…Non solo perché la scuola riapre i battenti come ogni anno, non perché i genitori altrimenti non sanno a chi lasciare i figli per andare al lavoro, non perché “così si fa in ogni società civile“.
Bisogna tornare a scuola per ritrovare qualcosa che è mancato anche al più lavativo dei nostri figli, che sia disposto ad ammetterlo o che lo tenga per sé per paura di sembrare il secchione di turno.
Bisogna tornare a scuola per ritrovarci, per ricucire quel filo sottile che ci illudiamo di poter spezzare quando approdiamo all’università o quando entriamo nel mondo del lavoro, ma che in realtà ci lega e ci guida lungo il corso di tutta la nostra esistenza.
E a cui torniamo, sempre. Altrimenti che senso avrebbero le solite “rimpatriate” tra vecchi compagni di scuola? Giù a snocciolare ricordi, episodi detti e ridetti, raccontati centinaia di volte, ma di cui si ride o ci si commuove come se fossero sempre nuovi, come se si ascoltassero per la prima volta.
Ci torniamo ostinandoci a voler aiutare i nostri figli a fare i compiti o a studiare argomenti di cui non ricordiamo un bel niente, brontolando con “le materie e con i programmi che non sono più quelli di una volta“.
O quando incontriamo i nostri vecchi insegnanti, gli unici con i quali scopriamo di sentirci un po’ più giovani, o addirittura più piccoli, senza che però questo ci infastidisca, come succede invece con i nostri genitori.
Da questa scuola interiore, che ci portiamo appresso come un guscio di lumaca, in realtà non siamo mai usciti. E non perché…”i genitori, la società civile” ecc., ma perché a scuola siamo cresciuti, ci siamo messi alla prova, abbiamo dovuto sfidare i nostri limiti, abbiamo tremato, abbiamo scoperto di non essere stupidi oppure di sentirci tali, abbiamo “bigiato“, sognato a occhi aperti o dormito, quando le lezioni erano troppo noiose.
A scuola ci siamo incontrati, conosciuti, amati e odiati per la prima volta, a scuola abbiamo guadagnato il primo spazio “privato“, il primo che fosse tutto “nostro“, lontano dagli occhi indiscreti e indagatori della famiglia. Il primo luogo in cui gli adulti sono ammessi solo in quanto insegnanti o presidi o bidelli, che poi comunque sono pure adulti sui generis, visto che la loro identità è così intrinsecamente legata a questo mondo di bambini e di adolescenti.
Non possiamo scippare la scuola ai nostri figli.
E neppure possiamo ipotizzare, come “simpaticamente” ha fatto qualcuno, di tirar fuori dalla cassapanca della nonna la figura dell’istitutore privato, perché le palline di naftalina ci possono proteggere dalle tarme, ma non dalle chiusure e dall’immobilità, se non dalla violenza, delle mura domestiche.
Dobbiamo rientrare a scuola per riprovare il brivido del primo giorno, per ascoltare di nuovo quelle urla e quegli improvvisi silenzi, e poi la campanella, che per gli studenti è un po’ come la sirena di una fabbrica. Solo che qui non ci sono macchine, automazioni e pezzi di ricambio.
Qui è l’uomo che si costruisce, con la sua curiosità, le sue risate, i sui pianti, le sue passioni, le sue sfide. Con i suoi primi amici, i suoi primi nemici, con i primi amori. Con tutte quelle cose, vicende e persone che nessuno di noi scorderà mai. Provando un pizzico di inconfessabile nostalgia perfino per ciò che è andato male.
Non possiamo chiudere la scuola. Non possiamo toglierla ai nostri figli, neppure per ripararli e per ripararci da questo virus maledetto.
E non perché ne va del futuro, della conoscenza, della cultura.
Ma perché senza la scuola rischieremmo di restare tutti orfani.
Orfani di noi stessi.
Maddalena Vaiani