“Una piovra. Per i malati mentali, le parole hanno una vita propria, come la gente o gli animali. Possono palpitare, svanire o amplificarsi. Passare attraverso le parole è come camminare in mezzo alla folla. Rimangono delle facce, delle sagome che si dileguano presto nel nostro ricordo, oppure vi si fissano, non si sa bene perché. In quel periodo, estraevo una parola dalla massa delle altre parole, ed essa cominciava ad esistere, diventava una cosa importante, forse la più importante e mi abitava, mi torturava, non mi lasciava più, mi appariva nel sonno e mi aspettava al risveglio. (…) Capivo che le parole potevano essere amiche o nemiche, ma che in ogni caso mi erano estranee. Erano strumenti messi a punto da molto tempo, di cui disponevo per comunicare con gli altri. Io e il dottore ci eravamo fabbricati un piccolo vocabolario di una decina di parole che per noi due riassumevano tutta la mia vita. Gli uomini avevano inventato milioni di parole altrettanto importanti di quelle che noi utilizzavamo nel vicolo, e che esprimevano l’universo nella sua totalità. Non ci avevo mai pensato, non mi rendevo conto che ogni scambio di parole fosse un fatto prezioso, rappresentasse una scelta. Le parole erano astucci, tutte contenevano una materia vitale. Le parole potevano essere veicoli inoffensivi oppure macchine variopinte da autoscontro che si urtavano nella vita quotidiana provocando scintille che non ferivano. Potevano essere particelle vibratili che animavano costantemente l’esistenza oppure cellule che si fagocitano, globuli che si coalizzano per ingoiare avidamente i microbi e respingere invasioni estranee. Potevano essere ferite o cicatrici di ferite, potevano somigliare a un dente marcio in un sorriso di gioia. Potevano essere giganti, rocce ancorate solidamente alla terra, grazie alle quali si possono attraversare torrenti in piena. Le parole infine potevano essere mostri, ss dell’ inconscio che rinchiudono i pensieri dei vivi dentro le prigioni dell’oblio. Ogni parola che faticavo a pronunciare nascondeva in realtà un territorio nel quale rifiutavo di entrare. Ogni parola che dicevo con piacere designava al contrario un territorio che mi piaceva. Era quindi evidente che desideravo l’armonia e rifiutavo gli escrementi. Come mai nel mio sogno armonia ed escrementi andavano tanto d’accordo?”
“Dimenticare è come chiudere una serratura estremamente complicata, che però è soltanto una serratura, non è una gomma e non è una spada, non cancella e non uccide, tiene chiuso e basta.”
Marie Cardinal, da “Le parole per dirlo”, 1975
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“Ora so che la mente percepisce tutto, classifica tutto, mette via tutto e conserva tutto. Quando dico tutto intendo dire: anche quello che crediamo di non aver sentito, visto o udito, anche quello che crediamo di non aver capito, anche i pensieri degli altri. Ogni singolo avvenimento, per quanto banale e quotidiano possa essere (ad esempio il fatto di stiracchiarsi sbadigliando la mattina), viene catalogato, etichettato, chiuso nell’oblio, ma la nostra coscienza ce lo indicherà più volte con segnali spesso impercettibili: un accenno di odore, una scintilla di colore, un lampo di luce, un frammento di sensazione, una briciola di parola. Addirittura un fruscio, un’eco. E a volta ancora meno: un attimo di vuoto. Basta stare attenti a questi segnali. Ognuno apre un sentiero in fondo al quale c’è una porta chiusa a chiave dietro la quale preme il ricordo intatto. Non un ricordo rigido, morto, bensì un ricordo vivo, pulsante, avvolto nella sua luce, nei suoi odori, nei suoi gesti, nelle sue parole, nei suoi rumori, nei suoi colori, un ricordo con intatte le sensazioni, le emozioni, i sentimenti, il tutto sormontato da due antenne: due punti di contatto con il prima e il dopo.
In questa esplorazione di sette anni nelle profondità del mio inconscio la prima cosa che ho capito è il sistema dei segnali, in seguito ho scoperto il segreto dell’apertura di molte porte e infine mi sono accorta che alcune di esse mi sembravano irrimediabilmente chiuse e che vi avevo bussato disperatamente. L’angoscia nasceva dal fatto che sapevo di non poter far marcia indietro. Era una situazione irreversibile: non potevo abbandonare o dimenticare una porta che non si apriva perché dietro c’era la medicina giusta per tranquillizzare e curare la mia mente malata. E se non ce la farò? Se tutto ciò fosse solo suggestione? Se fossi in balia di un ciarlatano? Perché non riprendere i buoni farmaci che mi facevano dormire? Perché perdere tutto? La resistenza della nostra mente ad aprire queste porte è straordinaria. La mia rivelò una forza fantastica. Custodiva là dietro qualcosa che mi aveva ferita, che mi aveva fatto molto male, che mi aveva ridotta a pezzi. E non voleva che ci ritornassi, non voleva che soffrissi di nuovo a causa di questo male dimenticato. Si serviva anche della morte per far da guardia a quella porta. La mia mente esibiva quegli orrori a bella posta, inventava visioni orride per farmi scappare, vomitare. Fabbricava oggetti pericolosissimi. Ma il più delle volte c’era il vuoto davanti alla porta. Un vuoto formicolante di cose invisibili, un vuoto affascinante che mi dava le vertigini, un vuoto spaventoso. Ogni volta che ho aperto una di quelle porte terrificanti mi sono accorta che il meccanismo della serratura era meno complicato di quanto pensassi e che laddove pensavo di trovare il terrore, la tortura, l’orrore, scoprivo soltanto una bambina sconvolta, infelice, terrorizzata, sottosopra. Temevo di trovare cose capaci di impaurire una donna di 34 anni. E invece quello che scoprivo erano paure infantili. Dietro alla porta c’era la bambina terrorizzata. Rivivevo con lei quei momenti, diventavo lei, sentivo la sua paura. Poi lei scompariva. Io mi svegliavo e mi mettevo a pulire il terreno appena conquistato. Il mio spazio diventava sempre più grande. Stavo meglio. Nella prima parte dell’analisi avevo ritrovato la salute e la libertà di servirmi del mio corpo. Ora cominciavo lentamente a scoprire me stessa.
L’inizio fu molto faticoso perché diffidavo di me stessa. Temevo d’incontrare una persona piena di difetti e di vizi. Mi ci sono volute numerose incursioni nell’inconscio prima di rendermi conto che era selvaggio e libero ma incapace di malignità. Il Bene e il Male appartenevano alla mai coscienza, stava a me forgiarli come credevo. L’analisi terminò quando sentii che ero in grado di assumere la responsabilità dei miei pensieri e delle mie azioni, qualsiasi esse fossero.”
Marie Cardinal, da “Le parole per dirlo”, 1975
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“Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Sono quelle di cui ci si vergogna, poiché le parole le immiseriscono ‐ le parole rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori. Ma è più che questo, vero? Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portare via. E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire affatto quello che avete detto, senza capire perché vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate. Questa è la cosa peggiore, secondo me. Quando il segreto rimane chiuso dentro non per mancanza di uno che lo racconti ma per mancanza di un orecchio che sappia ascoltare.”
Stephen King, da “Stagioni diverse”, 1982
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In evidenza: Foto di Sonia Simbolo