“Vi hanno briganti quando il popolo non li aiuta. Quando si ruba per vivere e morire con la pancia piena; e vi ha brigantaggio quando la causa del brigante e
è la causa del popolo allorquando questo lo aiuta, gli assicura assalti, la ritirata, il furto e ne divide i guadagni. Ora noi siamo nella condizione del brigantaggio.”
Vincenzo Padula, da “Cronache del brigantaggio in Calabria”, 1864-1865
Non era certo come Don Abbondio, il curato di quella chiesetta di Galluccio che si trovò a celebrare il matrimonio tra Michelina Di Cesare e Francesco Guerra. Per carità, forse anche lui avrebbe avuto qualcosa da ridire su quei “galantuomini” che riempivano la chiesa, tutti “barbe di ferro”, cappellacci e cinturoni. Facce da tagliagola, ma per l’occasione, tirati a lucido quel tanto che bastava per rendersi presentabili…o quasi.
Quel matrimonio “s’ebbe a fare”, anche se di fatto non venne mai registrato. Vai a capire perché… Dimenticanza? O forse ripensamento tardivo?
Eppure, se avesse dovuto scegliere, probabilmente il curato sarebbe stato dalla parte di quei briganti piuttosto che da quella dei piemontesi.
Qui, in Campania, come nel resto del Sud, i “torinesi” erano arrivati con la forza delle armi, con l’imposizione di leggi sconosciute scritte in una lingua incomprensibile. Avevano portato dogane pesanti, prezzi ancora più salati, nuove tasse (ovviamente in aggiunta alle precedenti) e, per giunta, anche la leva obbligatoria, che rubava braccia indispensabili per il lavoro dei campi.
Non che i contadini fossero stati bene sotto i Borboni, checché se ne dica oggi in tempi di sciovinismo imperante. Però, sotto i “torinesi”, tutto era peggiorato: la repressione, la miseria, lo sfruttamento, la legge marziale, i tribunali militari istituiti dalla legge Pica del 1863.
E poi il disprezzo, di cui gli uomini del Nord non facevano certo mistero: “Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Africa. I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile!” Ebbe a dire Luigi Carlo Farini, arricciando il naso, quando, nel 1860, fu nominato “luogotenente generale delle province napoletane”.
Michelina era un gran bel pezzo di ragazza, radiosa nel suo costume tradizionale e nei suoi 22 anni. Peccato che in quella chiesa piena di fiori di campo non ci fossero né il padre, morto sul suo mulo mentre portava le rape al mercato, né la madre, che quel matrimonio con un bandito non riusciva proprio a digerirlo.
Era l’anno del Signore 1863.
Michela era nata a Caspoli, una frazioncina del casertano. Inutile dire che la sua era una famiglia molto povera. Il padre Domenicantonio e la madre, Giuseppa Diodati, erano entrambi braccianti e certo non avevano tempo per stare dietro ai figli: un’altra femmina e un maschio, dei quali non si sa nulla, anche perché i briganti, nelle loro scorribande, avevano dato fuoco all’ufficio civile e alla canonica dove era custodito il registro dei battesimi.
A quanto pare, Michelina aveva l’argento vivo addosso e…le mani lunghe, per cui di furterelli ne aveva fatti tanti. Aveva rubato un po’ di tutto: capre, pecore, polli. Forse per fame, forse per avidità, vai a saperlo.
Resta il fatto che il sindaco di Mignano, Francesco Salvatore, segnalandola al prefetto di Caserta, la dipingerà come una ribelle, “refrattaria alla legge e ai buoni costumi, educata al furto fin da bambina, (…) tanto che fin dal 1863 scorrazza le pubbliche vie e campagne coll’orde brigantesche“.
A vent’anni Michelina aveva sposato Rocco, un “bifolco”, caduto anche lui nel dimenticatoio già a partire dal cognome, che alcuni riportano come Zenga, altri come Tanga. Comunque il suo primo marito l’aveva lasciata vedova l’anno dopo. E lei non lo rimpiangeva di certo: era stufa di uomini che si credevano in diritto di picchiare le loro donne, mogli o figlie che fossero.
Poi Michela aveva incontrato Francesco Guerra.
Lui non veniva dal suo stesso ambiente. I genitori, Michelangelo e Anna Maria Verducci, erano piccoli proprietari terrieri di Mignano, dove Michelina era solita andare a rubacchiare. Lo chiamavano tutti “il sergente”, perché aveva militato nell’esercito borbonico e, dopo la batosta inferta dai garibaldini nella battaglia del Volturno (1860), si era dato alla macchia per non tradire e perché i piemontesi non gli andavano per niente a genio.
Non c’è da stupirsi: c’era di tutto nel brigantaggio. Contadini morti di fame, esasperati dalle ruberie dei padroni e dei governanti di turno; renitenti alla leva, delinquenti comuni, nobili spiantati, disertori dei più disparati eserciti, perfino clericali e carlisti (ossia i sostenitori dei discendenti di “Don Carlos”, Carlo Maria Isidoro di Borbone-Spagna).
Ed erano in tanti a strumentalizzare il brigantaggio pescando nel torbido dei propri interessi di parte: i Borboni in funzione antisabauda, i Savoia in funzione antiborbonica, nonché per giustificare le leggi speciali e lo stato di repressione adottati nel sud.
Era un gran bell’uomo, Francesco, “forte come una quercia, barba e baffi folti che teneva a bada con il coltello“, alla maniera dei briganti. E poi sapeva essere molto premuroso con la sua bella ladra e probabilmente le aveva anche perdonato parecchie scappatelle. Perché si diceva che Michelina non avesse disdegnato il letto di qualche ufficiale piemontese. Anzi, pare che proprio questa sua “disinvoltura”, unita alle solite ruberie di cui non aveva mai perso il vizio, le permettesse di carpire informazioni utili per la banda.
Per qualche tempo Michelina fu soltanto una “manutengola” della banda di Guerra. Fu dopo una soffiata che si decise a diventare una “brigantessa a tempo pieno” nella zona impervia di Roccamonfina, là dove il suo uomo aveva stabilito il quartier generale della banda.
La vita era durissima per tutti. Per Michela riusciva ad essere perfino più dura di quella precedente, perché almeno prima, quando era solo una ladruncola, riusciva ogni tanto a racimolare qualche soldino che poi metteva da parte, sperando, un giorno, di poter realizzare il sogno di vedere il mare da vicino.
Adesso, invece, lei e gli altri briganti, braccati com’erano dai soldati, rischiavano continuamente di fare una brutta fine. Unici vantaggi, il fatto di avere vicino un uomo che si prendeva cura di lei e il ruolo tutt’altro che gregario ricoperto nella banda.
Anzi, come avrebbe testimoniato Domenico Compagnone – la “moglie di Guerra” era la sola ad essere armata di fucili a due colpi e di pistole, dotazione, questa, riservata esclusivamente ai capi.
E questo ruolo Michelina se lo meritava proprio, perché se l’era guadagnato sul campo. Come il giorno in cui ebbe l’idea di fare travestire da carabinieri il suo uomo ed altri banditi per assalire un certo Cordecchia, che, oltre ad essere pieno di soldi, era in odore di connivenza con i piemontesi.
Il colpo andò facilmente a segno. Chi avrebbe mai dubitato di quel drappello di carabinieri che stavano portando in caserma i briganti catturati?
Di certo Michelina non avrebbe mai immaginato che di lì a poco la stessa sorte sarebbe toccata a lei. Invece accadde.
Chi fu a tradirla? C’è chi sostiene che fu un massaro di Mignano, dietro compenso, ovviamente. C’è chi punta il dito contro il cugino e chi accusa addirittura il fratello. Che siano stati il denaro, o vecchi rancori mai sopiti o antichi conti in sospeso, il fattaccio accadde il 30 agosto del 1868.
Sono le 10 di sera, piove a dirotto. Un violentissimo temporale sembra aver stretto un patto di complicità con i soldati del 27° fanteria che si avvicinano di soppiatto, protetti dal vento e dal fragore dei lampi. È già da molto tempo che perlustrano quei luoghi selvaggi, dove ogni anfratto, ogni caverna, ogni macchia, può trasformarsi in un nascondiglio o in un agguato sanguinoso.
Stanno quasi per rinunciare, quando la guida si ricorda di un gruppo di querce incavate quel tanto che basta per nascondere una persona.
È qui che trovano Francesco e Michelina.
Francesco, afferrato per il collo e sbattuto per terra, ingaggia un corpo a corpo con il suo assalitore, ma viene freddato da una fucilata.
Michela tenta di scappare. Il medico del battaglione la colpisce alla schiena, ma lei continua disperatamente a correre, finché non viene falciata da una raffica di fucilate.
Saranno davvero andate così le cose? Questo è ciò che è scritto nei rapporti ufficiali, ma il corpo di Michelina, denudato per poi essere esposto nella piazza principale del paese, mostra evidenti segni di pestaggi.
La storia non insegna, ma spesso si ripete…
A non morire è il il fascino della “Bella Michela Ca nun s’arrènne”, come nella canzone di Eugenio Bennato, “Il sorriso di Michela”:
“Tu che stai lì, prigioniera, perché sei donna del Sud,
Così bella, così fiera, nella consapevolezza
Che più forte del brigante non può esserci che la sua brigantessa.
Tu sei il sorriso di Michela e colpisci il tuo nemico
Col tuo sguardo di pantera ed il tuo sorriso antico
E la sfida che tu lanci come un fiore dal balcone del tuo Sud.
E sei tu che combatti la tua guerra di frontiera
Sei il sorriso di Michela
E sei tu donna del Sud.
Tu sei il sorriso di Michela che non ti sei mai arresa
Sei il sorriso che combatte la retorica infinita
Di chi ha invaso la tua terra per rubare il tuo sorriso
E la tua vita.
Bella ‘sta storia
E chi la sente,
Bella la gente
Ca la racconta
Bella la terra
Ca nun sâ scorda,
Bella Michela
Ca nun s’arrènne…”
Maddalena Vaiani