La condizione del figlio coincide con quella dell’uomo: in una vita possiamo non diventare padri o madri, mariti o mogli, possiamo anche non avere sorelle o fratelli, ma nessun essere che abita il linguaggio, nessun essere umano, può non essere figlio. Questo significa che non esiste vita umana che sia a fondamento di se stessa, non esiste vita umana che sia ens causa sui, non esiste possibilità di auto-generazione.
La vita viene alla vita sempre da un’altra vita, è da sempre, in questo senso stretto, in debito con l’Altro. La vita viene alla vita sempre da un’altra vita, è da sempre, in questo senso stretto, in debito con l’Altro. Lo stato di inermità e di derelizione in cui il figlio viene al mondo mostra in modo chiaro questa condizione di debito e di dipendenza fondamentale all’origine della vita. Per vivere la vita umana ha bisogno della presenza dell’Altro, della sua risposta, del suo “soccorso” riteneva Freud, necessita di non essere lasciata sola nell’assoluto abbandono.
La condizione di figlio definisce l’umano come una forma di vita che non può essere concepita senza considerare la sua necessaria provenienza dall’Altro. Questo significa che – nonostante quello che il nostro tempo sembra credere – nessuno mai può essere genitore di se stesso, nessuno mai può farsi da sé, nessuna vita umana è l’artefice della sua condizione. Tutti veniamo, proveniamo, dall’Altro, siamo immersi in un processo di filiazione, in una catena generazionale: la vita umana viene sempre al mondo come vita del figlio. È una verità profonda che la psicoanalisi eredita dal cristianesimo.
Ma se essere umani significa essere figli, cosa significa, a sua volta, essere figli? Per un verso, significa non essere padroni della propria origine: la vita umana viene al mondo gettata nella catena simbolica delle generazioni, nella storia che l’ha preceduta. Essere figli significa essere generati dall’Altro, avere la propria origine nell’Altro. E’ il primo paradosso della condizione del figlio: egli ha vita propria, vita distinta, differente, ma non è mai del tutto padrone di questa vita perché la può ricevere solo dall’Altro in un indebitamento simbolico originario. Il processo di filiazione contiene questo paradosso: la vita umana è attraversata dalla vita dell’Altro, porta dentro di sé non solo un patrimonio genetico come marca biologica della sua provenienza, ma anche le parole, le leggende, i fantasmi, le colpe e le gioie delle generazioni che l’hanno preceduta. E’ fatta, costituita interamente, dalle tracce dell’Altro.
La vita del figlio è, dunque, vita propria, vita separata, distinta dalla vita dell’Altro, ma è al tempo stesso vita che, non potendo mai scegliere la sua provenienza, porta con sé tutte le impronte dell’Altro che l’hanno prodotta. Per questa ragione, secondo Freud, i bambini si cimentano con particolare predilezione nella costruzione di “romanzi famigliari” attribuendosi, attraverso il gioco della propria fantasia, origini ideali: essere la figlia o il figlio del re, di principi, di presidenti, di famosi scienziati.
Per un altro verso, la condizione del figlio è quella di realizzarsi come erede. Essere figli significa, infatti, avere il compito di ereditare, di fare nostro ciò che l’Altro – nel bene e nel male – ci ha dato. Significa riconquistare, fare davvero nostro, quello che abbiamo ricevuto. La traccia non è solo un’impronta, ma un vincolo con l’Atro che deve essere ripreso in modo singolare. Questa ripresa costituisce il compito più proprio dell’ereditare. In questo senso ogni figlio giusto è un erede: perché ha il compito di non ripetere, ma di riprendere singolarmente – di soggettivare – quello che gli è stato trasmesso da chi l’ha preceduto. Se la nostra origine ci precede e ci costituisce e nessuno di noi può mai impadronirsene – è quello che Lacan definiva come “il debito simbolico dell’uomo” nei confronti del linguaggio, – spetta al figlio il compito etico di soggettivare questa stessa origine, ovvero di differenziarsi, proprio in questa soggettivazione, dell’Altro da cui proviene.