I problemi sarebbero stati discussi nell’aula di scultura. Mentre vi andavamo, uno dei delegati commentò:
“È proprio un bel bocconcino la compagna. Un vero schianto”.
“Cosa studia?” s’informò l’altro.
Non seppi rispondere. Solo allora mi resi conto di non averle chiesto né cosa faceva, né dove viveva.
La riunione durò varie ore. Allo sciopero studentesco si sarebbero uniti gli operai del cuoio e delle calzature, e gli spazzini municipali si sarebbero fermati ventiquattr’ore in segno di solidarietà con gli studenti. Il grosso problema erano i filocinesi della facoltà di filosofia, che continuavano a condannare lo sciopero come borghese.
Discutemmo e convenimmo di ringraziare chi era solidale con un’assemblea nel conservatorio e di rafforzare il lavoro dei volontari nelle cucine per preparare da mangiare agli operai che si sarebbero uniti a noi. Quanto ai filocinesi, decidemmo di lasciare aperta la possibilità di prenderli a calci in culo o con un piede o con l’altro.
Tornai nella sala prove. La candela era ormai ridotta a metà. Lo stesso era successo alla bottiglia di vino, ma il sacco a pelo era vuoto e i vestiti di Marly erano scomparsi.
L’aspettai, la cercai per tutta l’accademia, ma niente.
Nei giorni che seguirono, per trovarla, tenni un occhio sulla polizia e l’altro dalla mia parte della barricata. Ripetei centinaia di volte la stessa domanda: qualcuno ha visto la compagna che era con me? Ma la risposta fu sempre quella: no, non l’ho vista. Davvero carina la compagna, non l’avevo mai vista prima.
Lo sciopero trionfò. Si fece la riforma. Victor Jara compose un inno che diceva: “Tutti i riformisti sono rivoluzionari”. I giovani furono i protagonisti delle dure giornate che portarono alla grande vittoria elettorale di Salvador Allende, la seconda tappa della nostra rivoluzione, e io dimenticai Marly.
No, non la dimenticai. Avevo troppi compiti da svolgere per potermi permettere che una storia confusa e senza epilogo mi distraesse dai miei impegni. Ma ogni volta che mi infilavo nel sacco a pelo, riconoscevo il suo odore e sentivo la sua voce canticchiare: “din dan din don, son le cose dell’amor“.
I mille giorni del governo di Allende passarono molto in fretta. Poi giunse la lunga notte del terrore e della morte. L’addio definitivo e forzato a tanti compagni di barricata e di sogni.
Compii venticinque anni in un carcere del sud, molto lontano da Santiago. Venivano a trovarmi poche persone e dovevo accontentarmi delle lettere dei miei genitori e dell’esiguo numero di amici che erano sopravvissuti o che si trovavano in esilio, così mi fece piacere quando una mattina di pioggia mi annunciarono che avevo una visita.
Il parlatorio era una baracca e prigionieri e visitatori dovevano sedersi su delle panche di legno, faccia a faccia, con due soldati sempre lì a censurare la conversazione.
Marly era ancora bellissima. Adesso portava i capelli corti e i suoi venticinque anni le avevano modellato definitivamente il corpo.
“Din dan din don, son le cose dell’amor“, mi salutò tendendomi le braccia.
“Vietato toccarsi!” ringhiò un soldato.
Ci guardammo a lungo. Vidi lacrime nei suoi occhi, ma non di dolore. Erano il suo modo di dire che il tempo ci aveva giocato un brutto tiro e che, anche se non sapevo il suo cognome o il suo vero nome, in un libro al sicuro da qualsiasi rogo erano scritti i nostri nomi e la nostra storia d’amore.
Senza dare importanza ai latrati dei militari, Marly allungò le mani e mi accarezzò il viso. Tolse un pidocchio che mi passeggiava impunemente sulla testa rapata e disse:
“Quando uscirai, sarò ad aspettarti. Non so dove, ma sarò ad aspettarti”.
Due anni dopo uscii dal carcere e un misto di timore e di desiderio mi fece esitare davanti alla soglia della libertà. E se Marly fosse stata la morte? La morte innamorata di me e io innamorato di lei. Non c’era nessuno ad aspettarmi e così, in bilico fra gioia e tristezza, m’incamminai.
La vita ha molti posti, uno si chiama il proprio paese, un altro si chiama esilio. Un altro ancora si chiama dove diavolo sono.
La dimenticai? No. Amai onestamente altre donne che mi amarono allo stesso modo. A volte l’amore si spense e non potei riaccenderlo, altre volte si affievolì e non seppi rinfocolarlo.
Passarono gli anni. Le canzoni di Leo Dan, dei Beatles, di Piero e di Leonardo Favio divennero echi della parte felice della memoria. Il sentiero della solitudine mi si aprì davanti come un invito pieno di bar dove il vino è gratis e le donne fanno da stampella a un’anima zoppicante.
Venticinque anni dopo il mio primo incontro con Marly conservavo ancora le buone maniere apprese al Centro Catalano e forse per questo, nel corso di un viaggio a Santiago, tornai a cercare quel vecchio palazzo per aggiungerlo, in una cerimonia colma d’intima nostalgia, al mio inventario delle perdite.
Nel salone dei banchetti c’era un negozio di elettrodomestici e nella sala da ballo un tetro locale con le ragazze in topless. Entrai, mi avvicinai al bancone e chiesi un whisky con ghiaccio alla barista dai seni cadenti che faceva di tutto per sembrare attraente.
“Mi offri da bere?” mi propose un’altra donna dalle tette enormi.
“Ora no, scusi. Forse più tardi” risposi con le buone maniere di un tempo.
Bevvi lentamente il mio whisky. Una superficie morbida sotto i piedi mi informò che l’impeccabile parquet di una volta era stato sostituito da una moquette. Gli occhi, abituandosi alla penombra, mi rivelarono che i ritratti di illustri musicisti catalani erano stati rimpiazzati da foto di “Playboy”.
Proprio allora mi posarono una mano sulla spalla e quando mi voltai con l’intenzione di dire no, mi dispiace, forse più tardi, sentii l’inconfondibile voce di Marly.
“Din dan din don, son le cose dell’amor“.
Uscimmo da lì di corsa. Fuori la luce del giorno quasi mi accecò, ma ne fui felice perché così ebbi modo di scoprirla lentamente. Man mano che le pupille si abituavano allo splendore del sole, io mi abituavo alla sua presenza.
Gli anni erano passati anche per lei. Ci toccammo qualche ruga, qualche capello bianco, qualche ferita, e prendendoci per mano ci avviammo in quella città che un tempo era stata nostra.
“Ti piace ancora Leo Dan?” mi chiese mentre compravamo cartoline per gli amici.
“Sì e anche Leonardo Favio. Din dan din don, son le cose dell’amor.”
“E i poeti? A me piace Benedetti” spiegò.
“Anche a me. E Gelman. E Atxaga” aggiunsi io.
“Anche a me!” esclamò lei avvicinandosi a un venditore ambulante di garofani.
L’albergo ci aspettava come un tempio da lungo tempo predisposto. Ci spogliammo con calma, e non per sfoggiare muscoli o curve perfette, ma perché entrambi avevamo capito che, con tutti i loro segni, questi corpi erano il supporto di una storia che iniziava solo adesso. Ci amammo lentamente, e non per le buone maniere apprese al Centro catalano, ma perché cercavamo nel piacere la via per trovare la migliore stanchezza. E dopo parlammo, dimenticando ieri e domani poiché le parole sono come il vino: hanno bisogno di respiro e di tempo perché il velluto della voce riveli il loro sapore definitivo.
Ora, accanto al mare la guardo, so tutto di lei, ma lo dimentico per il piacere di tornare a conoscerla, verità su verità, dubbio su dubbio, certezza su certezza e timore su timore perché, diavolo!, così “din dan din don, son le cose dell’amor.”
Luis Sepulveda, “Le cose dell’amore”