E quando anche mia nonna si voltò e lo vide si mise a gridare. Sul momento non compresero. Poi la nonna cominciò a correre verso quello scheletro di 35 kg che si trascinava tra i ciottoli e lo abbracciò. Un abbraccio che sembrava non finire mai. Piangeva forte la nonna. Loro non l’avevano mai vista piangere così. Solo allora capirono che lei lo aveva riconosciuto.
Era suo figlio, il “Dado”, il loro fratello che era tornato a piedi da Mauthausen, che era sopravvissuto al Lager.
Il nonno invece l’avevano riconosciuto: qualche giorno dopo la liberazione, l’avevano visto che arrivava dall’argine del Lavino, camminando pian piano con un fagotto sulle spalle. Era tornato a piedi da un campo di concentramento nei pressi di Bolzano. Ce lo avevano mandato nel 1944, dopo essere stato a lungo rinchiuso a San Giovanni in Monte, il carcere di Bologna, perché era antifascista. Mia nonna, tutti i giorni andava là per portargli un po’ di cibo e sapere come stava. Poi ritornava a San Giacomo in Martignone, dove erano sfollati. Erano 21 km a piedi per andare e 21 km per tornare, pioggia o neve che fosse, perché non aveva neppure una bicicletta. Un giorno, uno dei tanti, fece la solita fila per vederlo e quando arrivò le dissero che non c’era più, ma non le dissero dove lo avevano mandato.
Quando leggo Anna Achmatova, penso sempre a mia nonna e a tutte le donne come lei, madri, figlie, sorelle durante la guerra. Penso a mia nonna, col suo pacco di povero cibo contadino tra le mani, che viene rispedita indietro. Quel pacco era una sussistenza più morale che fisica: dentro c’era solo qualche pezzo di pane o una coperta vecchia, impacchettati e legati con avanzi di spago usato. Era ben poca cosa ma in realtà il suo valore era altissimo, tanto più prezioso del contenuto: era sentire una mano che ti stringeva forte e non ti lasciava andare, che ti carezzava con dolcezza nei momenti difficili quando pensavi che non ce l’avresti fatta. Le donne facevano la fila, tutte uguali, come al carcere leningradese di cui parla Anna Achmatova nel suo Requiem: “L’immensa fila dei congiunti degli imputati, nella quasi totalità donne, si snodava da un’apertura nel muro dell’edificio nella quale venivano accettati i pacchi che ciascuno recava. A volte capitava di dover fare la fila per due giorni di seguito prima di poter arrivare allo sportello”. Poi succedeva che, una volta giunte, il pacco non venisse più accettato. Voleva dire che l’imputato era stato fucilato. Nei terribili anni della “ezovscina” ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi “riconobbe“. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): – Ma lei può descrivere questo? E io dissi: – Posso. Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto.” 1 aprile 1957. Leningrado
Queste erano le mie storie da bambina. Non c’è da stupirsi quindi che quando la maestra Clara alle elementari ci lesse il libro “Il campo giusto” di Elio Cicchetti, a me piacque tantissimo. Era una storia di resistenza, di uomini e donne che insieme si opponevano al Male, che imbracciavano le armi per difendere i deboli dagli invasori, i giusti contro i cattivi. Adesso al cinema esce un film della Marvel ogni mese … giusto? In fondo, mi chiedo, che differenza c’è? Per me i partigiani erano un po’ come gli Avengers, se non dei vendicatori, almeno dei giustizieri. Legioni di difensori che proteggevano dagli invasori, anche se in questo caso non alieni bensì altri esseri umani. Quando la maestra invitò a parlare in classe Cicchetti, fu come se avessi visto Spiderman e Dostoevskij insieme e non dormii tutta notte.
In seguito ho passato lunghe notti insonni, per una guerra che, in fondo, io non ho mai vissuto se non per voce
e memoria delle donne della mia famiglia. Sono stati talmente tanti i racconti di paura e terrore che il fascismo ha lasciato in eredità alla mia famiglia che, fino a 30 anni d’età, ho avuto incubi in cui i nazisti mi catturavano, o persone che parlavano in tedesco e mi inseguivano. Solo con diversi anni di terapia i sogni cattivi sono cessati ma l’eredità è rimasta.
D’altronde il nonno, con tutti i difetti con cui veniva dipinto, rude, anaffettivo e a volte anche un po’ violento, era anche una vera e propria roccia. Nonno Gaetano, come altri in quegli anni, non fece mai la tessera fascista. Chi non era iscritto al fascio, o le famiglie dei giovani che non si erano presentati alla leva della Repubblica Sociale Italiana (Rsi), rimanevano tagliati fuori dalla distribuzione dei razionamenti alimentari. A loro non toccava nemmeno un pezzo di pane. Lui aveva 9 figli, tre maschi e 6 femmine, e quando si dice che con la guerra le persone hanno patito la fame, la famiglia di mia madre ne è un esempio da manuale. Non avevano nemmeno le razioni base di pane (circa 200g al giorno) e di pasta (2kg al mese), il poco riso e le patate, la pochissima carne, lo zucchero e l’olio che si ricevevano solo presentando la tessera annonaria detta, già di per sé, “della fame”.
Un giorno, un vicino di casa convinse il nonno a farsi una foto insieme a tutti i figli (rigorosamente vestiti da Balilla): serviva a documentare la loro condizione di famiglia numerosa, l’avrebbero inviata a Roma e avrebbero così ricevuto il premio che Mussolini concedeva in questi casi. “Un popolo ascende in quanto sia numeroso”, e si dava denaro a chi faceva più figli. Vi dice niente? Non solo premiavano le famiglie numerose, ma tassavano i celibi! (Facciano attenzione i single… che con i sentimenti che corrono oggi forse hanno di che preoccuparsi.)
Così si vestirono tutti da rispettosi fascisti e si misero in posa per l’ingannevole fotografia. Lo so perché quella foto ce l’ho io. Quando la trovai tra le cose di mia zia Nice, dopo la sua morte, non credevo ai miei occhi. Com’era possibile che fossero tutti vestiti da fascisti? Ma a casa mia non erano antifascisti? Cosa mi avevano raccontato per anni? Credevo di aver scoperto un segreto di famiglia. Ed era così. Questo episodio infatti non lo raccontavano mai. La mamma poi mi ha spiegato che quando il nonno vide la foto, tenendola tra le mani gli si velarono gli occhi e non disse più nulla. La foto non la spedì mai, quella che oggi io tengo in mano è l’originale. Continuarono a fare la fame, poveri ancor più di quanto tutti fossero, e ad essere derisi da altri che erano solo un po’ meno poveri, ma sicuramente più aridi, fino alla fine della guerra.
Il nonno è stato un grande esempio. Lo è ancora. Non era un partigiano. Ma non diventò mai fascista. Anche se tornava quasi tutte le sere pestato o riempito di olio di ricino dai fascisti squadristi.
Anni dopo, alle medie, lessi “Centomila gavette di ghiaccio”. Altro capitolo della Marvel per me. Ora, i ragazzi, e non solo, leggono dei supereroi solo sui fumetti, per me le storie di eroi erano quelle che la mamma o le zie mi raccontavano: di persone che hanno camminato nella neve vestite di stracci per più di mille km, con i piedi fasciati o le scarpe di cartone, e non potendo dormire per giorni e giorni perché, se si addormentavano, rischiavano di non svegliarsi e morire assiderati; di comandanti, catturati e denudati, con temperature sotto lo zero, nel cortile dei campi, e bagnati con secchiate d’acqua fino a morire congelati ma senza mai rivelare dove fossero gli altri compagni fuggiti. Altro che “la forza sia con te” di Star Wars”!
Sono cresciuta tra quelle storie e tra voci di donne, che raccontavano di uomini normali, non di eroi. E da allora davvero credo, come diceva R.W. Emerson, che “un eroe non è più coraggioso di una persona comune, ma è coraggioso cinque minuti più a lungo”.
Il fratello più grande di mia madre, lo zio Gigi, fu mandato in Russia. E tornò vivo. Per me era come “La Cosa” dei Fantastici 4, forse perché era anche alto e un po’ robusto.
Lo zio che tornò da Mathausen fu arrestato a soli 17 anni e deportato perché la casa di contadini in cui erano sfollati era un covo di partigiani. Nascondevano lì le armi e la cascina fungeva da punto d’incontro, arrivo o partenza, delle varie formazioni di combattenti, o delle donne che facevano da staffetta portando messaggi.
Mia madre era una bambina e ricorda che una notte i tedeschi arrivarono con un uomo incappucciato. Lo riconobbe anche se era coperto. Sapevano bene tutti chi fosse. I traditori sono sempre presenti nei fumetti no? Disse che lì c’erano dei partigiani, pareva sapere tutto di tutti. Allora radunarono tutte le donne in una stanza. Il terrore le fece stringere tutte come se fossero una cosa sola. Restarono chiuse una notte intera sentendo le urla degli uomini, padri, figli e fratelli accanto, picchiati a sangue dai tedeschi per avere informazioni. Ogni volta che si apriva la porta vedevano i loro cari legati e sanguinanti, poi si richiudeva e si udivano di nuovo solo le urla. Cercavano i partigiani. Le donne sapevano dove erano nascosti, sotto le fascine di legno nell’aia. Li avevano sentiti mentre le avevano mandate a prendere della legna. Restarono rannicchiati lì per cinque giorni. Giorni e notti interminabili, per tutti. Ma nessuno parlò e un mattino, quando i nazisti alla fine se ne andarono, uscirono pian piano, alle luci dell’alba, e scapparono sull’argine, avvolti dalla nebbia del mattino. Erano cose che andavano fatte. Per fortuna qualcuno le fece.
Sono molto fiera della mia famiglia. Poco prima della liberazione nella casa erano rimasti solo donne e bambini. I tedeschi si stavano ritirando e bruciavano tutte le abitazioni, lasciandosi dietro la devastazione. Alla cascina radunarono tutte le donne nella camera in cui stava la mia famiglia, erano in 35. L’ufficiale tedesco portò con sé mia zia, la Cicci. Voleva guardarla, tenerla accanto perché diceva che le ricordava la moglie. Si stabilirono nella casa per un giorno. Il tedesco diceva a mia nonna che avrebbe comprato mia zia, e questo – sosteneva – le avrebbe fatto di certo comodo visto quanto erano poveri. Ma la nonna gli urlava sempre che non ci pensasse neppure.
Poi venne il giorno in cui partirono per la Germania. Non bruceremo la casa, disse l’ufficiale, ma devi darmi un bacio. La zia, che aveva 11 anni, gli gridò: NO!. E tutti a dire: – Dai daglielo, sulla guancia, cosa vuoi che sia? Così dopo andranno via.
E lei: – No! Adesso quando le diciamo che assomiglia al nonno, si arrabbia, ma è così vero! Il tedesco rinunciò, e non bruciò neppure la casa per fortuna. È incredibile come mia madre possa sentire gratitudine per il gesto di un nazista. Ma la guerra è così. Incomprensibile. Anche per loro che l’hanno vissuta.
I miei stanno bene. Lo zio Dado ha portato gli studenti a visitare i Lager per tutta la vita. Il suo motto era “perdonare sì, dimenticare mai”. Due anni fa è morto, e al suo posto ora sono mia madre e mia zia ad accompagnare le scolaresche nei campi di sterminio, raccontando le loro storie durante il viaggio in pullman. Un punto di vista femminile che spero resterà impresso nelle memorie di tutti quegli studenti, giovani donne e giovani uomini a cui spetta costruire un mondo dove nessuna guerra sia più di casa.”