“Il viaggio, dunque, come persuasione. (…) La persuasione: il possesso presente della propria vita, la capacità di vivere l’attimo, ogni attimo e non solo quelli privilegiati ed eccezionali, senza sacrificarlo al futuro, senza annientarlo nei progetti e nei programmi, senza considerarlo semplicemente un momento da far passare presto per raggiungere qualcosa d’altro. Quasi sempre, nella propria esistenza, si hanno troppe ragioni per sperare che essa passi il più rapidamente possibile, che il presente diventi quanto più velocemente futuro, che il domani arrivi quanto prima, perché si attende con ansia il responso del medico, l’inizio delle vacanze, il compimento di un libro, il risultato di un’attività o di un’iniziativa e così si vive non per vivere ma per aver già vissuto, per essere più vicini alla morte, per morire.
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Viaggiare sentendosi sempre, nello stesso momento, nell’ignoto e a casa, ma sapendo di non avere, di non possedere una casa. Chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite; dorme in stanze che prima e dopo di lui albergano sconosciuti, non possiede il guanciale su cui posa il capo né il tetto che lo ripara. E così comprende che non si può mai veramente possedere una casa, uno spazio ritagliato nell’infinito dell’universo, ma solo sostarvi, per una notte o per tutta la vita, con rispetto e gratitudine. Non per nulla il viaggio è anzitutto un ritorno e insegna ad abitare più liberamente la propria casa. Poeticamente abita l’uomo su questa terra, dice un verso di Holderlin, ma solo se sa, come dice un altro verso, che la salvezza cresce là dove cresce il pericolo. Nel viaggio, ignoti fra gente ignota, si impara in senso forte a essere Nessuno, si capisce concretamente di essere Nessuno. Proprio questo permette, in un luogo amato divenuto quasi fisicamente una parte o un prolungamento della propria persona, di dire, echeggiando don Chisciotte: qui io sono chi sono.
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Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi. Oltrepassare frontiere; anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forma, salvandola così dall’istinto – ma senza idolatrarle, senza farne idoli che esigano sacrifici di sangue. Saperle flessibili, provvisorie e periture, come un corpo umano, e perciò degne di essere amate; mortali, nel senso di soggette alla morte, come i viaggiatori, non occasione e causa di morte, come lo sono state e lo sono tante volte. Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte.
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Ogni viaggio implica, più o meno, una consimile esperienza: qualcuno o qualcosa che sembrava vicino e ben conosciuto si rivela straniero e indecifrabile, oppure un individuo, un paesaggio, una cultura che ritenevamo diversi e alieni si mostrano affini e parenti. Alle genti di una riva quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, mescolandosi alle persone che vi transitano e andando da una riva all’altra fino a non sapere più bene da quale parte o in quale paese si sia, si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo. “Dov’è la frontiera?” chiede Saramago sul confine tra Spagna e Portogallo ai pesci che, nello stesso fiume, nuotano, a seconda che guizzino vicino a una sponda o a un’altra, ora nel Duero ora nel Douro.
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Molte cose cadono, quando si viaggia; certezze, valori, sentimenti, aspettative che si perdono per strada – la strada è una dura, ma anche buona maestra. Altre cose, altri valori e sentimenti si trovano, s’incontrano, si raccattano per via. Come viaggiare, pure scrivere significa smontare, riassestare, ricombinare; si viaggia nella realtà come in un teatro di prosa, spostando le quinte, aprendo nuovi passaggi, perdendosi in vicoli ciechi e bloccandosi davanti a false porte disegnate sul muro.
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Viaggiare è un’esperienza musiliana, affidata al senso delle possibilità piuttosto che al principio di realtà. Si scoprono, come in uno scavo archeologico, altri strati del reale, le possibilità concrete che non si sono materialmente realizzate ma esistevano e sopravvivono in brandelli dimenticati dalla corsa del tempo, in varchi ancora aperti, in stati ancora fluttuanti. Viaggiare significa fare i conti con la realtà ma anche con le sue alternative, con i suoi vuoti; con la Storia e con un’altra storia o con altre storie da essa impedite e rimosse, ma non del tutto cancellate.
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Il viaggio nello spazio è insieme un viaggio nel tempo e contro il tempo. La complessità stratificata e condensata di un luogo talora emerge con violenza, come semi che spacchino il guscio. Noi siamo tempo rappreso, ha detto una volta Marisa Madieri. Non solo un indi¬vi¬duo, anche un luogo è tempo rappreso, tempo plurimo. Non è solo il suo presente, ma pure quel labirinto di tempi ed epoche diverse che si intrecciano in un paesaggio e lo costituiscono, così come pieghe, rughe, espressioni scavate dalla felicità o dalla malinconia non solo segnano un viso, ma sono il viso di quella persona, che non ha mai soltanto l’età o lo stato d’animo di quel momento, bensì è l’insieme di tutte le età e gli stati d’animo della sua vita.
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Ognuno attraversa un luogo con un suo ritmo. Uno va svelto, uno si ciondola. Una città – una pagina – si percorre in mille modi: attento, lento, sincopato, frettoloso, distratto, sintetico, analitico, dispersivo.
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Viaggiare è immorale, diceva Weininger viaggiando; è crudele, incalza Canetti. Immorale è la vanità della fuga, ben nota a Orazio che ammoniva a non cercare di eludere i dolori e gli affanni spronando il cavallo, perché la nera angoscia, dice il suo verso, siede in groppa dietro il cavaliere che spera di farle perdere le proprie tracce. L’ io forte, secondo il filosofo viennese presto stroncato dalla convivenza con l’ assoluto, deve restare a casa, guardare in faccia angoscia e disperazione senza volerne essere distratto o stordito, non distogliere lo sguardo dalla realtà e dal combattimento; la metafisica è residente, non cerca evasioni né vacanze. Forse talora l’ io resta a casa e a viaggiare è un suo sembiante, un simulacro simile a quello di Elena che, secondo una delle versioni del mito, aveva seguito Paride a Troia, mentre la vera Elena sarebbe rimasta, per tutti i lunghi anni della guerra, altrove, in Egitto. Weininger denunciava nel viaggio la tentazione dell’ irresponsabilità; chi viaggia è spettatore, non è coinvolto a fondo nella realtà che attraversa, non è colpevole delle brutture, delle infamie e delle tragedie del paese in cui s’ inoltra. Non ha fatto lui quelle leggi inique e non ha da rimproverarsi di non averle combattute; se il tetto di una notte crolla ed egli non ha proprio la disgrazia di restare sotto le macerie, non ha altro da fare che prendere la sua valigia e spostarsi un po’ più in là. In viaggio si sta bene perché, a parte qualche sciagura, terremoto o disastro aereo, non può veramente accaderci nulla; non si mette in gioco la propria vita. Il viaggio è anche una benevola noia, una protettrice insignificanza. L’ avventura più rischiosa, difficile e seducente si svolge a casa; è là che si gioca la vita, la capacità o incapacità di amare e di costruire, di avere e dare felicità, di crescere con coraggio o rattrappirsi nella paura; è là che ci si mette a rischio. La casa non è un idillio; è lo spazio dell’ esistenza concreta e dunque esposta al conflitto, al malinteso, all’ errore, alla sopraffazione e all’ aridità, al naufragio. Per questo essa è il luogo centrale della vita, col suo bene e il suo male; il luogo della passione più forte, talora devastante – per la compagna e il compagno dei propri giorni, per i figli – e la passione coinvolge senza riguardi. Andare in giro per il mondo vuol dire pure riposarsi dall’ intensità domestica, adagiarsi in piacevoli pause pantofolaie, lasciarsi andare passivamente – immoralmente, secondo Weininger – al fluire delle cose. C’ è un’ altra immoralità del viaggio, la chiusura dinanzi alla diversità del mondo. Il viaggiatore mitteleuropeo è facilmente un Ulisse in veste da camera, come ha scritto Giorgio Bergamini, uno che vorrebbe navigare fra una poltrona e una biblioteca, sul blu oceanico dell’ atlante piuttosto che su quello delle onde; uno per il quale l’ infinito è il segno matematico dell’ infinito.
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Crudeltà del viaggio, ammonisce Canetti: il viaggiatore guarda al mondo con curiosità ed è in qualche modo propenso ad accettare ciò che vede, anche il male e l’ ingiustizia, a conoscerli e a capirli piuttosto che a combatterli e a respingerli. Il viaggio nei Paesi totalitari, ad esempio, è sempre un po’ colpevole, una complicità o almeno neutralità di fatto nei confronti delle violenze e delle infamie celate dietro i villaggi Potemkin che si attraversano e dove si trova ospitalità. Eppure, a poco a poco, il viaggiatore scopre, è costretto a scoprire la fraternità e il comune destino del mondo, a sentire che il mondo intero è la sua casa e che solo questo sentimento rende vero il suo amore per la casa lasciata al suo paese, che altrimenti sarebbe un orrido e regressivo feticismo. Come per il vagabondo buonannulla di Eichendorff, amore delle lontananze e amore del focolare coincidono, perché in quel focolare si ama pure il vasto mondo sconosciuto e in quest’ ultimo si coglie, anche nelle forme più diverse, l’ intimità del focolare.
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Viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere stranieri fra stranieri è forse l’ unico modo di essere veramente fratelli. Per questo la meta del viaggio sono gli uomini; non si va in Spagna o in Germania, ma fra gli spagnoli o fra i tedeschi.
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Talvolta i luoghi parlano, talvolta tacciono, hanno le loro epifanie e le loro chiusure. Come ogni incontro, pure quello con i luoghi – e con chi ci vive – è avventuroso, ricco di promesse e di rischi. Alcuni luoghi, Venezia o Praga, parlano anche al viaggiatore più distratto e ignaro con l’ evidenza stessa del loro apparire e della vita che vi si svolge. Altri si affidano a un’ eloquenza indiretta, seducono solo chi li attraversa conoscendo ciò che è avvenuto fra quegli alberi o in quelle strade: la stanza in cui è morto Kafka, a Kierling, dice tante cose ma solo a chi sa che tra quelle pareti ha vissuto le sue ultime ore Kafka e guarda anche le crepe sui muri in questa luce. Altri luoghi si chiudono in un opaco segreto e l’ incontro fallisce; pure il viaggio, come ogni avventura, è esposto alla sconfitta e all’ aridità. Ciò avviene perché il viaggiatore – per ignoranza, per superbia, per accidia – non trova la chiave per entrare in quel mondo, il vocabolario e la grammatica per capire quella lingua e decifrare quella cultura.
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Ci sono luoghi che affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che incantano perché, già la prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio. Conoscere è spesso, platonicamente, riconoscere, l’emergere di qualcosa magari ignorato sino a quell’attimo ma accolto come proprio. Per vedere un luogo occorre rivederlo.
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Il viaggiatore resta fedele pure alle occasioni mancate e perdute; non corregge il passato né se stesso col senno di poi, ma cerca di portare quante più cose – percezioni, realtà, ipotesi, progetti – nel futuro, altrettanto precario e destinato a essere presto superato come quel passato. Il viaggio è una realtà all’indicativo, ma anche al congiuntivo. Ogni viaggio ovviamente ha la sua misura, il suo ritmo, il suo passo e il suo respiro.
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“Je voyage, ha detto un pazzo parigino, pour connaître ma géographie.”
Claudio Magris, da “L’infinito viaggiare”, Prefazione
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Foto di Cafi von Stauffenberg