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Sana’i: “Viaggio nel regno del ritorno”

31.01.2022
Apostrofe al vento
Salve o messaggero imperiale, che trono hai d’Acqua
e di Fuoco corona!
Sei il Tappezziere della terra, ma di terra non sei,
e sei il Pittore dell’acqua, ma non sei fatto d’acqua.
Nella sorte fausta e nell’infausta, tu le nubi sospingi
e guidi i vascelli.
Con te in virtù del materiale principio ha incessante
commercio Io spirito animale.
Per tua virtù il fuoco è come messe corallina e l’acqua è simile a corazza di smeraldo.
Tu dei giardini sei il volto e il sostegno, delle piante tu sei la nutrice e l’amante.
Sei causa dell’arido e portatore dell’umido, sei il padre di Gesù e il cavallo di Jamshîd.
Liberamente tu soffi sul volto del mare e simile lo rendi alle squame di un pesce.
Pur umile tu somigli allo Spirito, sei a tutti invisibile,
eppur sei presente.
T’innalzi sino all’Etere ma non lo superi, vagabondi
per l’Oceano ma senza bagnarti.
L’incedere delle creature ha il ritmo del tuo passo,
private di te, la loro casa ha il tuo nome
Sei calamo che disegna il moto della conoscenza, sei
la prima tavola in cui s’imprimono le parole.
Avanzi senza paura al pari della morte, per questo
hai libero accesso ad ogni casa.
Tu sei creatore, n’è prova la tua magnificenza e sei
creatura, giacché soggiaci al mutamento.
Nel sepolcro d’argilla, nella bara di fuoco, dispensi a
quest’ anima vigore e nutrimento.
Ascendi alla corona celeste, discendi sul trono terreno, or ti muti in verzura, or in eterea essenza.
Per te il manto si schiude sul corpo della rosa, il colletto dei cipressi e la veste dei fiori.
Innalzi padiglioni sulla superficie del Mare e il capo
sollevi alle altezze dell’Etere.
A primavera i germogli trai dalla terra, l’inverno dall’acqua tra i cristalli di ghiaccio.
La freccia della gemma tu scocchi alla sua meta e ami pettinare le fronde del bosso.
Ora sei il servo che confabula nei vicoli, ora sei il pittore dei volti del creato.
Fino a quando vagherai, così senza regola, mescolandoti alle compagnie di giocolieri?
Fino a quando dovrai trarre vigore dai vili o sarai galleria di esseri indegni?
Or s’è vero che vaghi per monti e deserti e sai misurare i quartieri del mondo,
Se è vero che voli agilmente tra le vette e gli abissi dell’orbe terrestre,
Liberati allora, o natura angelica, dalla morsa dell’Acqua e del Fuoco.
A calci prendi e l’Etere e il Mare, e innalza le tue
tende sulla corona delle Pleiadi!
Per un istante, dalla lingua della mia visione ascolta
l’ Arcano della mia creazione.
Chiunque non è ad esso iniziato, sappilo, non può
avere altro nome che quello di «vento».
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Dei gradi della vita vegetativa sulla via della bellezza esteriore

Non appena nel cortile dell’Antica Dimora, fu vuoto di me il grembo del fiat!
Dal sommo potei discendere sino all’infimo, ottemperando umilmente al comando divino.

E qui una Balia incontrai di stirpe antica, che era stata generata con il moto dei cieli.
Una vecchia maleodorante, una ruota possente, ignara del sole come pure dell’ombra.

Ella aveva preceduto le creature del mondo, ed era stata la nutrice persino di Adamo.
Di ogni animale, secondo il rango e il valore, ella era balia, cuoca o attendente.

Ebbene costei si mise al mio fianco, volle accudirmi al modo di una madre.
Ella è la causa prima della generazione, specie delle piante le devono tutto.

Per lei il virgulto ha un aspetto per lei il cedro libero svetta.
Per lei i roseti dischiudono le corolle, per lei i cipressi si ergono al cielo.

Per lei spunta a primavera la mano delle foglie verziere sboccia il volto dei fiori.
Ogni sostanza che questa Ruota accresce, di poi il suo moto la innalza nel cielo.

E i ruscelli, i tesorieri dell’acqua, per lei scorron diritti come alef o sinuosi come nun.
All’inizio, quand’ero un infante, ella non sapeva distinguermi da un ceppo.

Come ignaro vegetale mi nutrivo senza posa vivendo al modo di un giovane arbusto.
La Balia, ad ogni stadio della mia esistenza, si mostrava a me con tutte le sue arti.

In principio mi cucì un abito verde che poi acquistò il colore del rubino.
Poi che persi speranza del verde e del rosso; ella mi donò una veste bianchissima.

E quando strappai quella candida veste, ella mi cucì una tunica del color del giuggiolo.
Poi mi preparò, per meglio dissimularmi, una maglia di aloe e una celletta di canfora.

E dopo avermi abbigliato nell’intimo, mi rivestì esternamente con una guaina.
Cosi ebbi un riparo, sia pur brulicante di demoni eptacefali, con sei lati, quattro parti e cinque usci.

Ed erano porte di argento, di onice e d’ambra, una era chiusa e quattro erano ben aperte.
Poi a me, per ogni colore della rugiada, i nove astri si mostrarono dalle sfere celesti.

E come si chiuse la splendida parata, ella fece della mia veste e cibo e bevanda.
In ultimo, allorché il fondamento fu radice ben salda, ella mi inviò alla Città del Padre.

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Esternamente era nuova, internamente antica,
meravigliosa la sua terra, la sua aria fetida.

Le sue piante somigliavano al cuore di un sapiente, le
radici in alto e i rami volti al basso.

Vi sorgevano tende di polvere e aria, con chiodi di
fuoco e corde d’acqua.

Il suo spazio era aperto a viandanti e marinai, il suo
riposo era fatto di lotte e uccisioni.

Vi regnava un Re dai due volti e delle dieci teste,
figlio di due madri e di due padri.

Aveva cinque teste che osservavano il deserto
e cinque teste che scrutavano il cielo.

Era fonte di nobiltà e causa di sperpero, opera di
scienza e insieme di giustizia.

Aveva una veste di brame, ingordigia e rancore, una
anima di demone, di animale feroce e pur mansueto.

Egli è luce esternamente, ma il suo interno è fuoco,
da fuori appare uno, da dentro quattro.

L’armonia delle sue parti è causa di vita, ma la loro
discordia porta il figlio alla morte.

Egli ottiene vigore dall’armonia dei suoi elementi,
debolezza dalla discordia tra padri e madri,

E fonte di energia e di coscienza, è causa di mani e
occhi e naso e lingua e orecchi.

E sottomette la prole alla ruota dei cieli: guarda
l’oppressione che deriva dal suo influsso!

Qual è la natura d’armonia? È prosperità. E qual è il
volto della discordia? E’ rovina.

Il verde abito di primavera deriva da ordine, il volto
giallo dell’autunno da dispersione.

Ed è solo nelle radici d’armonia che si piantano i
chiodi delle tende smaltate dei cieli!

Ma questo mio breve sermone lo comprende il saga-
ce, lo stolto ne ride soltanto.

Nella giustizia alberga la rettitudine: lo sappia colui
che non la coltiva.

La giustizia priva della retta alef è una belva, così
come il vento privo dell’alta alefè funesto.

[In questa Città] ora il padre assume il volto della
madre, ora la madre l’aspetto del padre.

I suoi soldati, votati al male e all’oppressione
sono demoni e fiere,  belve rapaci.

Tre sono i Suoi servitori: Il fuoco, la luce e la tenebra
due le sue giumente: la fulva e la bruna.

I suoi operai son pittori di vane speranze e i suoi
cavalli spregevoli cavalcature.

Invero ciò che elargisce è la rovina dei suoi operai,
ciò che genera è pastura pel suoi cavalli.

Il suo Governatore è un amico e un pittore di vane
forme; il suo Tesoriere è maestro e servitore.

Quando infine il signore della mia indole mi presentò
al Principe della vita e della corruzione,

Questi mi accolse con doni e lusinghe, volle educarmi
e mi eresse una piccola cella.

ma quando ebbe misurato i suoi limiti, egli dispose
di affidare a mio solo vantaggio

Le quattro barriere ai Sette Mansueti e le cinque
porte al Cinque Ricercatori.

Branchi di leoni io vedevo e di onagri, e mandrie di
mostri e animali da soma.

Tutti di natura triste ma di fede assai lieta, gran di-
voratori ma dalla Vista corta.

Intenti in azioni o in desideri d’offesa
eran presi unicamente dal cibo e dal sonno.

Simili a oranghi, viaggiavano per mesi e anni ma
immobili restavano come bestie da mola.

Pur percorrendo un cammino interminabile, non fa-
cevano che ruotare intorno al loro sterco.

E io simile a demone o asino, a fiera o giumenta,
smanioso dl agi, di cibo, di sonno e di voglie,

Senza posa vagavo per monti e deserti, arrancando
come gli ammali più mesti.

Se vuoi la verità, il mio cuore in quei luoghi fu presto
ben sazio di questi occhi ingordi.

I sensi han da piegarsi alla nostra elevazione, essi
sono al servizio dell’Anima Loquente.

E invero, quand’Ella mi mostrava il suo volto, tutto
intero mi strappava a questa terra!

Mi liberava da quel mio vano cercare e m’innalzava
dalla terra sino alla volta celeste!

Ma quando ricadevo nella mia antica natura,
ridiventavo demone o fiera o bestia da tiro.

La mia natura mi sospingeva dunque verso il basso ,
la la mia essenza mi chiamava all’ alto.

E io ristavo nel mezzo, come sospeso- la meta sempre
lontana, la via ardua e spaventosa,

La casa avvolta nel fumo, gli occhi dolenti, la Strada
irta di spade e frecce, le membra inerti

Come abbagliato io ero e privo di scienza e vigore,
né altra guida avevo che un cieco ammale.

Più non possedevo scienza, umana o divina, né –
né in esse nutrivo fiducia alcuna.

Oh, se anche tu avessi per guida una bestia accecata,
la tua dimora più dolce sarebbe Ia tomba!

Finalmente io fuggii quei pascoli e quei cammini,
divenni bramoso di una guida e di una via.

E un giorno, andando per uno stretto sentiero
all’improvviso io vidi attraverso le tenebre

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Della vita razionale o dell’intelletto passivo
Incontrai un vecchio gentile e luminoso quale

è un credente nelle tenebre dell’empietà.
Era umile, amabile e misurato, arguto, elegante profondo e garbato.

Il suo tempo fluiva più veloce del nostro,
la sua vecchiezza fioriva più di nuova primavera.

Occhio era la sua anima intemerata, e il corpo, i sette
organi e le sei cause, si riducevano a un cuore.

I suoi piedi erano di luce inviolata, l’ombra della
schiena rifletteva il suo petto.

Sovrastava i terreni orizzonti su nulla poggiando, era
causa di spazio e spazio non prendeva.

Gli dissi: «O fiaccola delle mie notti, o messia che
guarisce le mie febbri!

Donde lo splendore, la perfezione e la maestà che tu
mostri? E tanta grazia e avvenenza e nobiltà?

Oh, regale condizione è quella di chi si getta ai tuoi
piedi! É quale meraviglioso luogo è un pozzo oscuro,

se tu in esso qual luna ti rimiri!
O tu, sostanza pregiata e impalpabile, infine dimmi.

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Chi sei e donde trai la tua essenza?
Rispose: «Io sono più alto di ogni spazio o sostanza,
chi sei, e donde trai la tua essenza».
giacché mio padre è il Ministro di Dio.
Egli è il primo grado della Preesistenza, è il sole
dell’alba del Non Essere primordiale.
È la causa prima di codesta dimora e del terrestre
tappeto, e persino del trono divino.
E il suo trono non sta sotto i piedi di un vile, né
il suo tappeto è tessuto dalla volta celeste.
Ma egli tesse a vostro solo beneficio la tunica
dell’eternità nella casa del transeunte.
È per ordine di mio padre ch’io qui languo immobile,
in questa tomba dall’aria fetida.
Per rendermi utile e non per stoltezza, rimasi
nei ceppi di un mondo straniero.
E chi mai, essendo nato sovrano, si rassegnerebbe
alla vita del guardiano di porci?
Non è indecorosa, persino agli occhi più meschini,
l’amicizia di un Gabriele con una mosca?
A te chiedo: si può gareggiare col cavallo che divide
la stalla con un asino?»
lo così risposi: «In verità non puoi trarne beneficio».
E lui: «Quale vantaggio può trarre
Mai un lavandaio da coloro che vanno svestiti?
O il bel Giuseppe dall’amore di chi è cieco?
lo sono un gioiello abbandonato nella polvere della
via, un Giuseppe carcerato nel profondo di un pozzo.
Può forse un asino apprezzare le virtù di Gesù?
O un sordo gradire gli inni di Davide?
È cosa grata a un vivente, per forte che sia, giacere
in una tomba tra due cadaveri?»
E similmente portò mille esempi profondissimi,
senza produrre né suono né parola.
Allora io gli chiesi: «Mio nobile maestro dai politi
discorsi, perché in essi non odo né voce né parola?»
Rispose: «Codeste forme servono a voi soltanto,
voce e parola sono la legge della vostra città.
Ma in verità provengono dalla provincia d’Ignoranza
ai vertici della Scienza sono straniere.
Dalle vostre bocche i discorsi escono sottili come
capelli, da voi i discorsi escono oscuri.
La Fonte del verbo in verità la contempla solo colui
che si copre d’infamia!
Dobbiamo volgere gli occhi al Regno del Ritorno, di
là dobbiamo trarre il nostro viatico!
Per lunghi che siano i vostri discorsi, non dispiegano
che oscenità e corrodono l’esistenza.
O tu, sotto l’azzurro castello un pugno di polvere
Avvia i tuoi passi verso la Città della Preesistenza,
e lascia ai cani codesta casa di ossa
Come puoi attardarti a disputare con gli asini?
Come puoi rimanere abbracciato a un cane?
Asino non sei, perché ti ostini ad ammassare paglia?
Non sei un cane, perché fai incetta di ossa?
Tu infine puoi uscire dal regno vegetale,
da questa terra puoi ascendere alla volta del cielo!
Affonda le tue unghie nella tunica di un saggio,
sappi dominare i tuoi impulsi brutali!
Distogli te stesso dal cibo e dal sonno, poniti
in cammino, dimentica le tradizioni!
Le tue provviste in quest’arduo viaggio saranno
fuoco e fiamme, come per lo struzzo.
Un fuoco da cui non nasce impotenza, un fuoco
sì da cui scaturisce l’Acqua-di-Vita!
Io sarò il tuo amico se lo desideri, e ti prenderò per
mano, se avrai saldo il piede.
Afferra il mio ramo, se vuoi divenirne un frutto sii ai
miei piedi, se aspiri a divenire un capo!
Io non ho come i serpenti la coda al posto dei piedi,
né tu vedi doppio come fan gli scorpioni.
Ma con questi miei piedi tu camminerai a testa alta,
con questi miei occhi inizierai a vedere!
Sappi lottare contro le belve e le fiere, così liberando
sia me che te stesso!»
Come sulla via dell’inganno io conobbi costui, lesto
la chioma gli offrii a mo’ di portantina.
Quindi gli porsi la mia testa come cavalcatura,
e gli donai per dimora la mia anima.
Prendemmo quindi consiglio di partire, egli divenne
il mio occhio e io il suo piede.
Da allora egli fu il mio amico e io il suo confidente,
l’uno all’altro avvinti come Giona e il Pesce.

Sana’i di Ghazna (noto anche come Ḥakīm Sanāʾi, mistico persiano vissuto tra il 1080 ca. e il 1150 ca.), da “Viaggio nel regno del ritorno”

Il “viaggio” è un percorso iniziatico durante il quale il viandante, dopo essere disceso nell’inferno sublunare, popolato di esseri immondi e dopo aver attraversato il regno degli astri, che rappresenta l’impotenza della ragione e del sapere, ascende alla pura Luce. Evidente il parallelismo con la “Divina Commedia”, tanto più che Dante, forse anche per il tramite del suo maestro Brunetto Latini (che si recò in Spagna alla corte di re Alfonso X) doveva conoscere sia l’opera di Sana’i, sia la tradizione degli ḥadīth (racconto) sull’ isrāʾ e sul miʿrāj (rispettivamente: il viaggio notturno di Maometto in sella Buraq e la sua successiva ascesa al Cielo), alla quale quasi sicuramente si ispirò.

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