Il nuovo giardiniere era un ragazzo coi capelli lunghi, e una crocetta di stoffa in testa per tenerli fermi. Adesso veniva su per il viale con l’innaffiatoio pieno, sporgendo l’altro braccio per bilanciare il carico. Innaffiava le piante di nasturzio, piano piano, come versasse caffelatte: in terra, al piede delle piantine, si dilatava una macchia scura; quando la macchia era grande e molle lui rialzava l’innaffiatoio e passava ad un’altra pianta.
Il giardiniere doveva essere un bel mestiere perché si potevano fare tutte le cose con calma.
Marianunziata lo stava guardando dalla finestra della cucina. Era un ragazzo già grande, eppure portava ancora i calzoni corti. E quei capelli lunghi che sembrava una ragazza. Smise di risciacquare i piatti e batté sui vetri.
– Ragazzo, – disse.
Il ragazzo-giardiniere alzò la testa, vide Marianunziata e sorrise.
Anche Marianunziata si mise a ridere, per rispondere a lui, e perché non aveva mai visto un ragazzo coi capelli così lunghi e con una crocetta come quella in testa. Allora il ragazzo-giardiniere le fece “vieni qui” con la mano e Marianunziata continuava a ridere per quel suo modo buffo di fare i gesti, e si mise anche lei a fare gesti per spiegargli che aveva da rigovernare i piatti. Ma il ragazzo-giardiniere le faceva “vieni qui” con una mano e con l’altra indicava i vasi delle dalie. Perché indicava i vasi delle dalie? Marianunziata schiuse i vetri e mise la testa fuori.
– Cosa c’è? – disse, e si mise a ridere.
– Dì: vuoi vedere una bella cosa?
– Cos’è?
– Una bella cosa. Vieni a vedere. Presto.
– Dimmi cosa.
– Te la regalo. Ti regalo una bella cosa.
– Ho i piatti da lavare. Poi viene la signora, e non mi trova.
– La vuoi o non la vuoi? Alè, vieni.
– Aspetta lì, – disse Marianunziata, e chiuse la finestra.
Quando uscì dalla porticina di servizio, il ragazzo-giardiniere era sempre lì che bagnava i nasturzi.
– Ciao, – disse Marianunziata.
Marianunziata sembrava più alta perché aveva le scarpe belle coi sugheri, che era un peccato tenerle anche per i servizi, come piaceva a lei. Ma aveva una faccia bambina, piccola in mezzo al riccio dei capelli neri, e anche le gambe ancora magre e bambine, mentre il corpo, negli sbuffi del grembiule, era già pieno e adulto. E rideva sempre: a ogni cosa detta dagli altri o da lei, rideva.
– Ciao, – disse il ragazzo-giardiniere. Aveva la pelle marrone, sulla faccia, sul collo, sul petto: forse perché stava sempre così, mezzo nudo.
– Come ti chiami? – disse Marianunziata.
– Libereso, – disse il ragazzo-giardiniere.
Marianunziata rideva e ripeté: – Libereso… Libereso… che nome, Libereso.
– È un nome in esperanto, – disse lui. – Vuol dire libertà, in esperanto.
– Esperanto, – disse Marianunziata. – Sei esperanto, tu?
– L’esperanto è una lingua, – spiegò Libereso. – Mio padre parla esperanto.
– Io sono calabrese, – disse Marianunziata.
– Come ti chiami?
– Marianunziata, – e rideva.
– Perché ridi sempre?
– Ma perché ti chiami Esperanto?
– Non Esperanto: Libereso.
– Perché?
– E perché tu ti chiami Marianunziata?
– È il nome della Madonna. Io mi chiamo come la Madonna e mio fratello come san Giuseppe.
– Sangiuseppe?
Marianunziata scoppiava dal ridere: – Sangiuseppe! Giuseppe, non Sangiuseppe! Libereso!
– Mio fratello, – disse Libereso, – si chiama Germinai e mia sorella Omnia.
– Quella cosa, – disse Marianunziata, – fammi vedere quella cosa.
– Vieni, – disse Libereso. Posò l’innaffiatoio e la prese per mano.
Marianunziata s’impuntò: – Dimmi cos’è, prima.
– Vedrai, – disse lui, – mi devi promettere che la terrai da conto.
– Me la regali?
– Sì, te la regalo -. L’aveva condotta nell’angolo vicino al muro del giardino. C’erano delle piante di dalia in vaso alte quanto loro.
-È lì.
– Cosa?
– Aspetta.
Marianunziata faceva capolino dietro le sue spalle. Libereso si chinò per spostare un vaso, ne alzò un altro, vicino al muro, e indicò per terra.
– Lì, – disse.
– Cosa? – disse Marianunziata. Non vedeva niente: era un angolo in ombra, con foglie umide e terriccio.
– Guarda che si muove, – disse il ragazzo. Allora lei vide una pietra di foglie che si muoveva, una cosa umida, con occhi e piedi: un rospo.
– Mamma mia!
Marianunziata era scappata saltando tra le dalie con le scarpe belle di sughero. Libereso era accoccolato vicino al rospo e rideva, con i denti bianchi in mezzo alla faccia marrone.
– Hai paura! È un rospo! Perché hai paura?
– È un rospo! – gemette Marianunziata.
– È un rospo. Vieni, – disse Libereso.
Lei gli puntò contro un dito: – Uccidilo.
Il ragazzo mise le mani avanti, quasi a ripararlo: – Non voglio. È buono.
– È un rospo buono?
– Sono tutti buoni. Mangiano i vermi.
– Ah, – disse Marianunziata, ma non s’avvicinava. Si mordeva il colletto del grembiule e cercava di vedere torcendo gli occhi.
– Guarda che bello, – disse Libereso e mise giù la mano.
Marianunziata s’avvicinò: non rideva più, guardava a bocca aperta: – No! Non lo toccare!
Libereso con un dito stava carezzando il rospo sulla schiena verde-grigia, piena di verruche bavose.
– Sei matto? Non sai che brucia, a toccarlo, e ti fa gonfiare la mano?
Il ragazzo le mostrò le sue grosse mani marrone, con le palme rivestite da uno strato giallo calloso.
– A me non fa niente, – disse. – È così bello.
Aveva preso il rospo per la collottola come fosse un gattino e se l’era posato sul palmo d’una mano.
Marianunziata, mordendosi il collarino del grembiule, s’avvicinò e gli s’accoccolò vicino.
– Mamma mia che impressione, – disse.
Erano accoccolati tutt’e due dietro le dalie, e i ginocchi rosa di Marianunziata sfioravano quelli marrone tutti sbucciature di Libereso.
Libereso passava una mano sul dorso del rospo, di palma e di dorso, e ogni tanto lo riacchiappava quando voleva scivolar giù.
– Carezzalo anche tu, Marianunziata, – disse.
La ragazza si nascose le mani in grembo.
– No, – disse.
– Come? – lui disse, – non lo vuoi?
Marianunziata abbassò gli occhi, poi guardò il rospo e li riabbassò subito.
– No, – disse.
– È tuo. Te lo regalo, – disse Libereso.
Marianunziata aveva gli occhi annuvolati, adesso: era triste rinunciare a un regalo, nessuno le faceva mai regali, ma il rospo proprio le metteva schifo.
– Te lo lascio portare in casa, se vuoi. Ti terrà compagnia.
– No, – disse. Libereso rimise in terra il rospo che s’andò subito ad acquattare tra le foglie.
– Ciao, Libereso.
– Aspetta.
– Devo finire di lavare i piatti. La signora non vuole che esca in giardino.
– Aspetta. Ti voglio regalare qualcosa. Una cosa proprio bella.
Vieni.
Lei si mise a seguirlo per i vialetti di ghiaia. Era uno strano ragazzo, Libereso, con i capelli lunghi e che pigliava in mano i rospi.
– Quanti anni hai, Libereso?
– Quindici. E tu?
– Quattordici.
– Compìti o da compire?
– Li compio il giorno dell’Annunciazione.
– È già passato?
– Come, non sai quand’è l’Annunciazione?
S’era rimessa a ridere.
-No.
– L’Annunciazione, quando c’è la processione. Non ci vai alla processione?
– Io no.
– Al mio paese sì che ci sono delle belle processioni. Al mio paese non è come qui. Ci sono grandi campi tutti di bergamotti e nient’altro che bergamotti. E tutto il lavoro è raccogliere bergamotti da mattino a sera. E noi eravamo quattordici fratelli e sorelle, e tutti raccoglievamo bergamotti, e cinque sono morti bambini, e a mia madre venne il tetano, e noi siamo stati in treno una settimana per venire da zio Carmelo e lì si stava in otto a dormire in un garage. Dì, perché porti i capelli così lunghi?
Si erano fermati a un’aiuola di calle.
– Perché così. Anche tu li hai lunghi.
– Io sono una femmina. Se li porti lunghi sei come una femmina.
– Io non sono come una femmina. Non è dai capelli che si vede se uno è maschio o femmina.
– Come non è dai capelli?
– Non è dai capelli.
– Perché non è dai capelli?
– Vuoi che ti regali una bella cosa?
– Sì.
Libereso si mise a girare tra le calle. Erano tutte sbocciate, le bianche trombe al cielo. Libereso guardava dentro ogni calla, ci frugava dentro con due dita e si nascondeva qualcosa nella mano stretta a pugno. Marianunziata non era entrata nell’aiuola e lo guardava ridendo in silenzio. Cosa faceva, Libereso? Ormai aveva passato in rivista tutte le calle. Venne tendendo avanti le mani una nell’altra.
– Apri le mani, – disse.
Marianunziata tese le mani a conca ma aveva paura a metterle sotto le sue.
– Che hai lì dentro?
– Una bella cosa. Vedrai.
– Fammi vedere, prima.
Libereso schiuse le sue mani e la lasciò guardare dentro. Aveva le mani piene di cetonie: cetonie di tutti i colori. Le più belle erano le verdi, poi ce n’erano di rossicce e di nere, e una anche turchina. E ronzavano, scivolavano una sulla corazza dell’altra e ruotavano le zampine nere in aria.
Marianunziata si nascose le mani sotto il grembiule.
– Tieni, – disse Libereso, – non ti piacciono?
– Sì, – disse Marianunziata, ma teneva sempre le mani sotto il grembiule.
– A stringerle in mano fanno il solletico: vuoi sentire?
Marianunziata tese avanti le mani, timidamente, e Libereso ci fece scendere quella cascatella d’insetti di tutti i colori.
– Coraggio. Non mordono.
– Mamma mia! – Non aveva pensato che potessero morderla.
Aprì le mani e le cetonie lasciate andare in aria aprirono le ali e i bei colori scomparvero e ci fu solo uno sciame di coleotteri neri che volavano e si posavano sulle calle.
– Peccato; io voglio farti un regalo e tu non vuoi.
– Devo andare a rigovernare. Se la signora non mi trova, poi grida.
– Non lo vuoi un regalo?
– Cosa mi regali?
– Vieni.
Continuava a condurla per mano tra le aiuole.
– Devo tornare presto in cucina, Libereso. Poi devo spennare una gallina.
– Puah!
– Perché: puah?
– Noi non mangiamo carne di animali morti.
– Sempre quaresima, fate?
– Come?
– Cosa mangiate?
– Tante cose, carciofi, lattuga, pomodori. Mio padre non vuole che si mangi la carne degli animali morti. E neanche caffè e zucchero.
– E lo zucchero della tessera?
– Lo vendiamo alla borsa nera.
Erano arrivati a una cascata di piante grasse, tutta stellata di fiori rossi.
– Bei fiori, – disse Marianunziata. – Ne prendi mai?
– Per fare?
– Per portarli alla Madonna. I fiori servono per portare alla Madonna.
– Mesembrianthemum.
– Cosa?
– Si chiama Mesembrianthemum, questa pianta, in latino. Tutte le piante si chiamano in latino.
– Anche la Messa è in latino.
– Non so.
Libereso stava sbirciando tra il serpeggiare dei rami sulla parete.
– Ecco là, – disse.
– Cos’è?
C’era un ramarro, fermo al sole, verde con disegnini neri.
– Ora lo piglio.
-No.
Ma lui s’avvicinava al ramarro a mani aperte, piano piano, poi uno scatto: acchiappato. Ora rideva contento con il suo riso bianco e marrone. – Guarda che mi scappa! – Dalle mani chiuse ora sgusciava la testina smarrita, ora la coda. Anche Marianunziata rideva, ma faceva dei salti all’indietro ogni volta che vedeva il ramarro, e si stringeva la sottana tra i ginocchi.
– Insomma, non vuoi proprio che ti regali nulla? – disse Libereso, un po’ mortificato, e piano piano posò su un muretto il ramarro che saettò via: Marianunziata teneva gli occhi bassi.
– Vieni con me, – disse Libereso e la riprese per mano.
– A me piacerebbe avere un tubetto di rossetto, e dipingermi le labbra alla domenica per andare a ballare. E poi un velo nero per mettermi sulla testa, dopo, quando si va alla benedizione.
– Alla domenica, – disse Libereso, – vado al bosco con mio fratello e riempiamo due sacchi di pigne. Poi, alla sera, mio padre legge forte dei libri di Eliseo Reclus. Mio padre ha i capelli lunghi fin sulle spalle e la barba fino al petto. E porta i calzoni corti, estate ed inverno.
E io faccio dei disegni per la vetrinetta della FAI. E quelli col cilindro sono i finanzieri, quelli col cheppì i generali, e quelli col cappello tondo i preti. Poi ci do i colori all’acquarello.
C’era la vasca e tonde foglie di ninfea che galleggiavano.
– Zitta, – fece Libereso.
Sott’acqua si vide la rana che veniva su con scatti e abbandoni delle braccia verdi. A galla, saltò su una foglia di ninfea e ci si sedette in mezzo.
– Ecco, – fece Libereso, e calò una mano per acchiapparla, ma Marianunziata fece: – Uh! – e la rana saltò in acqua. Ora Libereso cercava ancora col naso a fior d’acqua.
– Laggiù.
Cacciò sotto una mano e la tirò fuori chiusa a pugno.
– Due in una volta, – disse. – Guarda. Sono due una sopra l’altra.
– Perché? – disse Marianunziata.
– Maschio e femmina appiccicati, – disse Libereso, – guarda come.
E voleva mettere le rane in mano a Marianunziata. Marianunziata non sapeva se aveva paura perché erano rane o perché erano maschio e femmina appiccicati.
– Lasciali stare, – disse, – non bisogna toccare.
– Maschio e femmina, – ripeté Libereso. – Poi fanno i girini.
Una nuvola passava sopra il sole. Improvvisamente Marianunziata si disperò.
– È tardi. Certo la signora mi sta cercando.
Ma non se ne andava. Continuavano a girare per il giardino, e non c’era più sole. Fu la volta d’una biscia. Era dietro una siepe di bambù, una piccola biscia, un orbettino. Libereso se la fece arrotolare a un braccio e le carezzava la testina.
– Una volta ammaestravo le bisce, ne avevo una decina, anche una lunga lunga e gialla, di quelle d’acqua. Poi ha cambiato la pelle ed è scappata. Guarda questa che apre la bocca, guarda la lingua tagliata in due. Carezzala, non morde.
Ma Marianunziata aveva paura anche delle bisce. Allora andarono alla vaschetta di rocce. Prima le fece vedere gli zampilli, aprì tutti i rubinetti e lei era molto contenta. Poi le mostrò il pesce rosso. Era un vecchio pesce solitario, e già le squame cominciavano a imbianchire. Ecco: il pesce rosso piaceva a Marianunziata. Libereso cominciò a girare le mani in acqua per acchiapparlo, era una cosa difficile ma poi Marianunziata poteva metterlo in un vasetto e tenerlo
anche in cucina. Lo prese, ma non lo tirò fuori dall’acqua per non farlo soffocare.
– Metti le mani giù, carezzalo, – disse Libereso, – si sente che respira; ha le pinne come di carta e le scaglie che pungono, ma poco.
Ma Marianunziata non voleva carezzare neanche il pesce.
In un’aiola di petunie c’era del terriccio morbido e Libereso ci grattò con le dita e tirò fuori dei lombrichi lunghi lunghi e molli molli.
Marianunziata scappò con dei piccoli gridi.
– Poggia la mano qui, – disse Libereso indicando il tronco d’un vecchio pesco. Marianunziata non capiva ma ci mise la mano: poi gridò e corse ad immergerla nell’acqua della vasca. L’aveva tirata su piena di formiche. Il pesco era tutto un va e vieni di formiche “argentine” piccolissime.
– Guarda, – disse Libereso e appoggiò una mano al tronco. Si vedevano le formiche che gli salivano su per la mano ma lui non si toglieva.
– Perché? – disse Marianunziata. – Perché ti riempi di formiche?
La mano era già nera, già le formiche gli salivano su per il polso.
– Leva la mano, – gemeva Marianunziata. – Ti fai montare tutte le formiche addosso.
Le formiche gli salivano sul braccio nudo, erano già al gomito. Ormai tutto il braccio era coperto da un velo di puntini neri che si muovevano; già le formiche gli arrivavano all’ascella ma lui non si scostava.
– Togliti, Libereso, butta il braccio in acqua!
Libereso rideva, qualche formica dal collo gli passava già alla faccia.
– Libereso! Tutto quello che vuoi! Prenderò tutti i regali che mi dai!
Gli buttò le braccia al collo, prese a strofinargli via le formiche.
Allora Libereso staccò la mano dall’albero, ridendo bianco e marrone, e si spolverò il braccio con noncuranza. Ma si vedeva che era rimasto commosso.
– Ebbene, ti farò un grande regalo, ho deciso. Il più gran regalo che posso farti.
– Cosa?
– Un porcospino.
– Mamma mia… La signora! La signora che chiama!
Marianunziata aveva finito di rigovernare i piatti quando sentì battere un sassolino ai vetri della finestra. Sotto c’era Libereso con una grossa cesta.
– Marianunziata, fammi salire. Voglio farti una sorpresa.
– Non puoi salire. Cosa porti lì dentro?
Ma in quel momento la signora suonò e Marianunziata scomparve.
Quando tornò in cucina Libereso non c’era. Né dentro, né sotto la finestra. Marianunziata s’avvicinò all’acquaio. Allora vide la sorpresa.
Su ogni piatto messo ad asciugare c’era un ranocchio che saltava, una biscia era arrotolata dentro una casseruola, c’era una zuppiera piena di ramarri, e lumache bavose lasciavano scie iridescenti sulla cristalleria. Nel catino pieno d’acqua nuotava il vecchio e solitario pesce rosso.
Marianunziata fece un passo indietro ma si vide tra i piedi un rospo, un grosso rospo. Anzi, doveva essere una femmina perché dietro le veniva tutta la nidiata, cinque rospettini in fila, che avanzavano a piccoli balzi sulle piastrelle bianche e nere.
Italo Calvino, da “Ultimo viene il corvo”, 1947
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Libereso Guglielmi è stato veramente “il giardiniere di Calvino” – come spesso viene definito. – anche se in realtà, più che un semplice giardiniere, era un botanico eccezionale. A Villa Meridiana (la residenza della famiglia Calvino) era arrivato nel 1940 ed aveva cominciato il suo apprendistato alla scuola del grande scienziato Mario Calvino, il padre dello scrittore: con lui aveva cominciato ad acclimatare gli avocado in Liguria. Nel ’51, dopo la morte del suo maestro e mentore, LIbereso lavorò per dieci anni come capo giardiniere del Giardino Botanico di Middletown House a Londra. Appassionato “giunglista”, vegetariano come suo padre – perché «il cespo d’ insalata ricresce, l’ agnello no» – ha sempre custodito dentro di sé quel pacifico anarchismo e quell’anarchismo pacifista che gli permetteva ovunque di raccogliere e di piantare semi, fossero di piante, di popoli, di culture o perfino di religioni, che in fondo «sono paia di occhiali, dove cambia soltanto il colore delle lenti». Libero, sempre, come quel nome che gli aveva messo suo padre, anarchico e studioso di esperanto. Libereso, che vuo dire “libertà assoluta”.