“L’Imperatore ci ha fatto chiamare. Dice che quest’anno dovremo lavorare il doppio, il triplo, forse il quadruplo, e forse lui alla fine ci darà qualcosa piú del solito, mica il quadruplo, eh, e nemmeno il triplo, ma qualcosa: chessò, due cinghialetti per fare un banchetto tutti quanti assieme, noi trecento boscaioli della squadra imperiale, o un sacco di farina a testa, non so, non ce l’hanno detto, non è per il premio che bisogna mettersi in marcia e lavorare il triplo o forse il quadruplo, no. È per la gloria, per il fatto di partecipare alla grande impresa del nostro Signore, che poi manco su quella ci han detto granché, perché per lavorare il doppio, il triplo, forse il quadruplo, non hai bisogno di sapere il motivo preciso: se ti dicono che il lavoro andrà a maggior gloria del tuo Signore, niente domande, accontentati del privilegio, pigliati un pezzettino di gloria, pigliati il cinghialetto o il sacco di farina, e vattene contento. D’accordo, però si sa come vanno queste cose: le voci girano, il ciambellano parla col giullare che parla con la damigella che parla col pizzicagnolo che lo dice alla moglie e gira e rigira finisce che lo sa l’intero paese, e insomma si dice che il nostro Signore non ha convocato solo noi, i trecento della squadra imperiale, ma pure i migliori cantastorie e menestrelli, letterati e monaci miniaturisti, perché ha in animo di raccogliere tutte le storie, i racconti, le leggende e le fiabe, e metterle dentro un libro, anzi, molti libri, tanti che se li metti uno sull’altro fai una torre piú alta della Campanara, per questo gli serve una montagna di carta, tanto grande da non poterla immaginare, ma noi già immaginiamo quanti alberi e boschi ci toccherà abbattere, quante terre lontane dovremo visitare per avere abbastanza legna, quanta acqua servirà per tirarne fuori la carta, tanta che non basterebbe prosciugare i fiumi del paese, e allora smettiamo subito di pensare, di immaginare, meglio affilare gli attrezzi e mettersi al lavoro. Per primo andiamo su al Nord, dove ci sono le foreste piú grandi e la legna migliore, e mentre prepariamo le asce e le seghe e qualcuno ha già cominciato il lavoro, sentiamo una voce scendere dalla cima della montagna, come portata dal vento. Dice di chiamarsi Yjyk-Mar e di essere una grande betulla, alta fino al nono cielo, con le anime dei morti che fanno il nido sui rami, e dentro i nodi della corteccia ci vivono stregoni dagli straordinari poteri, e questa betulla dice che sta lí, sulla montagna, fin dall’inizio del mondo, e dal tronco esce un liquido giallo schiumoso che i viandanti lo bevono e scompare la stanchezza e si dissolve la fame, e anche il primo uomo, appena arrivato sulla Terra, siccome voleva capire che ci stava a fare, venne a berne qualche goccia, e allora scoprí una cavità in mezzo al tronco, e da quella uscí la prima donna e gli disse che erano lí per diventare i genitori del genere umano.
Il problema è che qui son tutte betulle, piú o meno uguali, e non sappiamo come distinguere questa Yjyk-Mar dalle altre, ché se era possibile magari cercavamo di non abbatterla, ma cosí no, mica si può lasciar lí tutto il bosco per risparmiare la betulla parlante, e poi siamo solo all’inizio, se iniziamo a farci dei problemi non si parte piú, altro che doppio, triplo e quadruplo, altro che cinghialetti, sacco di farina e spizzichi di gloria. Terminato il lavoro, andiamo a sud e arriviamo su un’isola con al centro un monte di nome Ida, che nella lingua di quel posto vuol dire boscoso, ed è proprio per quello che ce lo siamo scelto, però anche lí, dopo un po’, arriva una voce e dice: non vi è bastato abbattere Yjyk-Mar, siete venuti a fare lo stesso col frassino di Nemesi, detta Adrastea, la ninfa che nutrí Zeus proprio in una grotta di questo monte, dove ogni nove anni il re Minosse veniva a incontrare quel dio, e riceveva leggi ed energie per regnare altri nove anni. Nel frattempo tutta l’isola faceva sacrifici e da Atene arrivavano sette giovani e sette fanciulle per placare la fame del Minotauro, un mezzo uomo e mezzo toro che viveva in una stanza buia al termine dei mille cunicoli che si diramano sul fondo della grotta di Zeus.
Pazienza. Mi sa che quel monte dovrà cambiare nome.
Dopo andiamo a est e di nuovo, mentre ci prepariamo, ecco la voce: non vi è bastato tagliare il tronco di Yjyk-Mar e il frassino di Nemesi sul Monte Ida, ora siete venuti a far lo stesso con l’albero di fico sotto il quale Śākyamuni detto Gautama, detto Siddhārtha si liberò di sé stesso grazie a sé stesso e diventò il Buddha.
Ma noi che possiamo fare? Dobbiamo lavorare, abbiamo l’ordine dell’Imperatore, non ci resta che alzare le scuri, abbattere tronchi e ripartire. Trovato un altro bosco, non abbiamo nemmeno infilato i guanti che una voce striscia in mezzo alle felci: non vi è bastato spezzare il tronco di Yjyk-Mar, il frassino di Nemesi sul Monte Ida e il fico di Siddhārtha Gautama detto Buddha, ora farete lo stesso con il lauro di Dafne. Dafne rifiutava tutti i pretendenti per vivere libera tra gli eremi dei boschi, finché Eros fece innamorare di lei Apollo, che non la lasciava piú in pace, e allora secondo alcuni si stancò e chiese al padre Peneo di tramutarla in albero, mentre secondo altri lo chiese alla Madre Terra e quella fece un trucco, lasciò lí un lauro e si prese Dafne, la portò alle pendici del Monte Ida e le diede un nuovo nome, Pasifae, che poi sposerà Minosse, si innamorerà di un toro bianco promesso a Poseidone, farà in modo di accoppiarsi con lui e darà alla luce il Minotauro.
E dopo il lauro di Dafne, stessa sorte toccherà al pioppo di Leuke, che si trasformò in albero per sfuggire al dio degli Inferi, Ade.
Poi sarà la volta del tiglio di Filira, figlia di Oceano, nipote di Crono, che un giorno la sedusse, si uní a lei e, scoperto dalla figlia Era, si tramutò in stallone e scappò via. Nove mesi dopo, Filira diede alla luce un mostro, mezzo cavallo e mezzo uomo e ne ebbe tanta vergogna da chiedere al padre di tramutarla in tiglio; poi toccherà al pino di Pitis, che aveva due pretendenti, Pan e Borea, il vento del Nord, ma Pitis preferí Pan, e allora Borea soffiò talmente forte da precipitarla giú da un burrone e quando Pan arrivò sul fondo la trovò mezza morta e per salvare quel po’ di vita che le restava la tramutò in pino e cosí da allora, quando in autunno soffia il vento del Nord, dalle pigne del pino sgorga la resina: le lacrime di Pitis.
Infine ci accaniremo su Caria, tramutata in noce, e con Filide, morta per amore e trasformata in mandorlo, e con Ciparisso, che per errore uccise il cervo che gli faceva compagnia e dal dolore chiese agli dèi che lo mutassero nell’albero che piange sempre, l’albero dei morti.
Detto fatto. E alla tappa successiva siamo talmente abituati che ormai la voce non la sentiamo piú.
«Non vi è bastato abbattere la betulla Yjyk-Mar, segare il frassino di Nemesi, tagliare il fico di Gautama Buddha, il lauro di Dafne, il pioppo di Leuke, il tiglio di Filira, il pino di Pitis, il noce di Caria, il mandorlo di Filide e il cipresso dei morti. Non vi siete voluti fermare, e nemmeno adesso lo farete di fronte al bosco di Cappuccetto Rosso, di Pollicino, di Hansel e di Gretel».
Quindi la foresta di Broceliande, dove Merlino si ritirò, impazzito per la morte dei fratelli, e dove conobbe la fata Viviane, e le insegnò tutti i sortilegi, fino a lasciarsi rinchiudere in una casa di vetro nel cuore della selva. E poi il bosco di Nemi, dove Numa Pompilio andava a chiedere consiglio alla ninfa Egeria per scrivere i suoi decreti. E la foresta di Sherwood, con Robin Hood e gli allegri compari, e il terrificante bosco dei Galli che fermò le armate romane finché Cesare raccolse una scure, abbatté una quercia secolare, prese su di sé tutta la colpa del sacrilegio e ordinò ai suoi uomini di distruggerlo, e quelli lo fecero, pensando bene che la collera di Cesare doveva essere piú imminente, e forse anche piú terribile, di quella delle divinità della selva, che nel giro di pochi anni fecero risorgere il bosco, nello stesso luogo, piú rigoglioso di prima.
E siccome dobbiamo fare il doppio, il triplo, forse anche il quadruplo del lavoro di un anno, eccoci su un monte chiamato Golgota, dove la solita voce ci avverte che fra i tanti alberi della vetta ce n’è uno molto particolare, un cedro germogliato dalla croce del Cristo, o meglio, dalla base della croce, rimasta interrata là in cima, mentre il resto se lo sono portato via, perché una scheggia è finita pure da noi, nella cattedrale. Allora decidiamo di proseguire, ché tanto un pezzo della croce già s’è salvato, e dell’albero germogliato dalla base se ne può pure fare a meno. Ormai non resta piú molta legna per soddisfare i bisogni del nostro Signore, abbiamo già fatto il doppio, il triplo, forse il quadruplo del lavoro di un anno, ma torniamo a nord, nella terra delle foreste, per vedere se c’è rimasto qualcosa. E mentre ci spostiamo, passiamo da un posto chiamato Dodona, ai piedi del monte Tamaro, e facciamo scorta di querce, anche se la voce ci chiede di passare oltre e preservare quegli alberi, che in tempi lontani hanno aiutato un grande popolo a prevedere il futuro, gioie e catastrofi, a seconda del rumore che il vento e la tempesta producevano tra le fronde.
Giunti di nuovo a nord, troviamo un frassino gigantesco. I rami salgono fino in cielo e coprono il mondo con la loro chioma, le radici scendono fino al regno dei morti e alla fonte della vita. La voce non si fa attendere: non avete avuto pietà di Yjyk-Mar né del frassino di Nemesi, non avete risparmiato il fico di Buddha, il lauro di Dafne, il pioppo di Leuke, il tiglio di Filira, il pino di Pitis, il noce di Caria, il mandorlo di Filide e il cipresso dei morti. Avete abbattuto il bosco delle fiabe, la foresta di Broceliande e quella di Sherwood, il bosco di Nemi e quello dei Galli, l’albero della croce e le querce di Dodona. Ora giustizierete anche Yggdrasill, il «corsiero di Odino», che si fece appendere ai suoi rami per morire e poi rinascere, dopo aver conosciuto il segreto del regno dei morti, la lingua delle rune, che conferisce ogni potere.
E mentre affiliamo la sega piú grande, Yggdrasill ci rivela che i nostri sforzi sono privi di senso, che non è servito a nulla lavorare il doppio, il triplo, forse anche il quadruplo degli altri anni, perché alla fine non riceveremo né cinghiali né farina, e nemmeno spizzichi di gloria, visto che la gloria del nostro Signore è vana e falsa come un moneta di peltro.
Dice Yggdrasill: l’Imperatore ha messo da parte tanta carta come non se n’è mai vista, una montagna, che a mettere i fogli uno sopra l’altro si può raggiungere la luna, eppure tutti quei fogli non gli serviranno, ora che i boschi sono stati abbattuti. Nemmeno i menestrelli, i letterati e i cantastorie possono farci nulla, perché di storie da ricopiare nella grafia degli amanuensi, leggende di dèi ed eroi, favole antiche e recenti, di tutto questo non è rimasto nulla, né ricordo, né memoria, né origine.
Wu Ming
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Fonte: wumingfoundation.com